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I MUSULMANI D’ITALIA DENUNCIANO I JIHADISTI, ECCO DOVE E COME

Novembre 22nd, 2015 Riccardo Fucile

LA BALLA DEGLI XENOFOBI HA LE GAMBE CORTE: DALL’IMAN CHE LI CACCIA FUORI DALLA MOSCHEA E LI DENUNCIA ALLA STRETTA COLLABORAZIONE CON LA DIGOS LOCALE

«Con il califfato è cambiato tutto. La divisione tra moderati o estremisti è superata dai fatti: esclusi i jihadisti, oggi tutti i musulmani rifiutano il terrorismo, ne hanno paura e sono i primi a subirlo con un enorme numero di vittime», dice un alto funzionario di polizia.
«Fino a tre anni fa avevamo di fronte organizzazioni segrete e compartimentate, con al massimo alcune centinaia di affiliati, selezionati individualmente. Tra Siria e Iraq oggi c’è un’organizzazione terroristica che è diventata uno Stato. Di fronte a cifre del genere, contrastare il pericolo di un’infiltrazione nei nostri Paesi è impossibile, se non ci aiutano le nostre comunità  islamiche».
«Sono proprio i musulmani i primi a vedere i loro figli, fratelli e sorelle assediati dalla propaganda jihadista», aggiunge un magistrato: «Solo chi fa parte della stessa comunità  o della stessa famiglia ha qualche speranza di venire a sapere se è arrivato qualche pazzo che vuole santificarsi con la guerra o che nasconde in casa armi ed esplosivi».
Per vedere se l’unica speranza che abbiamo comincia a diventare realtà , si può partire dal luogo più malfamato dell’Islam di casa nostra: Milano, viale Jenner, dove c’è la sede, eternamente precaria, della moschea più sovraffollata di Lombardia.
Qui, vent’anni fa, è nato il jihadismo. L’imam si chiamava Anwar Shaaban, un carismatico predicatore egiziano che ha reclutato in Italia decine di volontari per la guerra in Bosnia, dove è diventato il comandante di un battaglione di mujahidin, prima di essere ucciso con quattro suoi luogotenenti, il 14 dicembre 1995, dalla polizia croata.
Da allora l’antiterrorismo non ha mollato un attimo questa palazzina, anche se gli ultimi arresti risalgono al novembre 2001. Ed erano qaedisti maghrebini.
L’imam di oggi si chiama Mohamed Reda, parla un buon inglese e ha sviluppato un certo humour: «Terroristi noi? Lo vede quel vetro oscurato?», dice, mimando un saluto verso una finestra sul cortile, a dieci metri in linea d’aria.
«Lì ci sono le telecamere della Digos. Ci spiano ogni giorno, da sempre. Vedono tutto. Siamo i musulmani più sorvegliati del mondo. E un terrorista dovrebbe venire a nascondersi qui?».
Reda è omone alto due metri con una lunga barba nera, occhi scintillanti, elegante copricapo e tunica bianca da integralista doc. Non fa mistero di essere un dirigente della Fratellanza musulmana. Che per l’attuale regime egiziano sarebbe la madre di Al Qaeda, dello Stato islamico e dei terroristi del Sinai. Mentre per lui è solo un movimento che aiuta il popolo affamato: «Non siamo estremisti violenti, siamo la maggioranza!».
Di jihad globale e Califfato nero non c’è traccia negli avvisi appesi nella sala di comando del centro islamico. Reda nomina i jihadisti solo se forzato, per dire che secondo lui sono creature dei servizi segreti: servono a fermare le rivoluzioni dopo le primavere arabe. Qui dentro, vent’anni fa, i giornalisti oltretutto cristiani non erano i benvenuti.
Ora, al piano terra, il macellaio di rito islamico si presenta per nome in italiano e spalanca il frigo all’ospite: «Lo beve un mango? Acqua minerale? No, qui in moschea alcol nooo», ride di gusto.
Certo, queste sono soltanto parole. Gli inquirenti di Milano, indagando sull’italianissima jihadista Maria Giulia Sergio, hanno intercettato le sue istruzioni per dissimulare le intenzioni di guerra e nascondersi anche agli occhi dei musulmani.
Ma tra le carte delle nuove inchieste si scoprono anche fatti certi, che potrebbero rappresentare uno spartiacque: perfino i capi storici dell’integralismo cominciano davvero a denunciare i guerrafondai del califfato.
È l’11 febbraio scorso quando in viale Jenner si presenta un 27enne tunisino che vive a Ravenna, Noussair Louati, ex marito separato di un’italiana, con cui ha messo al mondo una figlia di due anni. È venuto a Milano a chiedere soldi e agganci per unirsi alla guerra santa in Siria.
Invece Mohamed Reda lo affronta a muso duro e lo sbatte fuori dalla moschea. Il tunisino si sente tradito: «Mi hanno mandato via, l’imam egiziano stava per chiamare la polizia», scrive su Internet ai suoi sodali jihadisti.
Da viale Jenner parte una telefonata di denuncia alla polizia italiana. La Digos può intercettare al volo telefoni e computer. E in aprile proprio quel jihadista diventa il primo arrestato per il nuovo reato-barriera che incrimina chi prepara viaggi di guerra. L’inchiesta si allarga: salta fuori che altri cinque tunisini sono già  partiti sempre da Ravenna per la Siria: quattro sono morti combattendo per il Califfato.
Il caso non è isolato. Le indagini documentano altre denunce uscite dalle nostre moschee.
Fin dalla prima inchiesta sui jihadisti in partenza per la Siria, avviata nel 2012. La polizia scrive alla procura di aver ricevuto «proficue segnalazioni» dai musulmani siriani di Milano. Sono preoccupati dalle violenze di una ventina di picchiatori, con base a Cologno Monzese, che vogliono andare a combattere con le milizie islamiche e intanto organizzano segretamente un pezzo di guerra civile a casa nostra: sanguinosi pestaggi di gruppo contro altri siriani.
Quei jihadisti pregano e cercano reclute a Cascina Gobba, periferia di Milano: una moschea guidata da due leader siriani della Fratellanza musulmana.
La polizia intercetta tutti quanti, nella convinzione che lì dentro si nasconda una base di reclutamento. L’inchiesta dimostra il contrario.
I jihadisti si rivelano infuriati contro i due imam integralisti: li accusano di «immobilismo», di sprecare soldi in «inutili manifestazioni pacifiche» invece di «impugnare le armi contro il dittatore Assad».
Altre soffiate arrivano dai musulmani della vicina moschea di via Padova. E alla fine numerose vittime dei pestaggi, che prima tacevano terrorizzate o fuggivano da Milano, trovano il coraggio di denunciare i connazionali jihadisti.
Altri casi sono rimasti segreti. Carabinieri e polizia non mettono a verbale i nomi degli informatori.
E se un allarme è fondato si possono anche evitare indagini e pubblici processi.
In Veneto, ad esempio, c’è una piccola moschea della provincia di Treviso che si è vista infiltrare da un gruppetto di islamisti che predicano violenza.
L’imam, d’accordo con i suoi fedeli, ha avvertito le autorità  italiane, che hanno trovato i riscontri. E così, appena sono scaduti i permessi di soggiorno, tutti i guerrafondai sono stati espulsi.
Il lato assurdo della storia è che questa povera moschea veneta, come tantissime altre, è da sempre osteggiata e tuttora perseguitata dai pubblici amministratori della Lega Nord.
Il tema della collaborazione dei musulmani è in cima all’agenda dell’antiterrorismo in tutto l’Occidente. Negli Usa un’inchiesta parlamentare ha quantificato la massa di combattenti stranieri del califfato: 25 mila in Siria, altri 5 mila in Libia.
Almeno 4.500 jihadisti sono partiti da Paesi occidentali. La commissione avverte che «l’indottrinamento non avviene più nelle moschee, ma su Internet».
Anzi, i centri islamici ben integrati sono la miglior difesa: «Più del 75 per cento degli arresti eseguiti negli Stati Uniti sono legati a informatori, fonti confidenziali, familiari ed esponenti delle comunità  che hanno collaborato con le autorità ».
«La collaborazione delle comunità  islamiche è decisiva», è la tesi maturata anche da Stefano Dambruoso, parlamentare di Scelta civica e relatore dell’ultima legge anti-terrorismo.
«Nei vertici europei o dell’Onu oggi la parola chiave è de-radicalizzazione. A livello normativo tutti gli Stati occidentali, compresa l’Italia, hanno ormai raggiunto il massimo delle misure giudiziarie o di polizia ipotizzabili in una democrazia. Di fronte alla spaventosa forza di attrazione del Califfato, il contrasto al terrorismo deve spostarsi sul terreno culturale, politico, religioso, sociale. Servono campagne per prevenire l’indottrinamento. E anche per recuperare chi torna dalla guerra».
Esempi? «All’estero, sono molti. In Danimarca alcuni reduci delusi dal jihad vengono portati a parlare in pubblico, come testimonial. In Gran Bretagna c’è una campagna capillare affidata alle principali associazioni islamiche per contrastare l’ideologia dell’odio. In Francia c’è “Stop jihadism”, un sito di contro-propaganda che smaschera la violenza del califfato usando codici comunicativi uguali ma contenuti opposti. In Italia purtroppo è più facile dire il contrario, ma è interesse di tutti favorire l’integrazione e dimostrare quanto è falsa l’equazione tra Islam e terrorismo».
«Bisognerebbe costruire più moschee, invece di vietarle», è la conclusione di Stefano Allievi, il professore dell’università  di Padova che ha diretto la prima ricerca-censimento dei luoghi di preghiera islamica in Italia: «Ne abbiamo contati 764, una cifra in linea con la media europea per numero di musulmani, ma solo 3, o largheggiando 5, sono vere moschee edificate per il culto. Tutti gli altri sono luoghi di fortuna: garage, scantinati, appartamenti, capannoni. Non succede in nessun Paese civile. Eppure è molto più facile che una grande moschea sia sicura e controllata dagli stessi fedeli».
Saranno i musulmani d’Italia a denunciare i killer jihadisti? «Sta già  accadendo», risponde lo studioso: «Nel mondo islamico si sta ripetendo il percorso che fece la sinistra italiana con le Brigate Rosse. All’inizio si diceva: non sono compagni, ma infiltrati dei servizi. Poi si distingueva tra mezzi e fini: sono compagni che sbagliano. Ma quando hanno ammazzato magistrati, giornalisti e sindacalisti di sinistra, tutti hanno capito: sono assassini e basta».

Paolo Biondani
(da “L’Espresso”)

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CHI FINANZIA L’ISIS? ECCO TUTTE LE ACCUSE INCROCIATE

Novembre 22nd, 2015 Riccardo Fucile

PER ERDOGAN SAREBBE LO STESSO ASSAD, MOSCA CHIAMA IN CAUSA TURCHI E SUNNITI, ISRAELE INCOLPA L’IRAN

Erdogan accusa Assad, Putin chiama in causa Turchia, Qatar e Arabia Saudita, l’Iran punta l’indice su Israele e viceversa, nelle sedi diplomatiche di Istanbul e nei ristoranti di Amman non si parla di altro: chi sono i fiancheggiatori segreti dello Stato Islamico (Isis)? È una discussione disseminata di indiscrezioni e sospetti che dà  il polso dell’atmosfera in Medio Oriente.
Il greggio di Assad  
Il presidente turco Erdogan, intervenendo al summit sull’Energia a Istanbul, ha accusato Bashar al Assad di «acquistare sottobanco petrolio venduto da Isis, pagandolo a peso d’oro». Ciò significa che «Assad sfrutta il terrorismo per rimanere in piedi» sotto due aspetti: ottenere il greggio che manca al regime e rafforzare un nemico contro il quale sta costruendo una sua nuova legittimità  politica. «Isis è sostenuto da Assad», assicura Erdogan.
I finanziatori privati  
L’affondo di Erdogan è arrivato pochi giorni dopo la chiusura del G20, che ha visto il presidente russo Vladimir Putin autore di un colpo di teatro, consegnando ai leader presenti una lista di finanziatori privati di Isis: si tratta di cittadini di 40 Paesi, ma spiccano in particolare i turchi, sauditi e qatarini. Sono individui che il Dipartimento del Tesoro Usa segue sin dal 2013, quando al-Baghdadi iniziò a ricevere donazioni – attraverso il Kuwait – in precedenza destinate ad altri gruppi sunniti in Siria e Iraq.
Sospetti a Istanbul  
Fra i diplomatici europei accreditati a Istanbul e Ankara circolano con insistenza sospetti su presunte complicità  fra il governo turco e Isis. La tesi prevalente è che Ankara ha consentito a Isis di rafforzarsi al fine di rovesciare il regime di Assad. La prova, indicata da più voci, sarebbe l’«autostrada della Jihad» fra il Sud della Turchia e il Nord della Siria che vede passare non solo i foreign fighters, ma anche i commerci illeciti che alimentano le finanze di Isis.
Ospedali nella Galilea  
La tv libanese Al Manar, espressione di Hezbollah, accusa Israele di curare nei propri ospedali in Galilea un «grande numero di takfiri», ovvero jihadisti sunniti. Si tratterebbe di miliziani islamici, feriti in combattimenti, che attraversano la frontiera del Golan, vengono raccolti da Israele, curati e rimandati indietro. Israele nega tali accuse, affermando che sono civili feriti gravi – circa 1200 finora – curati «per ragioni umanitarie». Hossein Shariatmadari, direttore di «Kayhan», vicino ai conservatori di Teheran, definisce Isis «uno strumento di Usa e Israele nel complotto occidentale contro Assad».
Raid iraniani  
Negli ambienti militari israeliani è diffuso il sospetto che dietro le «false accuse» di Hezbollah ci sia in realtà  una complicità  di fatto fra Teheran e Isis. La dimostrazione verrebbe dai movimenti iraniani in Iraq: l’offensiva massiccia contro Isis nella provincia di Dyala ha avuto successo grazie al sostegno dei raid aerei di Teheran, ma dopo essere riusciti ad allontanare i jihadisti dalla propria frontiera sono stati sospesi, allentando la pressione militare. Lasciando supporre di voler usare Isis con più obiettivi: spaccare il fronte sunnita, guidato dalla rivale Arabia Saudita, e spingere Washington ad allearsi proprio con Teheran per combattere i jihadisti in Siria.
L’origine delle armi  
Il Centro di ricerche sugli armamenti nei conflitti, di base a Londra, afferma in un rapporto che le armi in possesso di Isis sono prodotte in Cina, Russia, Stati Uniti, Sudan e Iran. Includono almeno 656,4 milioni di equipaggiamento militare che gli Stati Uniti avevano lasciato all’Iraq e Isis ha catturato nelle basi militari così come ingenti forniture russe trovate nelle installazioni del regime di Assad.

Maurizio Molinari
(da “La Stampa”)

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VALERIA, FUNERALI DI STATO A SAN MARCO

Novembre 22nd, 2015 Riccardo Fucile

CI SARA’ MATTARELLA, ATTESO RENZI…. CAMERA ARDENTE A CA’ FARSETTI, MARTEDI’ CERIMONIA LAICA IN PIAZZA

Due giorni fa, con il buio della sera, era stata invasa da sette mila di candele e lacrime. Martedì piazza San Marco tornerà  ad accogliere Valeria Solesin per l’ultimo saluto. La decisione è stata ufficializzata ieri: il funerale laico della 28enne ricercatrice veneziana uccisa venerdì scorso a Parigi in uno degli attentati dell’Isis si terrà  alle 11 nella piazza principale della città  in cui Valeria ha vissuto ed è cresciuta, prima di trasferirsi a Parigi quattro anni fa.
Saranno funerali di Stato e blindati: sicura la presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, atteso anche il premier Matteo Renzi. Imponente il dispositivo di sicurezza, sul campo quattrocento agenti.
I genitori di Valeria, Alberto Solesin e Luciana Milani, hanno vinto la riservatezza di questi giorni e accolto la proposta del sindaco Luigi Brugnaro di mettere a disposizione San Marco per un funerale, cosa mai avvenuta a Venezia.
«Per volontà  della famiglia, la cerimonia sarà  officiata con rito civile e aperta alle donne e agli uomini di ogni credo» specifica il comunicato ufficiale.
Poche parole in cui sono contenute tutte le volontà  della famiglia, già  emerse durante le prime ore dopo la tragedia.
«Valeria era una persona, una cittadina e una studiosa meravigliosa – aveva detto la mamma – ci mancherà  molto e credo, visto il percorso che stava facendo, che mancherà  anche al nostro Paese per le doti che aveva».
«Non è rabbia. E non deve essere paura — aveva detto il fratello Dario – Valeria non ci perdonerebbe mai». Il giorno dei funerali sarà  proclamato anche il lutto cittadino.
Da oggo è allestita una camera ardente a Ca’ Farsetti, nella sede del Comune, fino alla giornata di martedì.
Quelli di San Marco saranno «funerali di Stato ». Ieri dal Quirinale e dalla Presidenza del consiglio ancora non confermavano la presenza di alte cariche dello Stato, ma molti negli ambienti politici ipotizzavano l’arrivo in laguna della presidente della Camera Laura Boldrini, che nei giorni scorsi era stata molto toccata dalla tragedia di Valeria, tanto da dedicare a lei la giornata contro la violenza sulle donne che si terrà  a Montecitorio mercoledì prossimo.
La scelta di piazza San Marco è stata obbligata vista la grande partecipazione prevista. Solo fermandosi agli istituti scolastici in cui il papà  di Valeria è direttore scolastico si contano 1500 persone, ma ci saranno anche le scuole in cui Valeria si era formata, dal liceo Benedetti alle università  di Venezia e Trento, che aveva frequentato.
Non mancheranno ovviamente le rappresentanze cittadine delle istituzioni e delle comunità  religiose. «Io ci sarò — dice Mohammed Amin Al Ahdab, presidente della comunità  islamica di Marghera – abbandono il lavoro, prenderò due ore di permesso. Vengo per far capire che siamo tutti insieme, nella gioia e nel dolore».
E intanto le iniziative di solidarietà  si moltiplicano anche sul territorio veneziano. Oggi alle 21 sfileranno quattro gruppi islamici e i comitati del Veneto orientale per l’immigrazione del Sandonatese. La municipalità  di Venezia ha invece previsto una giornata di studio in nome di Valeria Solesin: «L’esecutivo — ha spiegato Giovanni Andrea Martini — ha deciso di dedicare nel mese di dicembre una giornata di studio alla memoria di Valeria Solesin».
Domenica invece toccherà  alla municipalità  di Chirignago, il cui presidente Gianluca Trabucco ha organizzato un incontro la titolo esplicito: «Più forti della paura». L’iniziativa vedrà  coinvolti lo stesso presidente Amin Al Ahdab, don Dino Pistolato della Caritas, Emergency Venezia oltre alla presidente dell’associazione «Les loustics de la Lagune» e una rappresentante di Alliance franà§aise.
«La nostra idea è quella di proporre un’occasione di dialogo per non far alzare inutilmente il senso di insicurezza », spiega Trabucco.

(da agenzie)

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MA NON ERANO QUELLI DELLE PRIMARIE?

Novembre 22nd, 2015 Riccardo Fucile

LA PRESA PER I FONDELLI: MESI CHE PARLANO DI PRIMARIE DEL CENTRODESTRA E POI I SINDACI SE LI SPARTISCONO COME SEMPRE A PALAZZO GRAZIOLI

Da mesi le primarie sembrava essere la madre di tutte le battaglie per gli innovatori del centrodestra, alias il sistemamogli e la cognata d’Italia.
Non è stato necessario passare sul loro corpo di indomiti e coerenti combattenti   per far loro cambiare idea: è bastato un invito a palazzo Grazioli, come ai vecchi e mai rinnegati tempi.
Nonostante gli impegni sul fronte islamico (dove, è noto, loro sono i veri indomiti foreign fighter europei) in cui si rivelano piu’ feroci (a parole) dei peshmerga curdi, appena Silvio li ha chiamati a rapporto, hanno riposto i kalashnikov, si sono fatti belli (licenza poetica) e sono arrivati a Palazzo.
Dalle primarie sono passati all’entrata secondaria della servitu’.
Per certificare l’opposto di quanto hanno detto in questi mesi: la base non conta una mazza, decidiamo noi.
E chi meglio di loro può certificare la sconfitta?
Ecco allora la scelta del kamikake Sallusti, esperto di macchine belliche del fango, per essere certi di perdere a Milano.
Poi la discussione su Roma dove la Meloni non ha ancora deciso se indossare la cintura esplosiva e immolarsi alla vittoria dei pentastellati o nascondersi nel bunker in attesa di tempi e poltrone migliori.
L’importante pare sia impedire alle truppe marchiniane di conquistare terreno.
A Napoli si aspetta di trovare un altro aspirante suicida. mentre a Bologna Salvini ritorna alle sue origini di comunista padano.
Per uno che frequentava il Leoncavallo, chi meglio della Bergonzoni che serviva le bibite al centro sociale Link di Bologna?
Poi essendo i centri sociali noti covi di terroristi da chiudere, si presume almeno abbiano forgiato esperti in cinture esplosive da fornire alla loro ex adepta.
E le primarie?
Non stiamo a sottilizzare, suvvia, cosa c’entrano gli elettori?
Che importanza possono avere le primarie e le secondarie per chi ha inanellato 12 anni di fuoricorso all’università , siamo seri.
Forse che gli iman vengono eletti con le primarie?
Siamo di fronte a una   marea di profughi che si rifiutano di affogare e stiamo a pensare alle primarie?
E’ il momento di combattere, cribbio: sovrani e divani a casa nostra.

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