Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
LA PERCENTUALE DEI VOTANTI E’ DEL 32%, I SI’ ALL’84%… I FAUTORI DEL NO SI SONO NASCOSTI PER PAURA DI PERDERE, TUTTO IL RESTO E’ FUFFA E TEATRINO DELLA POLITICA
Ognuno la può pensare come gli pare: personalmente sono tra coloro che ha votato un convinto Sì per la mia personale formazione ambientalista, non certo per mettere in difficoltà Renzi.
A quello ci pensa il premier da solo, non ha bisogno del mio aiuto.
La sua arroganza e le balle con cui ha cavalcato l’astensionismo e le sue dichiarazioni di pochi minuti fa confermano la malafede di un servo delle lobbies che non a caso è divenuto presidente del Consiglio grazie a loro e non a un voto degli elettori.
La più meschina balla di Renzi è quella degli “11.000 lavoratori che avrebbero perso il posto”: erano 5.000 poche settimane fa, sono raddoppiati per miracolo.
Peccato si sia dimenticato di citare le migliaia di posti di lavoro persi dal turismo grazie a scelte sconsiderate, le decine di migliaia di posti di lavoro che in altri Paesi sono generati dallo sfruttamento delle energie alternative.
Peccato si sia dimenticato di quantificare i milioni che ha fatto risparmiare ai petrolieri evitando di smantellare le piattaforme non più operanti.
Parla di soldi buttati in un referendum inutile colui che per mania di grandezza ha fatto sperperare milioni di euro per il suo nuovo aereo presidenziale.
Comunque sia, Renzi ha ben rappresentato la “furbizia” di tanti italiani: di fronte a un quesito si vota Si o si vota No, non si diserta per poi sommare i pochi No agli astensionisti (alle Europee votò il 56% degli italiani, forse che il 44% era sommabile a qualcuno?).
Renzi vuole fare per una volta una riforma seria?
Elimini il quorum nei referendum e si misuri ad armi pari con chi non è d’accordo con lui.
Chi non è vigliacco si comporta così.
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Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
LA CORRELAZIONE TRA SCADENZE ELETTORALI E NUMERO DI OMICIDI
L’economia si occupa solo di economia? Cioè di produzione e occupazione, tassi di interesse e tassi di
cambio, consumi e investimenti?
No, perchè l’economia, oltre a essere un ramo del sapere, è anche un metodo di indagine. Il compito dell’economista è quello di dipanare la matassa e «presentare il conto», andando a esaminare tutte le ripercussioni di ogni decisione, valutando gli effetti e i controeffetti, in modo che la comunità possa decidere con cognizione di causa, e non sotto l’onda delle emozioni o degli slogan.
E la matassa può riguardare tanti fenomeni, anche molto lontani da quel che consideriamo «economico».
Per esempio, gli economisti hanno affrontato, armati dei ferri del mestiere, questioni come: c’è evidenza di match truccati fra i lottatori di sumo? La pena capitale riduce i crimini? La legalizzazione dell’aborto ha ridotto il tasso di delinquenza?
L’economia è un modo di ragionare, non è un codice di comportamento. Ma questo modo di ragionare non è senza cuore. Ha bisogno di valori, ma i valori li mettete voi. E, al termine del ragionamento economico, quei valori risaltano ancora di più se si distillano, puri e cristallini, dopo un viaggio tortuoso negli alambicchi della ragione.
Ci occupiamo di un triste fenomeno: l’influenza della criminalità organizzata sulle elezioni locali in Italia.
Un fenomeno che è stato analizzato da tre economisti: Alberto Alesina, Salvatore Piccolo e Paolo Pinotti (vedi “Per saperne di più”).
Abbiamo già detto in passato che la democrazia va bene con l’economia, come il pane col salame. È bene che l’agire economico, l’intrapresa, l’assunzione di rischio siano compensati adeguatamente, senza il timore che i risultati di questo agire siano appropriati da un tiranno.
Gli economisti, quindi, hanno diritto a indagare quelle situazioni che minano la democrazia, come l’agire di organizzazioni criminali che influenzano le elezioni così da “catturare” i politici eletti e piegare poi le decisioni, a livello nazionale o locale (Comuni, Province o Regioni) verso i propri interessi.
Ma come si procede in questa indagine?
Anche gli organismi criminali, come la mafia, seguono il ragionamento economico (il massimo risultato col minimo mezzo) e agiscono soppesando costi e benefici di ogni intervento.
Alesina & C. hanno utilizzato, per determinare se davvero la mafia ha una strategia di influenzare le elezioni, le statistiche sugli omicidi, dal lontano 1887 a oggi.
Hanno messo in relazione il numero di omicidi con le scadenze elettorali (per le elezioni locali), e hanno determinato che vi è un’intensificazione di questi ammazzamenti (come si sa, i modi della mafia sono spicci) nell’anno che precede le elezioni.
La ragione è semplice: le mafie vogliono che siano eletti coloro che preferiscono e si sbarazzano dei candidati scomodi, mentre questi omicidi valgono anche di intimidazione per gli altri.
Gli omicidi di cui si parla sono tutti gli omicidi, non quelli legati a persone politicamente attive.
Ma è possibile, per un periodo più corto (vedi nel grafico il periodo 1974-2013) guardare più specificamente agli omicidi politici: come si vede, questi sono concentrati al Sud, dove è più grande l’influenza della criminalità organizzata.
Violenza e intimidazioni erano diventate così frequenti e preoccupanti che il Parlamento italiano, nel 2013, istituì una Commissione per fare il punto — cause e rimedi — su questo fenomeno.
L’indagine non finisce qui. Il ricorso alla violenza, nel modello economico di Alesina & C., è diverso a seconda che il sistema elettorale sia proporzionale o maggioritario.
In questo secondo caso, ci dovremmo aspettare che gli omicidi siano concentrati su quei territori dove il collegio è molto conteso.
Se in un collegio uno dei partiti è molto forte e si sa già chi sarà eletto, c’è poco spazio per influenzare, con la violenza, il risultato.
Ma nei collegi dove i partiti contendenti si battono ad armi pari, o quasi pari, la violenza può cambiare i risultati.
E in effetti l’analisi geografico-elettorale degli omicidi, condotta con moderne tecniche statistiche, ha confermato che questo era appunto il caso.
Un altro risultato interessante sta in un test di “intimidazione”.
I ricercatori hanno messo assieme 300mila pagine di interventi di parlamentari (al Parlamento nazionale) eletti in Sicilia, nel periodo 1945-2013.
Un software apposito ha scandagliato i documenti e contato il numero di volte che la parola “mafia” è stata usata, anno per anno, e questi dati sono stati correlati al numero di omicidi politici. Anche qui, una conferma: quando il numero di omicidi, nel periodo precedente le elezioni, era alto, nella legislatura successiva i parlamentari eletti menzionavano la mafia con minor frequenza.
Infine, un’altra dimostrazione della efficacia dei metodi impiegati sta nell’analisi della strage di Portella della Ginestra (del 1° maggio 1947) quando molti lavoratori furono uccisi da «elementi reazionari in combutta con i mafiosi», come disse il rapporto dei carabinieri.
La mafia era da sempre contro i partiti di sinistra, e l’analisi di quella strage porta a queste conclusioni: nelle elezioni del ’47 (prima della strage) la quota di voti ottenuta dalla sinistra non varia significativamente aumentando la distanza dalla località Portella della Ginestra.
Ma dopo la strage, nelle elezioni del 1948, la quota di voti della Sinistra cade considerevolmente nelle circoscrizioni vicine al luogo del massacro (cade più che in circoscrizioni lontane).
Anche qui, l’intimidazione aveva funzionato e le campagne elettorali erano state condotte, dai candidati locali della sinistra, con minor vigore, tanta era la paura e più vivo il ricordo della strage.
Fabrizio Galimberti
(da “il Sole24ore”)
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Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
MANCANDO UN PROGETTO DI SOCIETA’ DIFFERENZIATO SI SONO INSINUATI GRUPPI RISTRETTI E LOBBY
In molti regimi democratici è in corso un’erosione consistente delle identità tradizionali della Destra
e della Sinistra.
Identità che ormai sembrano sopravvivere, quando sopravvivono, assai più come astratte scale di valori nella testa dei rispettivi fautori che come effettiva capacità di tradursi in differenti e magari opposti programmi di governo.
Da qui un ovvio processo di omologazione dell’intero quadro politico.
Tra i grandi Paesi europei solo in Italia, però, questo processo si accompagna a un tale grado di dissoluzione / spappolamento delle identità degli antichi schieramenti da essersi ormai ridotte unicamente alla persona del loro leader.
Sicchè chi come la Destra oggi un leader non ce l’ha (e come potrebbe capitare domani ai 5Stelle), cessa di fatto di esistere: praticamente non ha identità alcuna.
Un Paese soffocato per mezzo secolo dal contrasto ideologico più aspro e da un certo punto in avanti paralizzante, ha salutato tutto ciò con favore, in nome per l’appunto della «fine delle ideologie».
Ma come spesso ci capita, con l’acqua sporca abbiamo buttato anche il bambino.
Non era scritto da nessuna parte, infatti, che nella Seconda Repubblica Destra e Sinistra dovessero essere per forza il ricalco di quelle ideologie che avevano caratterizzato la Prima. Lo sono state nel modo sempre più affannato e sgangherato che sappiamo solo perchè nè a destra nè a sinistra è nata un’idea nuova del Paese, una visione originale e fattiva del suo presente e del suo futuro.
La società italiana nel suo complesso si è mostrata di una sterilità ideale e politica assoluta. Ha prodotto solo protesta e nient’altro che protesta, la quale oggi è arrivata, sommando la Lega e il movimento di Grillo, a raggruppare circa il 40 per cento dell’elettorato effettivo.
Nel frattempo, la fine, specie nella percezione comune, della diversità tra Destra e Sinistra non ha mancato di avere conseguenze di grande rilievo sulla nostra vita pubblica.
La principale è sotto gli occhi di tutti: i diversi gruppi sociali hanno perduto o stanno perdendo i loro canali di rappresentanza politica tradizionale (che so: la proprietà edilizia con la Destra, i metalmeccanici con la Sinistra), mentre molti dei loro membri stanno andando per l’appunto ad accrescere le nuove aree della protesta indifferenziata cui accennavo sopra.
Sempre più spesso un elettore di sinistra o di destra non trova più motivi sufficienti per continuare ad esserlo: tutti sentono di poter votare per tutti o quasi; o più spesso per nessuno.
Insomma, non esistendo più definite caratteristiche socio-economiche dell’affiliazione politica, questa tende a divenire sempre più puramente soggettiva e per così dire astratta: a fuoriuscire dall’ambito dell’identità sociale degli individui.
Il risultato, come si vede ogni giorno, è la crescita del disinteresse per la politica e dell’astensione.
Ma se ciò è la regola generale, accade invece che alcuni gruppi ristretti, dotati di appropriate risorse (indifferentemente economiche o d’influenza: quindi ad esempio tanto i magistrati e i farmacisti quanto i petrolieri o gli alti gradi della burocrazia) conservino comunque un forte interesse per la politica e agli occhi della politica.
Alla quale fanno inevitabilmente gola le loro risorse, il loro appoggio o la loro neutralità .
Ciò che a propria volta, quindi, consente a questi gruppi stessi di ottenere dalla politica una particolare protezione per i propri interessi.
E tanto più ha modo di svilupparsi – in genere dietro le quinte – questo tipo di rapporto, in quanto ora i gruppi d’interesse in questione hanno davanti uno spazio politico illimitato nel quale possono giocare su tutti i tavoli.
Soprattutto uno spazio libero da eventuali opposizioni ideologiche al loro operato. Ora tutto può avvenire, ed avviene, a 360 gradi.
Una prima conclusione importante, dunque, è che l’omologazione tra Destra e Sinistra indebolisce la tutela politica dei gruppi sociali più numerosi, la loro possibilità di farsi valere, essendo il loro peso elettorale non più appannaggio presunto di nessuno dei due schieramenti.
Al tempo stesso, invece, accresce la contiguità tra i gruppi ristretti e la politica, così come accresce la protezione che questa può assicurare loro.
Da questo punto di vista non sembra davvero un caso, allora, se nell’Italia degli ultimi venti anni, dopo la fine dei partiti storici e lo spappolarsi progressivo delle successive formazioni politiche maggiori (Forza Italia, Sinistra postcomunista), si stia assistendo a un aumento delle aree, per così dire, della «differenziazione» e del «privilegio».
Cioè a un aumento di segmenti sociali ristretti capaci, con un’azione genericamente definibile di lobbying, di assicurarsi quote di risorse aggiuntive o status che li differenziano sempre più dal resto dei cittadini.
L’omologazione politica tra Destra e Sinistra, insomma, erode sia l’idea che la pratica dell’interesse generale, e al contempo gerarchizza ulteriormente la società .
Aumenta considerevolmente il vantaggio dei pochi, coesi e organizzati, a scapito dei più che un tempo erano organizzati ma ora hanno cessato di esserlo.
I pochi finiscono per contare più dei molti. Alla crescita del populismo in basso corrisponde quella del privilegio e dei trattamenti di favore in alto.
Gianluca Gemelli, l’ex compagno dell’ex ministro Guidi che twitta imprecazioni contro la «politica» e contro la «casta» nel momento stesso in cui briga ed intriga con entrambe per i suoi affari esprime con un inarrivabile tocco di Cagliostro italiano la contraddittoria, malefica, duplicità in cui si dibatte oggi il Paese.
Inutile dire come da tutto ciò derivi infine una conseguenza inevitabile: l’aumento della corruzione.
Infatti, facendosi i rapporti tra la politica e gli interessi settoriali più stretti, più liberi e più incontrollati, tali rapporti danno quasi naturalmente vita assai più di prima a scambi di natura illecita.
Non da ultimo perchè l’omologazione tra Destra e Sinistra significa necessariamente anche un’omologazione dei comportamenti e degli standard etici dei rispettivi personali politici: e non certo al livello più alto.
Ernesto Galli della Loggia
(da “il Corriere della Sera”)
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Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
URNE APERTE FINO ALLE 23
Quorum sempre più lontano per il ‘referendum trivellazioni’: il dato sull’affluenza delle 19 si attesta al 23,48%.
A renderlo noto è il Viminale. Alle 12 era a quota 8,3.
Si vota fino alle 23: se non va alle urne almeno il 50% più uno degli aventi diritto la consultazione non è valida. E il fronte dei contrari – più che invitare a votare No – punta proprio sull’astensione per far fallire il referendum.
Tra le quattro grandi città italiane, è Torino quella dove si registra l’affluenza maggiore.
Nel capoluogo piemontese, alle 19 ha votato il 26,5% degli aventi diritto. Seguono Roma con il 24,56%, Milano 23,36%, Napoli 18,7%.
Con una percentuale media del 33,26%, la Basilicata è stata la regione italiana che ha registrato la più alta affluenza, seguita dal Veneto, con il 28,58% e poi dalla Puglia, con il 28,28%.
A Matera la percentuale è del 34,20, ed è la provincia italiana che registra l’affluenza più alta in Italia, seguita da Lecce con il 33,79.
A Potenza, invece la percentuale è del 32,77%.
Tutto si gioca su un numero: 25.393.171. Sono gli elettori che dovranno andare a votare perchè il referendum sia valido.
Un obiettivo che è stato raggiunto sempre più raramente: siamo lontani da quell’87% del referendum del divorzio del 1974.
Dal 1997 (con l’eccezione del 2011, per il voto sull’acqua pubblica) il quorum non è stato più raggiunto.
Sarà difficile confrontare il dato con le precedenti consultazioni, visto che per la prima volta dagli anni 90 si torna a votare solo la domenica.
Come indicazione però vale la pena di prendere gli ultimi tre referendum, nel giugno 2011 (quorum raggiunto), nel giugno 2009 (quorum non raggiunto), nel 1999 (quorum sfiorato). Si votava domenica fino alle 22 e lunedì fino alle 15.
Nel 2011, alle 12 di domenica, aveva votato l’11,6% degli aventi diritto: il quorum fu raggiunto di poco, con il 54% dell’affluenza.
Nel 2009, alla stessa ora, l’affluenza era del 4%, l’affluenza a fine giornata fu del 24%. Nel 1999 il dato alle 11 era del 6,7%, a fine votazioni del 49,58%.
Sul territorio nazionale sono chiamati al voto 46.887.562 elettori, di cui 22.543.594 maschi e 24.343.968 femmine. A questi vanno aggiunti i 3.898.778 elettori residenti all’estero, di cui 2.029.303 maschi e 1.869.475 femmine.
(da agenzie)
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Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
UN MILIONE DI NEOPENSIONATI METTERANNO IN PERICOLO I CONTI INPS… GLI IMMIGRATI LASCIANO UN TESORETTO DI 16 MILIARDI ALL’INPS
Nel 2030 il sistema pensionistico italiano potrebbe implodere. 
È uno scenario realistico, secondo le proiezioni che La Stampa ha analizzato assieme a diversi esperti, incrociando previsioni demografiche e studi sulla spesa previdenziale.
Il 2030 non è una data a caso: è l’anno in cui andranno in pensione i figli del baby boom, cioè i nati nel meraviglioso biennio 1964-65, quando l’Italia nel pieno miracolo economico partorì oltre un milione di bambini.
Quei bambini, al compimento dei 66-67 anni, busseranno alla porta dell’Inps. Un picco di richieste che si tradurrà in uno choc, soprattutto se la crescita economica rimarrà modesta. Il periodo più critico arriva fino al 2035.
Poi, se le casse dell’Inps reggeranno, anno dopo anno la situazione dovrebbe migliorare per stabilizzarsi tra il 2048 e il 2060.
IL GIALLO DEI NUMERI
Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, fa professione di ottimismo e snocciola diagrammi che non vedono schizzare all’insù la spesa pensionistica in rapporto al Pil.
Una risalita ci sarà , dopo anni di curva verso il basso, esattamente attorno al 2030. All’Inps, infatti, ammettono che «qualche problema potrebbe esserci fino al 2032, quando il sistema sarà tutto contributivo».
Una fotografia che alimenta l’ansia se si pensa che è tra pochi anni e che stiamo ragionando in un sistema che è stato già stravolto dalla tanto detestata legge Fornero del 2011. Adesso che di pensioni si è tornato a parlare quotidianamente, con varie ipotesi di modifica per alleggerire la Fornero, c’è chi alza gli scudi e anzi dice che quella legge potrebbe non bastare.
Raffaele Marmo, collaboratore di Maurizio Sacconi e della stessa Fornero al ministero del Welfare, poi inventore della start up Miowelfare.it, racconta l’urgenza in cui maturò quella riforma e avverte: «Con la disoccupazione che abbiamo e la mancata crescita economica, in un’Italia sempre più anziana, l’Inps rischia di saltare entro 15 anni».
Marmo è poco convinto anche delle previsioni di Boeri che sono alla base della Busta arancione, il prospetto che consente ai lavoratori di calcolare la pensione futura: «L’Inps presuppone il canonico 1,5% di crescita del Pil, ma chi l’ha detto che sarà così?». Nel 2015 l’Italia è rimasta inchiodata allo 0,8%, le recenti stime sul 2016 sono all’1,2% e il 2030, in un certo senso, è dopodomani. Servirebbe un nuovo miracolo.
IL PROBLEMA DEMOGRAFICO
Gian Carlo Blangiardo è ordinario di Demografia all’Università Bicocca di Milano. Ha appena rielaborato i dati Istat in uno scenario che svela un processo di invecchiamento inarrestabile con tutte le conseguenze che questo comporta sulla spesa previdenziale e le inevitabili ricadute sulle nuove generazioni.
«Il rapporto tra la popolazione attiva (20-65 anni) e i pensionati si raddoppierà nel giro di una generazione. La percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi al 65% nel 2040 (da 1 su 3 a 2 su 3)».
Questo significa: il doppio del carico previdenziale. A parità di condizioni, in pratica, servirebbe raddoppiare la produttività . I 16 milioni di pensionati di oggi aumenteranno fino a 20 milioni, in meno di 25 anni.
«Tra i nuovi pensionati e chi muore, cioè tra chi entra e chi esce dal sistema previdenziale, c’è uno sbilancio che oggi è nell’ordine delle 150 mila unità . Nel 2030 salirà a 300 mila e resterà tale fino a circa il 2038».
Poi comincerà a scendere il numero dei nuovi pensionati e ad aumentare quello dei morti. Magicamente, attorno al 2048, i due gruppi si equivarranno, finchè, da lì a poco, non avverrà il sorpasso.
La spiegazione è semplice. Dopo gli anni del boom demografico del 1964-65, l’Italia ha fatto sempre meno figli e nel 2015 ha toccato il nuovo minimo storico dall’Unità : 488 mila nati. Sono i pensionati del futuro, la metà di quelli che ci andranno tra 14 anni.
Il problema della sostenibilità delle pensioni si potrebbe risolvere demograficamente: «Sì – spiega Blangiardo – sempre che prima del 2050 l’Inps non scoppi». Una catastrofe nella quale l’Italia sarebbe già sprofondata se, come dice la Corte dei Conti, non ci fossero state le riforme dal 2007 al 2011: la spesa per le pensioni sarebbe stata superiore di ben 2 punti di Pil, cioè 30 miliardi di euro l’anno per altri 15 anni.
Le statistiche però devono anche fare i conti con la vita quotidiana e le sempre minori certezze di chi in pensione andrà nel 2030, come Sergio Bucciarelli, baby boomer, oggi 51enne, impiegato a Fabriano in una ditta di cappe aspiranti.
«Lavoro ininterrottamente dal marzo 1989 e guadagno 2 mila euro al mese – racconta -. La mia pensione sarà il 60% dello stipendio quindi da vecchio stringerò la cinghia. Non potrò aiutare i miei figli e se avrò problemi di salute non potrò curarmi al meglio». Già oggi, secondo l’Inps il 63% degli assegni è fermo sotto i 750 euro al mese.
Sui numeri complessivi del sistema, che è ancora misto (retributivo e contributivo), e sulla sua tenuta ci sono letture divergenti.
Chi, come gli artigiani di Mestre (Cgia) dice che nonostante gli sforzi la spesa pensionistica è sfuggita alla spending review ed è salita solo nell’ultimo anno di 3,1 miliardi. E chi propone invece di allentare le rigidità della Fornero attraverso varie ricette.
Per esempio, la flessibilità in uscita: è il cuore di due proposte, una di Boeri, l’altra del presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, Pd, ex ministro autore della riforma del 2007.
La prima prevede fino al 9% di decurtazione e un’uscita dal lavoro dai 63 anni e 7 mesi in poi con disincentivi. Applicandosi solo alla quota retributiva, se quest’ultima scende la penalizzazione è minore (4,5%).
Per le coperture, Boeri ha pensato a un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte. Damiano, invece, propone di uscire anche un anno prima (62 anni e 7 mesi) con un taglio del 2% l’anno fino a un massimo dell’8%.
Entrambe le soluzioni si basano sul presupposto che i costi a breve saranno compensati dai risparmi futuri. Ma nessuna delle due convince Giuliano Cazzola, economista, tra i massimi esperti di previdenza, strenuo difensore della Fornero: «Ci vorrebbero 50 anni per ammortizzare queste operazioni. Non peggiorerei le cose e comincerei a pensare ai giovani e agli occupati, che sono la classe contributiva, purtroppo ancora debole, del futuro».
Il conflitto tra generazioni è già in corso. Se n’è accorto Ivan Pedretti, segretario generale dei 3 milioni di pensionati della Spi-Cgil che di fronte all’inevitabilità della Fornero è convinto che la soluzione non sia la sua totale abrogazione, ma correttivi precisi.
Come sui lavori usuranti e ancor di più sui requisiti anagrafici agganciati alla speranza di vita: «Se il contributivo nasce con la logica del “prendo quanto verso”, non spetta allo Stato decidere quando mandare in pensione il lavoratore. Permettete che lo decida lui?». In effetti è un paradosso.
Però Pedretti fa anche mea culpa: «Anche noi abbiamo permesso una transizione troppo lungo dal retributivo al contributivo». Il tabù Fornero deve essere affrontato senza ideologismi. Anche secondo Cazzola è necessaria una rivalutazione dei requisiti anagrafici legati all’aspettativa di vita. «Altrimenti, si arriverà a 45 anni di contributi». L’Italia è già in cima alla classifica Ue delle soglie stabilite per la pensione, però è di ben 5 anni sotto la media europea per la permanenza sul mercato del lavoro (10 in meno rispetto all’Olanda). Un divario che per le donne è inequivocabile: la durata media è sotto i 25,5 anni.
Il Paese sconta una storia nota, di privilegi e pensioni usate come arma politica, che ancora pesa sui conti e trasferisce sui più giovani un carico insopportabile.
«Sì, ma bisogna stare attenti – continua Cazzola – siamo l’unico Paese che usa il sistema pensionistico per fare politiche occupazionali».
Il riferimento è a uno studio di Boeri presentato alla Bocconi a gennaio che lega la riduzione delle assunzioni al forte aumento dell’età pensionabile imposto dalla Fornero.
«Se la quota di posti bloccati è al 5% – sostiene Boeri – il tasso di assunzioni scende al 6%». E così via. In una situazione di crisi economica, la convinzione del presidente dell’Inps è che il turnover potrà far crescere occupazione e produttività .
FISCO E IMMIGRATI
Una delle proposte alternative che si sta facendo largo ribalta l’impostazione sulle pensioni. Da un sistema previdenziale a uno più assistenziale finanziato in parte dalla fiscalità generale.
In commissione Lavoro alla Camera giace una proposta di legge a firma Marialuisa Gnecchi (Pd) che prevede una pensione di base di 442 euro, a cui si aggiunge quella maturata dal lavoratore con il contributivo.
Sarebbe un salto culturale verso un sistema che tiene conto del mercato del lavoro di oggi e di domani. È uno sforzo che chiedono anche i fiscalisti italiani.
Tra loro, Raffaello Lupi, docente di diritto Tributario: «Bisogna inventarsi un nuovo welfare. La gestione della terza età si deve trasformare in una delle tante funzioni pubbliche, come sanità e istruzione».
Gli over 95 passeranno dai 150 mila di oggi a quasi 1,3 milioni del 2063. Alla flessibilità in uscita vanno affiancate formule di pensionamento attivo.
Il demografo Blangiardo ha calcolato che se fossero valorizzate le persone tra i 65 e i 75 anni, con un attività light capace di essere monetizzata in 5 mila euro l’anno di media, avremmo tra il 2016 e il 2020 33 miliardi di euro in più ogni anno, tra il 2021 e il 2040, 40 miliardi.
C’è chi guarda con speranza anche a chi arriva da fuori.
È il fattore immigrazione che spacca l’opinione pubblica e anche gli studiosi. È un’ancora di salvezza o un’ulteriore zavorra? Blangiardo lo chiama «invecchiamento importato» convinto che i giovani immigrati diano solo una boccata di ossigeno ai conti dell’Inps con i loro contributi, ma che non siano una soluzione definitiva al calo della popolazione attiva, «perchè anche loro invecchieranno e riceveranno in cambio la pensione».
Boeri invece sostiene che il loro aiuto sia determinante. In futuro, quando varrà solo il sistema contributivo, il riequilibrio coinvolgerà anche gli stranieri che prenderanno quanto versato.
Intanto, l’Inps calcola che il 21% degli immigrati già in pensione secondo le regole italiane, e che in gran parte tornato nei Paesi d’origine, non ha ricevuto gli assegni previdenziali.
Un tesoretto di contributi lasciati all’Italia di 16 miliardi di euro.
In vista del 2030, non si butta via nulla.
Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo
(da “La Stampa”)
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Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
I CONTENZIOSI CALANO MA NON BASTA… AUMENTANO I PROCESSI D’APPELLO PIU’ VECCHI DI TRE ANNI
Quale sia il prezzo del tempo diventerà chiaro nella settimana che sta per iniziare come poche altre volte nella storia recente d’Italia.
Domani si conosceranno nuovi dettagli su Atlante, il fondo costruito sul mercato per assicurare il sistema bancario del Paese contro il rischio di un nuovo dissesto.
Ma già da lunedì scorso, convocati al ministero dell’Economia per avviarlo, molti manager di banche e assicurazioni italiane avevano posto una condizione: prima di andare avanti, serve un provvedimento del governo che acceleri un gran numero di procedimenti di fronte ai giudici civili.
Ogni giorno, mese e anno in più passato fra giudici e avvocati senza arrivare a una sentenza certa ha per le banche un costo che queste ultime non sono più disposte a pagare.
I nuovi dati sull’efficienza
Non sarà semplice risolvere il problema, a giudicare dai nuovi dati sull’efficienza dei tribunali italiani.
Il «debito giudiziario» del Paese – la massa di pendenze civili ancora aperte – a differenza del debito pubblico è sicuramente calato ancora l’anno scorso: è sceso dai 5,9 milioni di casi aperti del 2009 fino alla pur sempre astronomica cifra di 4,5 milioni l’anno scorso.
Eppure un numero simile di procedimenti comunque resta fuori dalle medie europee e la diversità fra i risultati fra città simili fra loro dimostra che il segreto di una possibile svolta non è tanto in nuove leggi o nuovi investimenti.
È nella gestione razionale di ogni singolo tribunale. Non si spiegherebbe altrimenti perchè a Milano solo il 10% dei casi in appello sia più vecchio di tre anni mentre a Roma si viaggia poco sopra il 40%, a Firenze al 46% e nella pur arretrata (e giudiziariamente litigiosissima) Marsala appena al 4,3%.
I procedimenti di oltre tre anni
Risultati come questi, emersi dalle ultime analisi del ministero della Giustizia, dicono che i banchieri italiani riuniti al Tesoro per finanziare Atlante almeno su un punto hanno visto giusto: il tempo è denaro.
Ogni anno in più passato prima di poter recuperare un immobile posto a garanzia di un credito in default comporta un costo misurabile per chi ha prestato il proprio denaro.
Il valore di bilancio di un prestito crolla proprio perchè la garanzia sottostante di fatto non è esigibile in tempi accettabili, e cedere ad altri quella posizione apre nei bilanci degli istituti esattamente le ferite che oggi paralizzano alcuni di essi.
Rimediare non sarà semplice, perchè la giustizia civile italiana continua in parte a evolvere nella direzione sbagliata. L’anno scorso è addirittura cresciuta la quota di procedimenti in corte d’appello ormai più vecchi di tre anni, al 36% dal 33% del 2014.
E poichè questi ultimi includono i recuperi delle garanzie sui prestiti o i procedimenti fallimentari, è praticamente certo che il problema emerso sui crediti inesigibili delle banche per il momento si sta solo esacerbando.
Non deve finire necessariamente così, non per tutti. Nè è sicuro che per accelerare i tempi della giustizia civile occorra semplicemente una nuova legge e l’assunzione di molti più magistrati.
L’eccellenza di Trieste
I dati in possesso del ministero della Giustizia dicono che il metodo di lavoro di ciascun tribunale conta molto, perchè la varietà dei risultati fra le città della penisola è anche maggiore di quella (media) fra l’Italia e la Svezia.
L’eccellenza assoluta è a Trieste, dove solo l’1,8% dei casi civili in appello ha più di tre anni, seguita da Trento, Bolzano o Torino; il dato peggiore è a Potenza, dove si è superata quota 50% di pendenze piene di polvere sugli scaffali, con Napoli e Firenze al 46% e Sassari al 36%.
Nè il problema è necessariamente concentrato al Sud, perchè anche nelle regioni del Mezzogiorno emergono vere e proprie situazioni virtuose: proprio Marsala è fra i tribunali ordinari più rapidi d’Italia, anche se non ha più risorse o meno casi per magistrato rispetto ad altre città siciliane dai risultati disastrosi come Messina (36%) o Barcellona Pozzo di Gotto (46%).
Più del denaro o delle riforme per legge, conta il metodo Mario Barbuto. Quando era presidente della corte d’appello di Torino, Barbuto ha iniziato ad applicarlo nella sua città : il segreto è nello spingere i giudici ad affrontare per primi i casi aperti da più tempo, non nel cercare di smaltire i nuovi che arrivano in continuazione.
Barbuto (oggi in pensione) è convinto che i magistrati italiani siano produttivi, ma non nel modo adeguato: lasciano i casi vecchi, il «debito giudiziario», negli scaffali. Conta però anche il costume civile degli italiani e la spinta di certi avvocati ad aprire sempre nuovi litigi.
Vorrà pur dire qualcosa se l’anno scorso ne sono stati registrati 2,8 in più ogni cento abitanti a Catanzaro o a Locri, 2,2 a Roma o a Napoli, ma solo 0,5 a Modena o Monza, Vicenza o Vercelli.
Un evitabile affollamento dei tribunali che rivela un dettaglio in più: se la giustizia civile è lenta, più che dei magistrati, a volte la colpa è di milioni di italiani che li intasano.
Federico Fubini
(da “il Corriere della Sera“)
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Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
PALAZZO CHIGI NEGA
Negli scorsi mesi aveva fatto discutere la scelta del governo israeliano di procedere alla nomina di
Fiamma Nirenstein quale ambasciatrice in Italia.
L’ex onorevole del Popolo della libertà è considerata da parte dell’opinione pubblica israeliana troppo schierata politicamente, troppo vicina alle posizioni da falco del primo ministro Benjamin Netanyahu.
La Nirenstein è ancora in attesa di insediarsi.
Ma mentre in un primo momento il governo italiano non aveva sollevato obiezioni, farà discutere il retroscena pubblicato oggi da Haaretz.
Il più autorevole quotidiano d’Israele rivela infatti che Matteo Renzi, attraverso canali informali e che sarebbero dovuti rimanere riservatissimi, avrebbe fatto arrivare al premier israeliano la richiesta di ripensare alla decisione presa qualche mese fa.
Secondo il presidente del Consiglio la nomina sarebbe eccessivamente divisiva, e il fatto che l’ambasciatrice in pectore sia stata eletta nel recente passato tra le fila degli uomini di Berlusconi scatenerebbe polemiche che non gioverebbero all’immagine d’Israele in Italia.
Sul tema intervengono fonti di Palazzo Chigi, interpellate al riguardo, smentendo seccamente la ricostruzione del quotidiano israeliano con queste poche righe: “Fonti di Palazzo Chigi smentiscono la ricostruzione offerta oggi da Haaretz sul presidente del Consiglio e il premier israeliano Netanyahu a proposito di Fiamma Nirenstein”.
Il quotidiano precisa tuttavia che nè Renzi nè il ministero degli esteri italiano “intendono creare una crisi sul dossier” e che Netanyahu non ha cambiato idea. L’iniziativa – secondo la fonte citata – nasce dai “problemi che potrebbero sorgere” con la nomina e si ricordano sia l’inopportunità segnalata dalla comunità ebraica italiana sia “l’opposizione del ministero degli esteri e di quello della difesa” per gli “apparenti conflitti di interesse” per il fatto che Nirenstein è stata parlamentare e “ora servirebbe come ambasciatore di un altro paese”.
Anche in questa carica “continuerebbe a ricevere un salario dal governo” italiano ed “è al corrente di segreti di stato” e “suo figlio lavora nell’intelligence italiana”.
“Fatti” – aggiunge – che hanno suscitato “obiezioni” da parte della “difesa italiana”.
“Anche adesso, pur se le sue credenziali non sono state ancora accettate – scrive su Haaretz il giornalista Barak Ravid – Nirenstein è attiva nella vita pubblica italiana e nei media e questo è considerata una infrazione del protocollo diplomatico”.
Il messaggio di Renzi – inviato, spiega il giornale, un mese e mezzo fa – è stato trasmesso ad uno consiglieri di Netanyahu e dice che “potrebbe essere prudente considerare di nominare qualcuno altro come ambasciatore di Israele a Roma”.
“Quello che stanno dicendo – osserva la fonte anonima citata da Haaretz – è che se Netanyahu vuole considerare la nomina di qualcun altro a quel posto, è invitato a prendere contatto e il governo italiano sarebbe felice di discuterne”.
Secondo il giornale, una fonte dell’ufficio di Netanyahu non ha negato “i dettagli” della vicenda e del messaggio da parte italiana.
Ma non per questo Netanyahu sembra aver cambiato idea sulla nomina di Nirenstein tanto che un alto funzionario del ministero degli esteri israeliano ha fatto sapere che l’indicazione del premier è stata “approvata la scorsa settimana dalla ‘Civil Service Commission’ e che dovrebbe essere portata nelle prossime settimane in gabinetto per il varo” definitivo.
Il giornale conclude citando fonti dell’ufficio di Renzi e del ministero degli esteri italiano secondo cui se Netanyahu insisterà sulla nomina non mancherà l’accettazione: “non vogliono questionare su questo”.
(da “Huffingonpost”)
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Aprile 17th, 2016 Riccardo Fucile
ALLE 12 HA VOTATO L’8,35% DEGLI ELETTORI…DATI SIMILI FINORA AL REFERENDUM SUL MATTARELLUM QUANDO ALLA FINE VOTO’ IL 49,58% DEGLI AVENTI DIRITTO
Secondo la prima rilevazione delle 12.00, l’affluenza al referendum sulle trivelle è superiore all’8%.
È ancora presto per fare proiezioni sul dato finale, e, di conseguenza, sul raggiungimento del quorum del 50% degli aventi diritto al voto.
Un raffronto parziale può essere fatto con il referendum del 1999 sull’abolizione della quota proporzionale del Mattarellum.
Allora votò il 49,58% degli aventi diritto. E alla prima rilevazione il dato si attestò al 6,7%. Una cifra più bassa, ma allora il primo dato arrivò un’ora prima, alle 11.
I due dati, confrontati a spanne, sono dunque più o meno in linea.
La domanda del giorno è ovviamente se il referendum sulle trivelle riuscirà a raggiungere il quorum.
È difficile dirlo, ma esiste un precedente che potrebbe aiutare ad avere un quadro della situazione prima della chiusura delle urne.
Nel 1999 si votava sull’abolizione della quota proporzionale della legge elettorale. Si sfiorò il 50%: gli italiani che andarono a votare furono il 49,58%.
Un precedente importante, perchè allora come oggi si votò in un unico giorno.
Nel ’99 (si votava il 18 aprile), furono forniti due dati sull’affluenza.
Alle 11 aveva votato il 6,7%. Un dato molto basso, ma evidentemente poco indicativo. Alle 17 si era raggiunto il 26,9%.
Quest’anno le due rilevazioni sono spostate in là nel tempo. La prima alle 12, la seconda alle 19.
A spanne, dunque, è necessario che in serata si sia superata almeno la soglia del 30% affinchè quota 50 possa essere raggiunta. Anche allora il partito di maggioranza relativa al governo (Forza Italia) aveva invitato all’astensione.
L’ultima volta che si raggiunse il quorum, nella consultazione del 1995 sulle tv, votando solo la domenica, alle 11 la percentuale aveva raggiunto poco più del 9%, e il dato finale raggiunse il 58,12%. Le urne, tuttavia, chiudevano un’ora prima, alle 22.
(da agenzie)
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