Ottobre 20th, 2017 Riccardo Fucile
LUI IRONICO: “VOTA L’INGIURIA CHE TI PIACE DI PIU'”… INUTILE DIRE CHE NESSUNO IDENTIFICA E DENUNCIA GLI ISTIGATORI ALL’ODIO RAZZIALE
Ride divertito, Paolo Fresu, ma dietro la sua ironia il discorso è assai serio e profondo. 
Il jazzista sardo ha aderito allo sciopero della fame a staffetta per sostenere la legge sullo ius soli e ieri, quando ha cominciato il suo digiuno totale di 30 ore, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un post per motivare il suo sostegno all’iniziativa.
Ed è cominciata la sequela di insulti.
Spiega Fresu: “Non curo io la mia pagina Fb, ma questa volta mi sono proprio voluto divertire. Ho letto i commenti a uno a uno e con le mie manine ho preparato un pdf abbinando a ogni insulto un aggettivo che ritenevo appropriato. Quel che mi colpisce è che non c’è confronto, soltanto offesa gratuita. Alla povertà linguistica dei post ho voluto oppore la ricchezza lessicale”.
Fresu ha poi rilanciato, pubblicando una selezione di ingiurie e sfidando chi lo segue a votare quella che si preferisce.
Nel florilegio ha titolato “Ripetitivo” il commento di chi gli scrive “A forza di suonare sei diventato suonato. Ma stai zitto stupido e pensa a suonare e metti da parte l’ideologia. Stupido”; “ginecologico” il commento in campidanese stretto che lo invita a ritornare nell’utero di sua madre (per altro uno degli insulti peggiori usati a Cagliari); “ospitale” colui che scrive “Se li porti a Berchidda” riferendosi ai migranti e al paese di nascita di Fresu.
E questi sono alcuni dei più teneri. Ma c’è anche l’ormai consueta gamma di insulti a sfondo razziale, omofobo, sessista, per non parlare di quelli violenti del tipo “tagliato a pezzetti e fatto a carne per salsicce e poi bruciare le salsicce”, bollato da Fresu con un “barbecue”.
“Il mio non vuole essere un attacco a chi mi ha insultato, ma un’occasione per riflettere su come non si sia più capaci di discutere, su come tutto sia risolto con un’offesa personale. Mi sconvolge la confusione nella testa di molte persone – dice il musicista – lo ius soli non ha nulla a che vedere con l’immigrazione. Sono andato a vedere i profili delle persone capaci di tale violenza verbale, sulle loro pagine ci trovi animaletti carini, foto di bambini, frasi sdolcinate. Non capisci come poi si scateni tanta aggressività “.
“Mi aspettavo qualche insulto, ma mi ha colpito la violenza. È vero che quella c’è sempre stata e anche le liti al bar finivano con a cazzotti, ma prima c’era almeno un minimo di confronto verbale. Qui nulla, c’è soltanto l’offesa e ho il timore che Internet spinga a non approfondire. Inoltre quando si parla di ius soli si parla di diritti umani, questo disprezzo non me l’aspettavo”.
“Rifletto da tempo sul perchè uno strumento meraviglioso come Internet diventi l’agorà del peggio, perchè nascoste dietro lo schermo le persone dicono e fanno cose che mai si sognerebbero di ripetere di fronte ad altri. Credo non si tratti soltanto del malessere sociale dovuto alla disoccupazione, alla crisi economica. Credo siamo di fronte a un problema generalizzato di solitudine, che va approfondito”.
Un problema, ci tiene a sottolineare Fresu, che non è tale per lui, ma per persone più deboli: “Quanto mi hanno scritto non mi turba, anzi, mi diverte vedere cosa sono riusciti a tirare fuori – scrive il musicista che spesso ha legato il suo nome a iniziative per il sociale – però è un problema della nostra società e va affrontato. Mi sono anche chiesto se non contribuivo a dare visibilità a chi non la merita, ma ho usato Facebook nel modo in cui credo di dovrebbe fare. Non posto mai cose personali, ne faccio un suo di servizio per diffondere idee o notizie importanti, credo serva a parlare di più dello ius soli”.
Infine Fresu richiama i gestori di siti e social alle loro responsabilità : “Chi ospita e divulga certi commenti deve prendersi le sue responsabilità . Dobbiamo darci delle regole perchè il dissenso venga espresso in modo diverso”.
E se gli si obietta che il rischio è di sfociare nella censura risponde: “Le violazioni più gravi vanno denunciate e per fortuna sono sempre più numerosi coloro che lo fanno, ma chi gestisce siti e piattaforme ha il dovere di capire se la società è quella che si sta esprimendo con violenza su Internet, oppure, come credo e spero, quella che tende la mano al prossimo e non passa il tempo dietro a un pc a insultare gli altri”.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 20th, 2017 Riccardo Fucile
IL PENTITO DI ‘NDRANGHETA NICOLA FEMIA A REGGIO CALABRIA RIAPRE STORIE MAI CHIARITE
Con la stagione dei sequestri di persona gestiti dalla ‘ndrangheta, ci mangiavano tutti: le cosche calabresi ma anche pezzi delle istituzioni che con le famiglie mafiose più potenti della provincia di Reggio non avrebbero esitato a sedersi allo stesso tavolo.
Servizi segreti, poliziotti e mediatori che, in un modo o nell’altro, si sono spesi per dare un’immagine di uno Stato che reagisce all’Anonima sequestri.
Anche a costo di entrare nelle sanguinarie dinamiche dell’Aspromonte non esitando a scarcerare boss della ‘ndrangheta come Vincenzo Mazzaferro e a far circolare, per tutta la Locride, una valigetta con dentro 500 milioni di vecchie lire.
Erano i soldi che lo Stato ha pagato per la liberazione di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni.
Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò al termine di un processo nelle cui pieghe, forse, ancora si nasconde il resto di una storia che, se confermata, dimostrerebbe come lo Stato non ha trattato solo con Cosa nostra per fermare le stragi del 1993. Lo ha fatto ancora prima, in Calabria, avventurandosi tra i sentieri dell’Aspromonte con i boss della ‘ndrangheta.
L’archiviazione della Procura di Brescia
“Dottori, queste sono cose delicate perchè questi sono uomini di legge…”. Interrogato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci e dai sostituti della Dda Stefano Musolino e Simona Ferraiuolo, il collaboratore di giustizia Nicola Femia sa che le sue dichiarazioni rischiano di riaprire storie vecchie e mai del tutto chiarite, nonostante i rapporti tra uomini in divisa e clan siano stati oggetto di un’indagine poi archiviata dalla Procura di Brescia per la quale — riportava un’Ansa del 1996 — “restano semplici sospetti insufficienti a sostenere delle accuse davanti a un tribunale”.
Quei sospetti, oggi, sono confermati dal boss Femia arrestato nell’inchiesta “Black monkey” sugli affari delle cosche calabresi in Emilia Romagna.
Condannato in primo grado, Femia ha deciso di pentirsi.
Ai magistrati della Procura di Reggio ha raccontato di non essere mai “stato affiliato alla ‘ndrangheta. Io praticamente ero un uomo ‘riservato’ di Vincenzo Mazzaferro”.
I pm lo interrogano a giugno e il verbale finisce nel fascicolo del processo “Gotha” che vede alla sbarra la componente “riservata” della ‘ndrangheta, tra cui gli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Non è un caso che nei capi di imputazione contestati nel processo ci sia anche il riferimento alla famiglia mafiosa dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica.
Ai magistrati, Femia descrive gli anni in cui viveva in Calabria, sempre al fianco del boss Vincenzo Mazzaferro. Racconta di quando lo accompagnava a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri.
Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: “Sono andato dentro le mura praticamente. — dice -Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui”. Lui era un “certo Antonio” che aveva il compito di andare in Colombia dove i miliardi delle cosche si trasformavano in tonnellate di droga.
Una trattativa Stato-‘ndrangheta per liberare l’ostaggi
Ma è la seconda parte del verbale, quella dedicata ai sequestri di persona degli anni 80 e 90, che ha spinto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e il pm Stefano Musolino a inserire numerosi “omissis” per coprire i nomi pronunciati da Femia sulla trattativa Stato-‘ndrangheta per la liberazione di Roberta Ghidini.
Fascicoli che, adesso, la Dda sta rispolverando per incrociarli con le dichiarazioni di Femia secondo cui quel sequestro “lo aveva fatto Vittorio Jerinò”.
Per convincere quest’ultimo a rilasciare l’ostaggio, entrano in gioco i servizi segreti che — ricorda Femia — “si muovono con i soldi”.
Ma i soldi non bastano: servono anche contatti, numeri di telefono, persone disposte a stare nel mezzo. In una parola, mediatori capaci di entrare in contatto con Jerinò.
“E hanno trovato Vincenzo Mazzaferro” che però, in quel momento, era detenuto e doveva “uscire dal carcere”.
Detto fatto: “I soldi tramite loro (i servizi, ndr) sono arrivati, so che si sono mossi ed è uscito Vincenzo Mazzaferro dal carcere. Era detenuto a Regina Coeli, a Roma, ed è uscito”. Quando la ‘ndrangheta prende un impegno, non ci sono dubbi che lo porti a termine: il boss parla con Vittorio Jerinò e gli dà i soldi che gli deve dare, liberano l’ostaggio e tutti amici.
“Vincenzo Mazzaferro ritorna in carcere? — domanda il procuratore aggiunto Paci — Cioè come esce?”. “No, che ritorna. Esce. Femia ricorda tutto quello che gli ha confidato Mazzaferro ma non ha le risposte a ogni domanda: “Farete le indagini voi per vedere che cosa è successo, io non vi posso dire niente perchè sono fatti di Stato”.
Fatti di Stato e ‘ndrangheta. Servizi segreti e cosche che, almeno per quanto riguarda Mazzaferro, si parlavano attraverso un confidente, un informatore del quale Nicola Femia fa anche il nome: “Isidoro Macrì. Basta che vi informate alla questura di Reggio Calabria. Era l’autista… l’autista perchè Vincenzo Mazzaferro era strano… questo Isidoro portava l’imbasciata avanti e indietro, faceva pure la persona normale… perchè lui lo mandava… i rapporti con i marescialli glieli faceva tenere direttamente a lui e non a persone che magari erano di fiducia per non sputtanarsi”. A un certo punto, le cose cambiano. La ‘ndrangheta lascia stare i sequestri e il suo core-business diventa il traffico internazionale di droga.
Così la ‘ndrangheta decise di chiudere con i sequestri
“Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri”. Per il pentito Femia è stato un vero e proprio accordo tra le famiglie della Locride: “All’epoca — dice — erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo”.
Con i sequestrati in Aspromonte e i controlli della polizia non si poteva trafficare in droga. Ecco perchè ci fu un summit di ‘ndrangheta in cui si decise di chiudere con la stagione dei sequestri. Una strategia voluta dai boss Peppe Nirta, Vincenzo Mazzaferro e Pepè Cataldo, tutti morti ammazzati da lì a qualche anno e tutti in periodi in cui le loro famiglie non erano coinvolte in faide: “Di smettere con i sequestri. — fa mettere a verbale Femia — non gli è stato bene a qualcuno… a personaggi che lavorano con i servizi, non lo so a chi”.
Il pentito: “I servizi ci mangiavano con i sequestri”
Il collaboratore ha paura, il pm Musolino lo capisce e lo tranquillizza: “Non sia timoroso”.
Femia continua e lascia intendere che dietro quegli omicidi potrebbero esserci moventi diversi da quelli esclusivamente mafiosi: “Chi lo doveva ammazzare Vincenzo Mazzaferro? — si domanda — Aveva la macchina blindata e non la prendeva più, con gli Aquino (clan rivale, ndr) aveva fatto la pace, chi lo doveva toccare?”. Le risposte il pentito non ce l’ha. Sa solo che “i servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 20th, 2017 Riccardo Fucile
LE MOTIVAZIONI DELLA CONDANNA
Umberto Bossi non solo sapeva, ma ha gestito secondo i giudici in prima persona la
distrazione dei fondi leghisti, che si è protratta per anni nel partito.
Lo scrive il tribunale di Genova, che nelle ultime ore ha depositato le motivazioni delle condanne scattate nei mesi scorsi per lui e per l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito (oltre che degli ex revisori dei conti) per la maxi-truffa al Parlamento su 48 milioni di rimborsi pubblici ottenuti fra 2008 e 2011.
«Sia Belsito che Bossi — scrivono quindi i magistrati – erano consapevoli delle irregolarità dei rendiconti da loro sottoscritti e che dissimulavano le irregolarità di gestione e i fatti di appropriazione descritti. Ciò vale, ovviamente per Belsito artefice materiale delle appropriazioni, a favore proprio o di terzi e responsabile anche attraverso indicazioni carenti o non veritiere alle addette alla segreteria amministrativa delle false e/o ingiustificate annotazioni contabili… Ma vale anche per Umberto Bossi, considerando che la irregolare gestione contabile si protraeva da anni; che egli, suoi familiari e persone del suo entourage erano i benefìciari delle spese, anche ingenti, a fini privati; che i rimborsi mensili forfettari ed in “nero”, anche per attività inesistenti e comunque non documentate – che inficiavano la regolarità della gestione contabile e dei rendiconti – erano erogati anche a favore di suoi stretti congiunti e collaboratori; che tali prassi era in atto fin dai tempi del tesoriere Balocchi; che per ragioni di carica aveva certamente contatti continui con Belsito; che non vi era alcuna logica ragione, per lo stesso Belsito o per altri appartenenti alla Lega, di effettuare spese ed erogazioni a favore di Umberto Bossi e dei suoi familiari ad insaputa dello stesso Bossi Umberto. La consapevolezza di Umberto Bossi- e quindi la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato- emerge inoltre dal contenuto delle telefonate… nelle quali si fa espresso riferimento non solo alla consapevolezza, ma alla espressa indicazione del Segretario federale alle distrazioni a favore suo e dei familiari».
(da “il Secolo XIX”)
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Ottobre 20th, 2017 Riccardo Fucile
NON BASTA FERMARSI AI DUE MILIONI TROVATI, LA TRUFFA E’ DI 49 MILIONI, LA GIURISPRUDENZA INDICA CHIARAMENTE CHE OCCORRE RAGGIUNGERE L’IMPORTO PREVISTO DALLA SENTENZA
La procura di Genova chiederà al tribunale di poter sequestrare altri soldi sui conti della Lega Nord, comprese quelle depositate in futuro.
È quanto deciso durante il vertice tra il procuratore capo Francesco Cozzi, l’aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e il pm Paola Calleri dopo la decisione del Riesame con la quale è stata dichiarato inammissibile il ricorso della procura e nulla la decisione del tribunale di fermare i sequestri a poco meno di due milioni di euro in quanto avrebbe dovuto decidere un collegio e non un singolo giudice, come invece accaduto.
Il pm genovese Paola Calleri aveva deciso di impugnare la decisione dei giudici di fermare il sequestro al denaro trovato sui conti in tutta Italia per fare chiarezza, in maniera definitiva, sulla vicenda e su casi analoghi che potrebbero verificarsi in futuro. L’orientamento giurisprudenziale, a oggi, è sempre stato quello di continuare a sequestrare somme di denaro alle persone giuridiche beneficiarie del frutto del reato commesso da un altro soggetto fino al raggiungimento di quanto previsto dalle sentenze.
Nei giorni scorsi, invece, il tribunale genovese aveva invertito la tendenza stabilendo che il sequestro si ferma a quanto trovato al momento dell’esecuzione del provvedimento.
I sequestri erano scattati a settembre quando la Guardia di finanza aveva bloccato il denaro nei conti sparsi in tutta Italia.
Era stata la stessa Procura a chiederlo dopo che il tribunale a luglio aveva disposto la confisca di quasi 49 milioni di euro dopo la condanna di Umberto Bossi, dell’ex tesoriere Francesco Belsito e dei tre ex revisori contabili.
(da “il Secolo XIX”)
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