Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
PENSIONI E REDDITI GRATIS PER TUTTI, UN DELIRIO DI PROMESSE IRREALIZZABILI CHE CREEREBBERO UN BUCO DI 200 MILIARDI… E SI ACCORGE CHE I GRILLINI SONO UN PARTITO AZIENDALE (COME IL SUO)
“Nel ’94 scesi in campo perchè altrimenti il partito comunista sarebbe andato al potere, solo con la mia discesa in capo e la creazione di Forza Italia riuscimmo a evitare questo gravissimo pericolo. Oggi c’è in campo il M5S, una formazione più pericolosa dei post comunisti di allora”, che somiglia più a una “setta” che a un partito.
È un Silvio Berlusconi in pieno transfert psicologico quello che, a Domenica Live, salotto di Barbara D’Urso, trasferisce sui 5 Stelle tutte le terribili qualità che nella sua storica narrativa erano dei comunisti.
Il Movimento 5 Stelle, per Berlusconi, è anche peggio: “è quasi una setta, che prende ordini da un vecchio comico e dal figlio sconosciuto dell’altro socio del comico, adesso defunto”.
I pentastellati, secondo l’ex premier, “porterebbero l’Italia verso un vero disastro”, imponendo “una morsa letale sul ceto medio, con un’imposta di successione vicina al 50% e con un’imposta patrimoniale”. E poi, ha aggiunto Berlusconi, “potrebbero portare al governo i peggiori rappresentanti della magistratura militante”.
Il leader forzista riveste i panni del venditore di sogni.
Nel giro di qualche minuto è arrivato a proporre: flat tax, pensioni minime di mille euro al mese, estensione alle mamme senza contributi della pensione minima e reddito di dignità .
“Vogliamo operare una vera e propria rivoluzione fiscale, la flat tax, con una unica aliquota pari o inferiore alla più bassa di quelle attuali, al 23%”, ha detto Berlusconi, secondo cui la misura sarà coperta con la “minore evasione e minore elusione per almeno 40 miliardi”.
Non solo. “Aumenteremo tutte le pensioni minime a 1.000 euro al mese. Daremo questa pensione anche alle mamme che non hanno mai versato i contributi”.
Roba da bancarotta fraudolenta nel giro di pochi mesi.
Salvo che intervenga prima un trattamento sanitario obbligatorio.
(da agenzie)
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Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
FA TRIS ANCHE LA FAMIGLIA DE VITO E FANNO BIS DIACO, LEONARDI E MORAZZANO
Dopo il figlio, la moglie del figlio. E adesso anche il padre. 
Enrico Stefà no, bis-consigliere al comune di Roma e presidente della Commissione Trasporti della Capitale, potrebbe presto avere altra compagnia in famiglia tra chi scende in politica, come si suol dire, con il MoVimento 5 Stelle.
Il Messaggero infatti scriveva ieri che tra i candidati su cui punta il MoVimento 5 Stelle a Roma ci sarà anche Stefano Stefà no, avvocato cassazionista oltre che ex consulente legale delle società del gruppo IRI-ITALSTAT (Autostrade, Bonifica, ecc.).
Ma soprattutto, appunto, padre di Enrico Stefà no. Del consigliere comunale a 5 Stelle si era parlato nel luglio 2016 a proposito di Veronica Mammì, candidata alla Regione Lazio nel 2013 con il M5S, collaboratrice della deputata Federica Daga e in seguito portavoce consigliera del Municipio VI Roma delle Torri, perchè nel frattempo proprio lei era diventata ed è tuttora assessora alle politiche abitative, sociali e alle pari opportunità nel VII Municipio. Oltre che compagna proprio di Stefà no, appunto.
In attesa di sapere se l’avvocato Stefà no passerà le Parlamentarie e potrà seguire le orme del figlio e della di lui compagna, non è solo la sua famiglia ad aver fatto tris nel MoVimento 5 Stelle.
Basti ricordare Marcello De Vito, presidente dell’Assemblea Capitolina, che a casa troverà molti argomenti di discussione in comune con Giovanna Tadonio — sua moglie ma anche assessora alla sicurezza nel III Municipio guidato da Roberta Capoccioni, fedelissima di Roberta Lombardi — e durante le feste comandate ne troverà altrettanti con la sorella Francesca De Vito, candidata consigliere alla Regione proprio mentre la Lombardi corre per la carica di governatrice.
Nel M5S Roma c’è però chi si accontenta del bis: ad esempio Daniele Diaco, consigliere capitolino e presidente della Commissione Ambiente oltre che marito di Silvia Crescimanno, presidente del XII Municipio.
E poi c’è l’ormai disciolto VIII Municipio: in consiglio sedevano Teresa Leonardi (40 preferenze) ed Eleonora Chisena (91), madre e figlia; Giuseppe Morazzano (41 voti) e Luca Morazzano (34), padre e figlio.
Si vede che la passione civile si trasmette per via genetica o insieme alle affinità elettive. Sempre meglio della vecchia politica, no?
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
COTTARELLI SPIEGA LE CONSEGUENZE DELLA ABOLIZIONE DELLA NORMA E EVIDENZIA CHE LE COPERTURE NON ESISTONO SE NON NELLA FANTASIA DI SALVINI
Carlo Cottarelli scrive su Repubblica oggi un editoriale in cui spiega quali siano i veri numeri della legge Fornero e quanto effettivamente costi abolire la legge Fornero, come ha cominciato a promettere la Lega di Salvini incassando, dopo un primo tentativo di gioco di parole, anche il sì di Forza Italia.
In premessa Cottarelli, che è stato commissario alla spending review chiamato dal governo Letta, poi confermato e infine congedato dal governo Renzi, spiega che la riforma delle pensioni del decreto legge 201/2001 è la conclusione di una serie di interventi che a partire dagli anni Novanta cercarono di contenere l’aumento della spesa per pensioni.
Tra parentesi, va ricordato che l’agganciamento dell’età di pensionamento alle aspettative di vita era preesistente alla legge Fornero, prima della quale si prevedeva che, grazie alle riforme già attuate, la spesa per pensioni sarebbe stata nel 2045 più o meno al livello del 2011 (circa il 15 per cento del Pil), riducendosi successivamente.
Tra il 2011 e il 2045, però, la spesa avrebbe continuato a crescere per diversi anni prima di cominciare a scendere: c’era quella che si chiamava una “gobba” nel grafico della spesa per pensioni in rapporto al PIL.
Uno degli effetti della legge Fornero è stato l’accelerazione dell’aumento dell’età di pensionamento e del passaggio al contributivo.
La spesa per le pensioni con la riforma rimane costante rispetto al PIL per circa trent’anni.
Spiega Cottarelli che il risparmio totale (cioè cumulato negli anni fino al 2060) rispetto alla situazione precedente veniva quantificato in circa 20 punti percentuali di Pil dalla Ragioneria Generale dello Stato, una cifra ragguardevole per un paese il cui debito pubblico è già così alto.
Ecco perchè, spiega Cottarelli, un’abolizione avrebbe effetti pesanti sul debito pubblico. Ma non è questo l’unico problema.
Un altro è quello demografico: in una pubblicazione intitolata “Il futuro demografico del paese” dell’aprile 2017, l’Istat ha rivisto le proiezioni demografiche: l’Italia invecchia più rapidamente del previsto, sicchè, anche dopo il dl 201/2011 il rapporto tra spesa per pensioni e Pil, costante sui livelli attuali fino al 2030, è ora previsto crescere di un punto di Pil tra tale data e il 2045. Insomma, si è creata una nuova, seppur più piccola, gobba.
C’è poi da dire che l’andamento del rapporto della spesa per pensioni rispetto al PIL è basato su ipotesi ottimistiche riguardo l’andamento del PIL, e, spiega ancora Cottarelli, che “la crescita del Pil sia sostenuta da un continuo flusso di immigrati che si stabilizzino in Italia (150-160.000 all’anno nei prossimi decenni), un aumento del tasso di attività (il rapporto tra partecipanti al mercato del lavoro rispetto alla popolazione in età lavorativa crescerebbe dall’attuale 57 per cento al 67 per cento nel giro di 20-25 anni), un aumento delle nascite e quindi della forza lavoro (il numero di figli per donna salirebbe dall’attuale 1,35 a 1,55 entro il 2045) e, soprattutto, un aumento del tasso di crescita della produttività (che dallo zero che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni salirebbe all’uno e mezzo per cento)”.
Secondo le stime del presidente Inps Tito Boeri l’abolizione della legge Fornero costerebbe fino a 140 miliardi nel 2020.
Cancellare la Fornero si tradurrebbe infatti in un abbassamento di 2 o 3 anni degli attuali requisiti per accedere al pensionamento di anzianità o di vecchiaia.
Secondo alcune stime, i flussi di pensionamento aumenterebbero di circa 80mila unità all’anno.
Secondo i calcoli della Ragioneria generale dello Stato, cancellare la legge Fornero significa rinunciare a circa 350 miliardi di euro di risparmi cumulati fino al 2060.
Il grosso del buco si realizzerebbe a medio termine, ovvero nel decennio 2020-30: periodo nel quale si sacrificherebbe a questa iniziativa circa un punto di Pil ogni anno, cioè 17 miliardi di euro, con un massimo di 1,4 punti nel 2020, ovvero 23,8 miliardi fra due anni.
Per questo, conclude Cottarelli, bisogna trovare coperture credibili. Chi vuole abolire la legge Fornero sostiene che una maggiore crescita del PIL conterrebbe la crescita delle pensioni. La pressione sui conti pubblici dovrebbe essere compensata da maggiori tasse o tagli ad altri tipi di spesa (che già sono stati compressi negli ultimi anni visto che la spesa per pensioni è stata la parte di gran lunga più dinamica della spesa pubblica, incluso negli ultimi 10 anni).
A meno di non voler scaricare tutto sul debito pubblico.
(da agenzie)
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Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
DA ALFANO A GIOVANARDI, DA CALENDA ALLA FINOCCHIARO, DALLA BINDI A DI BATTISTA: CHI PER FORZA CHI PER CONVENIENZA
Se siete già saturi della campagna elettorale, pensate che ci sono nomi e volti che non
vedrete più, quanto meno in Parlamento — perchè, va detto, alcuni potreste anche ritrovarveli, chissà , come ministri.
Fatto sta che alle elezioni del 4 marzo non si ricandideranno, o per “dedicarsi ai figli” o per fare un passo indietro dopo decenni nelle istituzioni.
Ne abbiamo selezionati otto.
A dire addio per dedicarsi al figlio, anche se poi bisognerà vedere cosa succederà dopo il 4 marzo, è stato Alessandro Di Battista: “Non mi ricandido. È una scelta mia, alla quale la nascita di mio figlio ha dato più benzina”, ha annunciato su Facebook. Altro addio di primo piano è quello di Angelino Alfano, che ha spiegato che non correrà alle prossime elezioni.
A rifiutare una candidatura in Parlamento è stato anche il ministro Carlo Calenda, in corsa con Scelta civica alla Camera nel 2013 ma non eletto. Per lui un posto in lista lo avrebbe trovato volentieri il Pd.
Non vedremo più in Parlamento una veterana come Anna Finocchiaro: “Finisco qui il mio mandato”, ha annunciato la ministra dei Rapporti con il Parlamento in una recente intervista alla Stampa.
Nè un altro storico volto del Pd come Rosy Bindi, che tempo fa aveva annunciato la decisione di non voler più correre.
Non parteciperà nemmeno Vannino Chiti: “La legislatura che si sta concludendo per me sarà l’ultima”, ha spiegato non nascondendo qualche nota amara: “Non ho condiviso la scelta del Pd sulla legge elettorale”. Così come il giornalista Massimo Mucchetti (Pd): anche lui non sarà della partita.
Niente più Transatlantico anche per Carlo Giovanardi, in Parlamento ininterrottamente dal 1992: “Ho 68 anni. Nessun accanimento. Bisogna sapere quando dire basta”, ha spiegato.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
ALTRA BANDA DI RAGAZZINI DELINQUENTI FERISCONO DUE RAGAZZI, LA POLIZIA CHE LA PAGHIAMO A FARE? PER VISIONARE LE TELECAMERE AD AGGRESSIONI AVVENUTE?
In dieci, armati di catena per rapinare uno smartphone: ennesimo raid di una baby gang a Pomigliano d’Arco (Napoli). E’ accaduto nella tarda serata di ieri: vittime due studenti di 14 e 15 anni, circondati e picchiati dagli aggressori che li hanno derubati di un telefonino. Le vittime – medicate in ospedale e poi dimesse – si sono rivolte ai carabinieri che hanno identificato due degli aggressori, un 15enne e un 14enne, quest’ultimo non imputabile.
L’aggressione è avvenuta nella villa comunale di Pomigliano d’Arco. I carabinieri di Castello di Cisterna, chiamati sul posto, hanno raccolto le descrizioni degli aggressori e poco dopo hanno rintracciato due dei componenti del branco, arrestando per rapina un 15enne incensurato del luogo e bloccando un minore di 13 anni (non 14 come scritto in precedenza), non imputabile, di Somma Vesuviana.
Il primo era ancora in possesso di una catena con cui aveva minacciato e picchiato i due studenti. Questi ultimi, trasportati in ospedale a Nola, sono stati medicati e dimessi: entrambi hanno riportato contusioni al volto e all’addome. Sono in corso le indagini per dare un nome agli altri componenti della baby gang.
E’ da due mesi che le cronache registrano, a Napoli, un numero crescente di episodi di violenza riconducibili a gruppi di minorenni, spesso in azione nelle cosiddette ‘zone bene’ della città , specie nelle notti della movida.
12 NOVEMBRE. Un ragazzo di 15 anni viene accoltellato in Villa Comunale. Una gang di una decina di giovanissimi lo circonda; uno di questi, un 17enne, lo ferisce più volte con un coltello. Due settimane dopo sarà fermato dalla polizia municipale.
10 DICEMBRE. Un ragazzo di 15 anni si trova in via Merliani, quartiere Vomero, per una passeggiata del sabato sera, con la sorella e due altri amici. Arriva un gruppo di giovani con il volto coperto da cappelli e scaldacollo. Gli intimano di andare via da quella zona. Il quindicenne tenta di reagire, specie dopo gli insulti rivolti a sua sorella, e viene accoltellato al petto.
17 DICEMBRE. Piazza Vanvitelli, quartiere Vomero: due giovani di 18 e 16 anni accoltellati da un branco di aggressori, individuato nei giorni scorsi dai carabinieri. Motivo dell’aggressione: uno sguardo di troppo. Sedici i denunciati, giunti al Vomero a bordo di sette scooter. Le coltellate inferte sarebbero state letali, secondo i medici, se appena più profonde.
18 DICEMBRE. Arturo, 17 anni, nella centralissima via Foria viene accerchiato da un gruppo di minorenni. I ragazzini lo prendono di mira: spintoni, risate, insulti. Poi le coltellate al petto e alla gola che lo lasciano esanime al suolo. Finisce, gravissimo, in ospedale: nei giorni successivi subisce il distacco della pleura. Poi le sue condizioni migliorano, e proprio domattina tornerà a scuola. Per lui i giovani di Napoli si mobilitano con un corteo che vede centinaia di presenze.
6 GENNAIO. Ancora coltelli in azione in via Carducci, quartiere Chiaia. Due giovani di 19 e 18 anni vengono feriti da una gang di una decina di ragazzini dopo un diverbio per futili motivi.
12 GENNAIO. Una quindicina di giovanissimi accerchiano tre ragazzini in attesa del bus all’esterno della stazione della metropolitana di Chiaiano, periferia nord della città . Due riescono a fuggire, il terzo – Gaetano, 15 anni – finisce a terra, sommerso da calci e pugni. Subisce l’asportazione della milza.
(da agenzie)
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Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
“SERVE RESPONSABILITA’, TROPPI XENOFOBI SOFFIANO SUL FUOCO DELLA RABBIA SOCIALE”
«Ho paura di chi soffia sul fuoco della rabbia sociale, le scintille della fiamma possono
propagarsi ovunque».
Il cardinale Gualtiero Bassetti, dal maggio scorso alla guida della Cei, in questa intervista con La Stampa anticipa lo sguardo della Chiesa italiana sul dibattito politico e la prossima campagna elettorale: «C’è un’Italia da rammendare e da rilanciare con coraggio, carità e responsabilità ».
Quali sono, dall’osservatorio rappresentato dalle parrocchie italiane, le priorità per il nostro Paese?
«Il lavoro, la famiglia, i giovani: non a caso, sono tre temi che in più occasioni ho definito come “priorità irrinunciabili” per il nostro Paese. Ma la vera prima grande priorità è l’Italia stessa. Sento parlare sempre di misure specifiche o di bonus. Tutte cose buone, ma mi sembrano solo delle toppe. Occorre invece ricucire l’intero vestito. C’è un’Italia da rammendare e da rilanciare con coraggio, carità e responsabilità . Bisogna ritornare a riflettere secondo un orizzonte di comunità , di popolo, di Italia intera. Altrimenti, ho l’impressione che rimaniamo in una palude stagnante. C’è un Mezzogiorno che ormai da decenni vive in condizioni critiche. Ci sono milioni di giovani che vivono una precarietà drammatica. E con loro milioni di famiglie che, per arrivare a fine mese, compiono degli atti di eroismo quotidiano paragonabili alla scalata in libera del Cervino».
Come guarda la Chiesa italiana alla prossima scadenza elettorale? Teme anche lei un possibile esito senza vincitori che porti instabilità , come paventato da L’Osservatore Romano?
«In quell’articolo, che condivido, si parla di “tante incognite” e anche del ruolo del Presidente della Repubblica. Il giorno dopo le elezioni, a prescindere dall’esito del voto, sarà fondamentale che tutti gli uomini e le donne di buona volontà , a partire da coloro che ricoprono incarichi istituzionali con grande senso di responsabilità come il presidente Mattarella, si impegnino per il bene comune e per il futuro del Paese. È importantissimo inoltre che la politica torni ad essere quella con la P maiuscola, vissuta come una missione civile per l’Italia e non tanto come un luogo di potere. Francamente è un po’ deprimente assistere ai litigi sui social network, alle chiacchiere da salotto in tv o, peggio ancora, ai continui slogan che promettono “miracoli” che poi non si potranno rispettare. In questi giorni, poi, mi sembra che tutti vogliono abrogare qualche norma. Forse sarebbe molto più utile proporre qualcosa di concreto per ricostruire. Non si può solo rincorrere il “rancore sociale”, come lo chiama il Censis; ci serve, piuttosto, il coraggio di proposte autentiche».
Il partito “cattolico” non esiste più, i cattolici sono presenti in tutti gli schieramenti. Come vede il loro ruolo?
«I cattolici in politica devono dimostrare maturità , coscienza formata e autonomia di giudizio per essere veramente il sale della terra. Con due avvertenze: innanzitutto, devono avere la consapevolezza che la politica è una missione laica altissima da svolgere per il bene comune di tutti i cittadini, senza avidità di potere e senza confondere il momento spirituale con quello politico. In secondo luogo, che la difesa della vita e la cura dei poveri sono due lati della stessa medaglia. Come ho già detto, non ci si può dividere tra “cattolici del sociale” e “cattolici della morale”, magari con scomuniche reciproche. La vita di un bambino che sta per nascere ha lo stesso valore della vita di un migrante nel Mediterraneo, di un precario sfruttato o di un anziano che viene scartato dalla nostra società . La vita non si uccide, non si compra e non si sfrutta! Di questo tra una settimana parleremo anche nel prossimo Consiglio permanente della Cei».
Una parte significativa del mondo cattolico si è spesa in favore dell’approvazione della legge sullo ius soli. È deluso per come è andata?
«Ho avuto la sensazione che il dibattito nell’ultimo anno e mezzo sia stato condizionato dalla paura, da molti equivoci e dall’instabilità politica. La Chiesa si prende cura da sempre, ben prima della discussione della legge, dei poveri, dei forestieri e dei migranti: è un mandato evangelico il nostro, non certo un programma politico. Quindi, più che deluso sono molto preoccupato per certi giudizi trancianti che sono stati dati e per alcuni rigurgiti di xenofobia che sono un campanello di allarme che non va sottovalutato. Bisogna ritrovare, pertanto, una serenità di giudizio e uno spirito veramente collaborativo per affrontare un tema come quello sulla cittadinanza che è un argomento importante a cui vanno date soluzioni positive».
La legislatura si è conclusa con il varo della discussa legge sul fine vita: gli ospedali cattolici faranno obiezione? Non teme uno scontro e la possibile revoca delle convenzioni?
«Io non credo che uno scontro porti mai dei reali benefici alla collettività . A maggior ragione in questo momento così incerto. Credo invece nella concretezza del buon senso e nella ragionevolezza del dialogo. Quindi, rimango fiducioso. Ovviamente, non si può chiedere ad un credente di compiere un’azione contraria alla propria fede, nè a un medico di rinunciare al proprio codice deontologico. Mi sembrano principi di buon senso, che possono essere applicati a chiunque».
In molti Paesi europei si rafforzano movimenti e partiti populisti. Ha timori anche per l’Italia?
«Ho paura di chi soffia sul fuoco della rabbia sociale, soprattutto dei ceti poveri e popolari. Per esperienza personale — sia di montanaro, cresciuto nelle campagne romagnole, che di vescovo — so bene che quando si soffia in un camino acceso, il fuoco non solo non si spegne ma le scintille della fiamma possono propagarsi ovunque. Ricordo benissimo, all’inizio del mio episcopato, quando dovetti occuparmi, non per scelta ma per necessità , delle industrie di Piombino. Aiutare la povera gente, favorire la riconciliazione, mediare tra operai e imprenditori fu difficilissimo, ma alla fine si salvarono sia le industrie che i posti di lavoro. Quindi sì, ho timore di tutti coloro che si appellano al popolo in modo strumentale, magari urlando a squarciagola ma senza fare niente di concreto».
Dopo questi primi mesi di presidenza della Cei può dirci come il Papa segue le vicende del nostro Paese?
«Sono in stretto contatto con il Papa. Ho avuto modo di incontrarlo e di sentirlo in questi mesi. Francesco ha piena conoscenza di quello che accade nel nostro Paese e, soprattutto, ne conosce le virtù, i limiti e il carattere del popolo. Del resto, non dobbiamo mai dimenticare, infatti, che il Santo Padre è un “figlio” di italiani emigrati in Argentina. Posso testimoniare che ci è vicino e ci accompagna perchè vuole molto bene all’Italia».
(da “La Stampa”)
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Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
LE DIOCESI HANNO DECISO DI UTILIZZARE I FONDI DELL’OTTO PER MILLE PER I PADRI SEPARATI… I NUMERI DEL FENOMENO
Un’infografica di Repubblica basata su dati Istat del 2015 riepiloga oggi i numeri dei padri separati: 17 anni è la durata media del matrimonio al momento della separazione, che arriva di solito a 48 anni per i mariti e a 45 per le mogli.
Il 94% delle separazioni finisce in tribunale, dove il giudice impone al padre un assegno di mantenimento; un uomo che guadagna mediamente 1400 euro al mese può arrivare a pagarne da 400 a 700 in base al numero di figli; solo l’8,9% dei figli è affidato esclusivamente alla madre mentre il 60% è la percentuale delle separazioni in cui l’abitazione è assegnata alle mogli, in crescita rispetto a dieci anni fa.
La percentuale sale al 69% per le madri con almeno un figlio minorenne.
Il quotidiano racconta che da qualche mese alcune diocesi hanno deciso di utilizzare per i separati e i divorziati i fondi dell’8 per mille destinati alla carità .
L’ultima diocesi in ordine di tempo è Albano. Sabato, monsignor Marcello Semeraro, vescovo della cittadina laziale e segretario del C9, il Consiglio dei cardinali che aiuta il Papa nella riforma della Curia, inaugurerà la casa “Monsignor Dante Bernini”.
Situata sul litorale di Tor San Lorenzo, ospiterà otto uomini (sette gli italiani) divorziati e separati – «non faccio distinzioni», dice Semeraro – che potranno vivere lì anche con i propri figli durante il tempo in cui sono loro affidati.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
FUGGITO DAL GAMBIA E PERSEGUITATO DAL DITTATORE JAMMEH, POI LE TORTURE… “DOPO DUE MASTER SOGNO DI DIVENTARE PRESIDENTE DEL MIO PAESE”
Le onde gelide che schiaffeggiano il gommone. Le urla di terrore dei compagni di viaggio
ammassati uno sull’altro. La brutalità degli scafisti.
Quando prende sonno, poche ore a notte, Alagie Jinkang ha ancora gli incubi. E la sua mente torna al novembre 2013, quando ha attraversato il Mediterraneo su una carretta del mare. «Ero certo che sarei morto, ma siamo sopravvissuti tutti», racconta oggi.
Della traversata non parla volentieri. Non perchè sia una ferita aperta. «Adesso sono un’altra persona, ho voltato pagina. Non sono più il ragazzo fuggito dalla Libia su un barcone. Per fortuna sono diventato altro», dice sorridendo poco prima di imbarcarsi su un volo per Valencia.
In Spagna continuerà il dottorato di ricerca in giurisprudenza (specializzazione in diritti umani) iniziato all’università di Palermo.
La nuova vita di questo ragazzo gambiano di 28 anni inizia quando sbarca a Pozzallo. «Il mio primo pensiero era imparare l’italiano. Ho subito cercato una libreria, anche se non avevo un soldo».
Il commesso, poi diventato suo grande amico, gli regala un vocabolario. E gli dà il soprannome con cui lo conoscono ancora tutti: il professore. Ma la vera salvezza di Alagie ha i volti sorridenti di Enzo Bozza e Rosaria Palumbo, una coppia di torinesi in vacanza a Pozzallo.
Lo conoscono al Caffè Letterario e lo «adottano», offrendogli l’opportunità di seguirli sotto la Mole. «Ci ha stupito perchè chiedeva solo di poter studiare. Era il suo più grande desiderio», racconta Enzo Bozza, che ora Alagie chiama papà .
L’occasione della svolta arriva da una borsa di studio vinta all’International university college (Iuc) di Torino, dove nel 2016 ottiene il master in diritto, economia e finanza comparati, e di cui oggi è ricercatore.
Come è evidente, Alagie non è partito per disperazione. Ma ha vissuto lo stesso inferno di migliaia di persone fuggite dall’Africa. In Gambia non ha mai fatto la fame: era professore di inglese e giornalista. E anche attivista politico: la sua condanna.
Durante le lezioni racconta agli studenti di avere un pensiero critico, denunciando la corruzione e i soprusi di Yayha Jammeh, dittatore che ha insanguinato il Gambia dal ’94 fino al 2016.
«Gli altri insegnanti mi guardavano storto. “Ti metterai nei guai”, mi ripetevano». Ed è stato così. Arrivano le prime minacce e Alagie è costretto ad abbandonare la scuola. Torna al suo villaggio, che trova dilaniato dall’estrazione clandestina di diamanti e minerali destinati al presidente-dittatore.
Denuncia la sua scoperta con un’inchiesta su un giornale locale e poco dopo viene arrestato e portato in un campo di lavoro. «Più che prigionieri politici eravamo schiavi. E ci torturavano», racconta. Dopo due tentativi falliti riesce a scappare, «altrimenti sarei morto lì».
Prima raggiunge il Senegal, poi continua la fuga in Mali. L’odissea è solo all’inizio: attraversa il Burkina Faso e il Niger. Poi arriva in Libia, dove conosce di nuovo la schiavitù.
«Ma nella disgrazia sono stato fortunato. Uno dei trafficanti di esseri umani ha scoperto che ero musulmano e mi ha preso a casa sua per fare le pulizie», racconta.
Ma dopo alcuni mesi viene cacciato e consegnato a uno scafista. «Io non volevo andare in Italia, ero terrorizzato». Dalle spiagge di Tripoli parte nel viaggio da incubo che ancora oggi lo tormenta di notte.
A Torino ha ricominciato da zero grazie al visto umanitario, l’affetto della famiglia adottiva e il master allo Iuc.
«Ho girato tutta l’Europa, in nessun posto ho trovato lo stesso calore dei fratelli italiani», sorride. Ma il suo futuro è lontano da qui.
«Finito il dottorato tornerò in Gambia, voglio cambiare il mio Paese». Prima dalle cattedre universitarie.
«Vorrei modificare la mentalità della scuola. Gli atenei tradizionali sono destinati alle èlite che creano dittatori». In questi anni ha continuato a scrivere sui giornali del Gambia: «Spiego ai miei connazionali che l’Europa non è il paradiso. Voglio evitare che altri vivano le tragedie che ho vissuto io».
Ma la sua missione è sconfiggere la corruzione che crea povertà . «Dopo la scuola voglio entrare in politica. Per migliorare il Paese, non per fare soldi».
La politica, d’altronde, è nel suo Dna. Prima di essere arrestato si era candidato come parlamentare con il partito Gambia Moral Congress. Ma il presidente decise di cancellare le elezioni. «Il mio sogno? Diventare il presidente del Gambia».
«Ci siamo fatti promettere che ci ospiterà nel palazzo presidenziale», scherza il padre adottivo Enzo Bozza.
(da “La Stampa”)
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Gennaio 14th, 2018 Riccardo Fucile
“SONO FINITI ANCHE I SOLDI PER MANGIARE”… “APPENA HO DUEMILA EURO MI IMBARCO”
Non ci sono foto del martire di lunedì qui a Tebourba, 25 mila anime a nord-ovest di Tunisi dove molti non conoscono neppure il suo nome. Khomsi Yafrni aveva 45 anni, era disoccupato, è morto durante le proteste per il carovita.
Ma, nonostante il quinto giorno di scontri con oltre 600 persone arrestate e l’esercito in campo, non sembra candidato alla fama di Mohammed Bouazizi, l’icona della rivoluzione del 2011.
«Mercoledì il premier Chahed sarebbe venuto a trovarci se non fosse stato fermato dalla polizia all’ingresso della città per problemi di sicurezza, i ragazzi urlavano “degage” (vattene)» ci dice il fratello maggiore Nourredine, pochi denti, mani callose, gilet imbottito sulla felpa con gli orsetti.
La casa dei Yafrni è un misero cubo bianco a 500 metri dalla strada dove l’uomo è stato ucciso durante l’assalto al palazzo del governo locale. In terra vedi i vetri delle molotov, ogni giorno nuovi.
Sul marciapiede opposto al governo locale c’è un caffè senza insegne, resti di antiche maioliche alle pareti, tavoli sgangherati e una manciata di avventori, tutti sui vent’anni, tutti pronti a emigrare, tutti favorevoli alle proteste perchè il presente è una prigione da far saltare.
«Sono stato a Perugia 10 anni finchè la primavera scorsa mi hanno espulso perchè ero irregolare, ma appena rimetto insieme 2 mila euro m’imbarco da Kelibia, qui vicino, e ci riprovo» racconta Fauzi, 36 anni.
In attesa del sogno europeo, concorda la platea, abbasso la finanziaria e viva l’era Ben Ali, quando almeno «10 dinari significavano mangiare, mentre adesso bastano appena per le sigarette e un caffè».
Tebourba, che agli storici della II guerra mondiale evoca l’omonima battaglia tra le forze alleate e quelle dell’Asse, ha visto centinaia di suoi figli prendere la via del Mediterraneo. Anche Khomsi Yafrni era venuto in Italia per tornare più povero di prima tra i concittadini che campano di agricoltura, carote, olive, carciofi berberi.
«Il mio Wael va ogni mattina a Tunisi per qualche lavoretto da muratore ma i trasporti sono scarsi, deve prendere il pulmino che gli costa 5 dinari, un quarto della paga giornaliera» spiega mamma Aziza, velata come quasi tutte le donne.
Si aggira con una sola busta tra i banchi del suq, prezzi più alti di due anni fa ma non altissimi a parte il pesce, sardine comprese, che costa ormai il doppio.
Il contadino Mostafa le ripete che non ne ha colpa: «Sono aumentati i fertilizzanti, i macchinari, se lo Stato non investe qui industrializzando la raccolta dobbiamo fare da soli e questi sono i risultati».
I risultati sono l’apatia e la frustrazione dei più giovani, di cui oltre uno su tre è disoccupato, che da una settimana si concretizzano in rabbia sanculotta.
Se la politica fa il suo gioco a Tunisi qui resta sullo sfondo, non ci sono manifesti anti-governativi dell’opposizione nè la polemica tra la maggioranza e la sinistra del Fronte Popolare che pure ha votato il budget 2018 e nemmeno gli slogan contro i tagli dovuti al Fondo Monetario in cambio del prestito quadriennale di 2,9 miliardi di dollari: c’è una massa grigia che raccoglie il disagio nazionale, ma preme per andarsene dal Paese con buona pace della transizione democratica.
«I giovani non sono contenti della situazione e hanno il diritto di protestare contro la legge di bilancio ma in modo civile e senza bruciare auto o bancomat, questa volta diversamente dal 2011 la soluzione al legittimo malcontento popolare sarà politica ed economica» ci dice Wided Bouchamaoui, presidente degli imprenditori e pilastro del quartetto per il dialogo nazionale tunisino premiato nel 2015 con il Nobel per la pace. A Tebourba però, l’aria è grave come prima della pioggia.
«È la controrivoluzione» sentenzia il maestro Rashid davanti alla stazione risalente al 1878.
Discute con un gruppo di amici pendolari come lui, cappotti lisi, sui cinquanta, i padri delle piazze incandescenti. Yasser fa il guardiano in un garage, 300 euro al mese se va bene: «Succede sempre di sera, appena fa buio vanno in strada a tirare sassi, molti sono ragazzini di 14 anni, non sanno neppure che sotto Ben Ali si veniva torturati per molto meno».
Il gruppo non fa mistero di simpatizzare per Ennahda, i Fratelli musulmani tunisini che governano in coalizione con i liberali di Nidaa Tounes.
Ironia della sorte vuole che alcuni di loro siano tornati dopo il 2011 a Tebourba, antica roccaforte islamista tanto da essere abbandonata da Bourghiba al suo destino di sottosviluppo rurale, mentre i diciottenni bramino la fuga proprio ora.
«Degage, degage»: il coro si leva dalla piccola piazza dei martiri, tra la chiesa e l’incrocio per Tunisi sovrastato da una gigantografia che non appartiene a Bouazizi nè tantomeno a Yafrni, ma all’oriundo militare Akrounben Salah ucciso in un attacco terrorista nel 2015. È il momento: un uomo adulto s’inginocchia mimando con una bottiglia il gesto di darsi fuoco, una quindicina di ragazzi inveiscono, un secondo cerchio di spettatori segue la scena. In tutto saranno meno di 60 persone ma altrettanti poliziotti sono appostati nei blindati.
È un dèjà -vu, ragiona un impiegato nel bar La Cabana: «A un certo punto i manifestanti si allontano da queste strade grandi alla francese e vanno verso la medina araba, dove in caso di scontri è più facile scappare tra i vicoli labirintici».
Tunisi sembra assai più lontana dei 40 chilometri reali costeggiati da venditori di finocchi, banchi di scarpe, ulivi soffocati dalla spazzatura.
È qui in provincia e nelle banlieues che, come nota il ricercatore Hamza Meddeb, l’assenza della classe media dalle piazze si nota davvero.
Anche per questo il nome Khomsi Yafrni sembra sospeso, vittima del presente, morto al buio com’era vissuto.
(da “La Stampa”)
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