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TROPPI FINTI CRISTIANI IN CIRCOLAZIONE, MEGLIO TORNARE A PARLARE DI MISERICORDIA CHE ACCOMUNA TUTTI

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

PARI DIGNITA’, NESSUN PARAMETRO UNICO DI GIUDIZIO, EQUILIBRIO… IL MONDO VA AVANTI E NON HA BISOGNO DI SANTONI ESTREMISTI DEL PENSIERO UNICO

Con la “rincorsa verso il centro”, sta sempre più ritornando di moda parlare di cristianesimo, di cristianità  e della cultura che dovrebbe attingere, che dovrebbe ispirarsi al Vangelo per riscrivere pagine di “amore” e di “misericordia”.
Si, ma di quale amore stiamo parlando? A quale misericordia si allude?
A quella che giubila per gli spot dei porti chiusi o dell’invito a sparare ai barconi degli immigrati che cercano rifugio e speranza in Europa?
A quella della triade “Signore, Patria e Famiglia per negare pari dignità  a tutto ciò che ne rappresenta cultura, visione e bisogno, anzi, bisogni alternativi?
Se proprio il riferimento fosse necessario, io parlerei di “misericordia” in senso ampio e nobile. Di accettazione e di doveroso riconoscimento della pari dignità  per tutto ciò che possa essere considerato – che sia, anzi – espressione dell’uomo, dei suoi bisogni e delle sue necessità .
Non si possono costringere le persone a vivere secondo uno schema fisso e predeterminato additando come il male assoluto tutto ciò che vi si allontani
Non si possono piegare le vite delle persone, le loro sofferenze, il loro dolore (come avviene per i malati terminali, per esempio) e le loro stesse speranze, ad un unico modello e paramento di “giudizio”.
Anzi, che a giudicare siano i preti ed i giudici: l’uomo sia incarnazione e latore di valutazioni serene, armoniose, laiche e di rispettosa libertà !
Se la virtù riposa nel giusto mezzo tra due estremi, e allora essa riposerà  anche, e soprattutto, nella rivoluzionaria sfida sottesa al raggiungimento del migliore equilibrio possibile tra tutto ciò che è politicamente, sia “corretto” che “scorretto”.
Le parole sono espressione dei concetti e delle idee.
Le parole sono lo strumento per trasmettere sogni e speranze.
Il mondo va avanti: costringerlo nei meandri di una lettura monocorde sarebbe, è, e sarà  sempre, il peggiore degli errori…

Salvatore Totò Castello
Right BLU – La Destra liberale

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IL CARCERE PER GRANDI EVASORI E’ UN BLUFF: “MISURA COERENTE SOLO IN UN SISTEMA CON EFFETTIVITA’ DELLA PENA, COME QUELLO USA”

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

IL MAGISTRATO CSM ARDITA: “IN CARCERE NON CI ANDREBBE NESSUNO”… “IN ITALIA GLI EVASORI SONO MILIONI”…”LE PENE DETENTIVE SAREBBERO TEORICHE, PIU’ EFFICACE LA CONFISCA DEI BENI”

Il carcere per i grandi evasori? “Potrebbe essere una misura ‘coerente’ solo in un sistema con effettività  della pena, come quello statunitense”. E quindi “non nel nostro paese” dove “chi lede beni personali rilevanti spesso rimane in libertà  e dunque un criterio di proporzionalità  deve essere mantenuto nel rispetto dei valori della Carta costituzionale”.
Parola di Sebastiano Ardita, già  procuratore aggiunto di Messina e attualmente consigliere togato del Csm.
Il magistrato ha spiegato all’Adnkronos il suo punto di vista sul provvedimento attualmente in discussione sul tavolo del governo che prevede il carcere per chi evade più di 100mila euro. “Se l’obiettivo reale è il contrasto all’evasione fiscale, la prospettiva del carcere, calata nel sistema penale italiano, non credo possa essere una soluzione”, dice Ardita.
Il motivo? “Il numero di evasori fiscali nel nostro paese si conta in milioni — dice il magistrato — ed anche se solo una frazione raggiungesse la soglia di punibilità , sarebbe impensabile che per essi possano aprirsi mai le porte di un penitenziario. L’unico effetto certo è la paralisi del sistema penale che verrebbe ingolfato da un fiume di processi che produrrebbero pene detentive teoriche: cioè sanzioni che rimangono sospese o devono essere convertite in misure alternative”.
Questo perchè come è noto — lo ha stabilito la Consulta in una recente setenza — il limite della pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione è stato fissato in quattro anni.
Cosa vuol dire? Che chi ha una condanna inferiore non va in carcere.
L’eventuale grande evasore, dunque, deve essere condannato a una pena più severa. La Costituzione, però, pone il principio della proporzionalità  della condanna.
Se il reato di rapina è punito con una pena che va dai quattro a dieci anni, un evasore dunqne deve essere condannato a una pena inferiore.
Per questo motivo, secondo Ardita è molto difficile che un evasore finisca detenuto. Per questo motivo, continua il consigliere del Csm, “la misura più adatta in questi casi ed anche la più proficua per l’erario potrebbe essere la confisca, prevedendo magari un procedimento agile ed accelerato, che renda veloce l’apprensione delle somme sottratte al fisco”.
Il problema è dunque la cosiddetta certezza della pena visto che tutte le condanne sotto i 4 anni non vengono scontate in carcere.
Quale è quindi la soluzione alla grande evasione? Per Ardita “in Italia si potrebbe considerare il carcere unicamente come rimedio per la grande criminalità  finanziaria, specie quando quest’ultima si innesti nell’alveo della criminalità  organizzata, ossia in un quadro nel quale il reato fiscale fa parte di un programma criminoso che prevede ruoli e partecipazioni per compiere una serie indeterminata di delitti per disarticolare una organizzazione, allora potrebbe avere un senso ricorrere alla misura detentiva. Ma mi riferisco a casi che non si rispecchiano nel fenomeno individuale e generalizzato al cui contrasto sembra ispirarsi la riforma”.
Per Luigi Di Maio, però, “il carcere per i grandi evasori è imprescindibile”. Un affermazione che secondo Ardita è ” solo un proposito”. “Penso che con la sensibilità  che è presente nel nostro paese e col sistema di misure alternative, più sarà  alto il numero dei processi e delle condanne più bassa sarà  la percentuale di condannati che varcheranno la soglia di un carcere”.
Commentando poi le parole del leader della Lega Matteo Salvini, secondo cui ”pensare alle manette per alcune decine di migliaia di euro è da fuori di testa. Sì al carcere ma non per i disperati”, il magistrato dice: “Penso che gli evasori sopra una soglia di reddito rilevante non sono sicuramente dei disperati”.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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INTERVISTA AL FILOSOFO MAFFETTONE: “IL M5S GOVERNANDO E’ DIVENTATO ELITE, SALVINI E’ UNA MINACCIA PER LA DEMOCRAZIA”

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

“NESSUNO HA UNA RICETTA FACILE SUI MIGRANTI MA BLOCCARE LE NAVI NON RISOLVE CERTO IL PROBLEMA”

Il dilemma si è rivelato: “A furia di governare, il Movimento 5 stelle è diventato èlite. I suoi ministri, sottosegretari, presidenti di commissione vanno in giro con le auto blu, salgono sugli aerei di stato, non si muovono più senza avere dietro la scorta. È la contraddizione interna di ogni movimento anti establishment. Nel momento in cui ha successo, subisce una metamorfosi e assume le sembianze del nemico che, fino a poco prima, ha combattuto”.
La legge ferrea dell’oligarchia, secondo Sebastiano Maffettone — filosofo della politica che ha insegnato, tra le altre università , ad Harvard, Science Po, Columbia e oggi è ordinario alla Luiss — è impossibile da abrogare: “Quando hai il compito di fare la manovra economica, il populismo non ti serve a niente: ti serve la competenza, cioè gente che sappia come si imposta il bilancio dello stato. Puoi aver sbraitato tutti i vaffa di questo mondo, avrai comunque bisogno del genere di persone che hai mandato al diavolo fino a poco tempo prima”.
Per scrivere il suo ultimo libro, Politica (Mondadori Education-Le Monnier), ci ha messo quasi vent’anni: “C’è dentro tutto il sapere che ho accumulato nella mia vita dedicata alla filosofia politica”.
Ci sono i grandi autori: Marx, Sen, Foucault, Habermas, Rawls. Ci sono i grandi temi: la Liberal-Democrazia, il femminismo, la giustizia globale.
C’è il presente: “Joseph Stiglitz ha detto che la crisi economica del 2007 è stata per la democrazia liberale ciò che la caduta del Muro di Berlino è stata per il comunismo. Esagerava, certo: ma ha colto una verità . La rabbia anti sistema del populismo nasce dalla mancanza di risposte adeguate ai danni provocati dalla globalizzazione. La quale ha sì ridotto le distanze tra i paesi ricchi e i paesi poveri, ma ha distribuito i suoi vantaggi e svantaggi in maniera fortemente diseguale nei singoli paesi. La globalizzazione ha salvato alcuni, e ha sommerso altri. La rivolta populista nasce da qui, dal rancore di tutti coloro che si sono sentiti puniti dal sistema”.
Perchè, se l’origine della crisi è economica, la protesta si è concentrata sulla politica?
Perchè non c’è troppa differenza tra la struttura capitalistica e il regime politico liberal-democratico: il sistema è economico e politico insieme.
Ma, tranne Occupy Wall Street, tutti i movimenti populisti hanno puntato la politica, non l’economia
Era la politica che doveva dare una risposta agli squilibri provocati dalla globalizzazione. Il ragionamento, anzi l’istinto della gente è stato: “Noi vi abbiamo affidato il nostro destino. Voi ci avete portato a sbattere. Ora, ve la facciamo pagare”.
Che intende per gente, scusi?
Intendo chi è stato danneggiato dalla globalizzazione. Il grafico dell’elefante di Milanovic spiega perfettamente di chi si tratta: è la classe media occidentale (mentre quella cinese, per esempio, è stata rafforzata). Un problema enorme, non solo economico. Perchè sfasciare la classe media non significa soltanto creare un disagio sociale in grandi fette della società  occidentale, significa anche indebolire la democrazia, che sulla classe media si regge.
Ma la risposta populista favorisce o danneggia la democrazia?
Entrambe le cose. Da una parte, èun bene per la democrazia riuscire ad accostare alla sfera del governo delle persone che prima ne erano escluse. Dall’altra parte, però, il populismo impone un prezzo da pagare: è l’ascesa degli incompetenti al potere
Pensa ai 5 stelle?
Penso sia ai populisti, sia ai sovranisti: anche perchè sono convinto che le loro strade siano destinate a incrociarsi.
Perchè dovrebbero?
Perchè il problema principale dei populisti è non riuscire a definire che cos’è il popolo. Nella loro retorica, il popolo è un’entità  indifferenziata, che include tutto e tutti: è per questo che il loro peggior nemico è il pluralismo.
I sovranisti, invece?
I sovranisti offrono il criterio di distinzione che manca ai populisti. Selezionano chi fa parte del popolo individuando le persone da escludere. Per esempio, chi è straniero, chi pratica un’altra religione o addirittura chi è a favore dell’Europa — secondo loro — può non appartenere al popolo
Perchè questo dovrebbe avvicinarli ai populisti?
Perchè un criterio di selezione del popolo è indispensabile, e i sovranisti sono in grado di offrirne uno anche ai populisti. Per questo, credo che siano destinati a convergere in maniera strutturale.
Concretamente, significa che il futuro dei 5 stelle è con la Lega?
Non è detto, perchè io parlo di idee. Le persone e i fatti della politica sono diversi dalle idee.
In effetti, i 5 stelle si sono avvicinati alla sinistra, al momento.
E questo ha ricompattato il centrodestra, favorendo al suo interno la destra più destra. Tanto è vero che assistiamo anche a una chiamata alle armi dei vecchi fascisti.
È questo il senso della manifestazione di ieri a San Giovanni?
Hanno ragione coloro che ci invitano a non usare il termine fascista, che storicamente ha un significato preciso. Però è innegabile che si sono risvegliati certi impulsi identitari, un rifiuto dello straniero e del diverso tipici della destra radicale. Per non parlare della partecipazione alla manifestazione di CasaPound.
Ma l’immigrazione non è un problema reale?
A
ccidenti se lo è. Io sono nato nel 1948, quando la popolazione europea era il 25 per cento della popolazione mondiale e quella africana meno del 10. Secondo le stime, fra cento anni noi europei saremo solo il 5 per cento, mentre gli africani saranno il 25 per cento. È una dinamica inarrestabile. È il problema dei problemi. La destra non ha torto nel porlo. Ha torto nell’affrontarlo in maniera becera e scomposta.
Come si dovrebbe affrontare?
Nessuno ha una ricetta facile. C’è, però, un fatto: bloccare le navi di quei poveretti a largo di Lampedusa non risolve il problema.
Però Salvini ha moltiplicato i consensi, facendolo.
Infatti, non nego che elettoralmente funzioni. Nego che serva ad arrestare il fenomeno.
E il governo giallorosso, invece, può servire ad arrestare il fenomeno Salvini?
Già  spingere la Lega all’opposizione mi sembra un risultato positivo, poichè Salvini ha rappresentato una minaccia reale per la democrazia italiana.
Ma farlo senza passare dalle urne non rischia paradossalmente di rafforzarlo?
Questo dipenderà  da cosa riusciranno a fare governando. Se faranno bene, potrebbero svuotarlo. Se faranno male, tanti auguri all’Italia.

(da “Huffingtonpost”)

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INTERVISTA AL PATRIOTA EUROPEO MIGUEL DUARTE, IL VOLONTARIO PORTOGHESE DELLA NAVE IUVENTA CHE IN ITALIA RISCHIA IL CARCERE: “ABBIAMO SALVATO 14.000 PERSONE, RIFAREI TUTTO”

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

DOTTORATO DI RICERCA A LISBONA, IL GIOVANE PORTOGHESE E’ ACCUSATO DI FAVOREGGIAMENTO DELL’IMMIGRAZIONE CLANDESTINA PER AVER PARTECIPATO A QUATTRO MISSIONI DI SALVATAGGIO A BORDO DELLA NAVE DELLA ONG, UNA VERGOGNA PER IL MONDO CIVILE

Miguel Duarte è un giovane portoghese che vive a Lisbona, dove frequenta un dottorato di ricerca in Matematica. In Italia rischia di essere condannato a 20 anni di carcere per favoreggiamento di immigrazione clandestina, a causa delle quattro missioni di salvataggio che ha condotto nel Mediterraneo, come volontario, a bordo della nave Iuventa.
L’imbarcazione si trova sotto sequestro dal 2 agosto 2017 per ordine del gip di Trapani, dopo che la procura siciliana ha aperto un’indagine sull’operato della Ong tedesca Jugend Rettet.
Oltre a Miguel Duarte, altri nove membri dell’equipaggio della Iuventa sono indagati e rischiano di finire a processo.
TPI ha contattato telefonicamente il volontario portoghese per sapere come è cambiata la sua vita da quando si è aperta l’inchiesta sulla Iuventa.
Miguel, come ti sei avvicinato alla Jugend Rettet?
Ho finito di studiare per la magistrale nel 2016. In quel periodo leggevo le notizie sulle persone che giungevano ai confini europei dalla Siria e da altri paesi. Come tanta altra gente avevo l’impressione che la risposta fornita dall’Europa non fosse sufficiente e anche un po’ ridicola. Ho fatto delle ricerche, per capire dove potessi essere utile. Ho scoperto la Jugend Rettet attraverso un’amica tedesca. Li ho chiamati e ho chiesto se avessero bisogno di aiuto. Mi hanno detto che stavano cercando persone per l’equipaggio e mi hanno invitato. Così mi sono imbarcato.
Perchè questa decisione?
Per me la cosa più triste della situazione delle Ong è che noi non eravamo professionisti. Non sono un marinaio, non sono un infermiere, al momento sto facendo un dottorato in matematica. Quindi la mia attività  non c’entra nulla col lavoro umanitario.
Certo, a bordo avevamo capitani, medici, ingegneri, ma la maggior parte dell’equipaggio non era composta da professionisti. Tanti — come me — non si erano mai imbarcati su una nave.
Sicuramente, molte persone che si occupano di salvataggi in mare avrebbero fatto un lavoro migliore, perchè noi abbiamo dovuto imparare. Ma questa gente non era lì. Gli Stati non c’erano, le risorse, i soldi, le navi da salvataggio, gli equipaggi dei professionisti non erano lì. Abbiamo dovuto prendere in mano questo problema, fare qualcosa anche se non era proprio quello che sapevamo fare.
Per senso del dovere?
Certamente, è dovere di tutti noi fare qualcosa. Noi in un anno abbiamo salvato 14mila persone, però tanti altri sono morti perchè non avevamo le risorse o un equipaggio sufficientemente grande. Quindi non ci siamo mai visti come una soluzione a lungo termine per questo problema, ma soltanto come una risposta di emergenza.
Hai mai avuto la sensazione che la vostra presenza in mare incoraggiasse in qualche modo più persone a partire, come sostengono gli autori della guerra alla Ong?
È assurdo pensare che se non ci fossero le Ong la gente non partirebbe: abbiamo visto esattamente il contrario in tutti questi anni. Nel 2013, quando non c’erano le Ong, ci sono stati i naufragi di cui sappiamo. L’anno successivo sono morte tantissime persone. Così a un certo punto MSF ha deciso di prendere una nave e andare a fare salvataggi in mare. Le Ong sono andate nel Mediterraneo proprio perchè la gente partiva comunque.
Ci sono stati sviluppi recenti nella vostra vicenda giudiziaria?
No, in realtà  non è cambiato molto. La nave è stata sequestrata ad agosto 2017. A giugno 2018 dieci di noi hanno ricevuto le notifiche dalla procura di Trapani, che ci comunicavano che eravamo ufficialmente sotto indagine con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Hanno sequestrato molto materiale che era sulla nave, computer e cose del genere, su cui stanno facendo degli accertamenti. Non sappiamo ancora se andremo in tribunale oppure no.
Sei preoccupato su questo?
Non sono preoccupato per la mia libertà  personale. In un anno abbiamo salvato 14mila persone. Poi ci hanno fermati per due anni. Questo fa capire la misura di quanto è successo: nel Mediterraneo c’era bisogno di più navi, non di meno navi. C’è tantissima gente che è morta proprio perchè non eravamo lì. È questo che mi preoccupa.
Abbiamo imparato a fare i salvataggi, lo facevamo abbastanza bene anche se non eravamo professionisti. Ma ora dobbiamo stare a casa, a fare iniziative di crowdfunding per raccogliere soldi per le spese legali. Questo richiede impegno e risorse che in realtà  potevamo utilizzare per salvare la gente, che è più importante.
I naufragi intanto continuano, l’ultimo a destare reazioni è stato quello del 7 ottobre al largo di Lampedusa.
Le Ong non svolgevano soltanto attività  di soccorso in mare, ma anche di monitoraggio. Raccontavano al pubblico europeo cosa stesse succedendo lì, incluso l’operato della cosidetta guardia costiera libica, pagata dal governo italiano. Ora è molto più difficile, perchè non ci sono così tante navi come nel 2016 o nel 2017. Quindi non sappiamo esattamente qual è il numero di persone che non riescono ad arrivare e quante vengono respinte.
Nel 2017, quando è scoppiato il caso Iuventa, non c’era ancora Salvini al governo. Secondo te si può parlare di una motivazione politica?
Sì, secondo me è un caso del tutto politico, non ha nulla di giuridico. Per questo richiede una risposta politica e dobbiamo impegnarci a parlare con la gente, a far conoscere il caso Iuventa. Il caso Iuventa ci spiega abbastanza bene a che punto è arrivata la politica italiana sulla questione migratoria. Tutta la campagna elettorale di Salvini e della Lega, ma anche di altri partiti, è stata condotta attraverso una guerra informativa contro le Ong. Secondo me la Iuventa è una delle tante vittime di questo processo.
Una delle talpe che passò le informazioni alla Lega, Pietro Gallo, ha detto di essere pentito e sostiene che il partito lo ha abbandonato. Vuoi dirgli qualcosa?
Credo che lui abbia già  capito cosa ha fatto, non ho nulla da dirgli. Credo si senta — e si debba sentire — responsabile per ciò che è successo e continua a succedere ai confini europei. Tantissima gente muore e rischia la vita proprio perchè persone come lui hanno compiuto determinate azioni.
Nei vostri confronti c’è stata anche tanta solidarietà , con campagne e raccolte fondi. Te l’aspettavi?
No. È stato bellissimo. Quando abbiamo cercato di far conoscere il nostro caso abbiamo assistito a una mobilitazione gigantesca in Portogallo, Spagna e Germania. Adesso abbiamo una rete di supporto enorme, a livello istituzionale, di attenzione mediatica, ma soprattutto a livello popolare. Questo mi dà  speranza.
C’è stato anche un momento in cui il tuo è diventato un caso internazionale, quando Costa ne parlò con Conte.
Sì, è successo dopo una raccolta fondi qui in Portogallo, che è diventata virale sui social media. A un certo punto i media mainstream hanno cominciato a fare domande al governo portoghese e per due o tre settimane se n’è parlato tantissimo. Alla fine Costa ha fatto questa domanda a Conte, che ha risposto parlando dell’indipendenza della magistratura. Però secondo me è importante arrivare al punto in cui i governi parlano di queste cose, perchè sono molto importanti, ben più importanti della nostra libertà  personale. Se noi andassimo in galera per qualche ragione, si creerebbe un precedente gravissimo per l’Europa.
Cosa ti rimane oggi dell’esperienza della Iuventa?
Ho fatto 4 missioni con la Iuventa e davanti a me sono passate moltissime persone, uomini, donne e bambini. Mi ricordo i volti di tantissima gente, l’emozione che si vedeva nei loro volti. All’inizio era paura, perchè tanti di loro non avevano mai neanche visto il mare prima. Poi quando arrivavano sulla Iuventa potevano rilassarsi un po’.
Moltissimi poco dopo essersi seduti si addormentavano di colpo, nonostante tutto il caos intorno a loro: si sentivano al sicuro per la prima volta dopo tantissimo tempo. Per me è un privilegio essere tra le persone che potevano dare loro questa opportunità . Anche se poi, una volta arrivate in Italia, spesso queste persone si trovano davanti altri problemi di tipo legale.
Hai mantenuto i rapporti con alcune di queste persone?
Sì, ogni tanto avevamo qualche ora per parlare con la gente, quindi sono rimasto in contatto con alcuni di loro, che sono tutti in Italia e hanno una vita difficile.
Rifaresti questa esperienza?
È la cosa più importante che abbia fatto nella mia vita.
E se invece tornassimo nel 2016 e tu fossi a conoscenza dei rischi legali, lo rifaresti lo stesso?
Certo, sì. L’indagine della procura di Trapani ha cambiato tantissimo nella nostra vita. Ma non cambia i nostri principi, i valori che ci hanno portati a stare lì. Se succedono queste cose è un motivo in più per fare azioni di solidarietà .

(da TPI)

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“JOCKER” STA DIVENTANDO REALTA’: IL CAPITALISMO E’ UNA FABBRICA DI POVERI E IL MONDO HA INIZIATO A RIBELLARSI

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

LE PERIFERIE DEL MONDO INCENDIATE DALLA RABBIA

Le periferie del mondo come le strade della Gotham di Joker, incendiate dalla rabbia. Sta accadendo in Cile, proprio in queste ore. Ma è successo anche in Ecuador, la settimana scorsa, e anche in un luogo che sembrava molto lontano da queste latitudini, il Libano, ieri.
Domani potrebbe succedere ovunque nei luoghi dove i margini degli esclusi si sollevano, deflagrano e si ribellano. Salta il tappo del consenso rappresentativo, scoppiano rivolte contro il carovita che avvampano oltre i confini fisiologici della protesta contenibile con i parametri ordinari della pubblica sicurezza.
Queste rivolte crescono, tracimano come alluvioni, si risolvono in scontri con morti e feriti. Il Cile di questi giorni era lo specchio fedele di questo scenario: incendi, guerriglia di piazza, stato d’emergenza, coprifuoco.
Solo ieri il bollettino di guerra ha emanato un verdetto inquietante: dieci vittime a terra negli scontri di strada. Così, se vai a cercare il bandolo della matassa, per riavvolgere il filo fino al punto di partenza scopri che si parte sempre dallo stesso scenario.
La disuguaglianza, la povertà , l’insostenibilità  politica e sociale della situazione economica — la corruzione — improvvisamente si fanno inaccettabili per una categoria sociale che (non) casualmente coincide con quella dei più poveri.
In Cile una protesta endemica aveva già  iniziato ad avvampare per i costi esagerati dei farmaci e delle assicurazioni sanitarie, per l’aumento delle bollette della luce e per l’insostenibilità  di un sistema educativo che costringe migliaia di famiglie a indebitarsi pur di far studiare i propri figli.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico a Santiago, che ha colpito soprattutto gli studenti e ha scatenato le proteste di questo fine settimana.
Ma lo scenario di fondo in cui tutti accade è ben illustrato dai macro dati della Banca Mondiale, secondo cui — insieme a Honduras, Colombia, Brasile, Guatemala, e Panama — il Cile è tra i cinque Paesi più diseguali al mondo dopo quelli africani.
Tuttavia nulla ci deve stupire, se è vero che persino nella civilissima e ricca Francia la rivolta dei Jilet Jaunes — l’anno scorso — era deflagrata per una imposta sui carburanti che colpiva il cuore della grande provincia e la faceva esplodere di rabbia contro la ricca capitale.
In Ecuador è accaduto qualcosa di molto simile. Per arginare le proteste sociali esplose su tutto il territorio nazionale a seguito del piano di austerità  varato dal governo, la Corte Costituzionale del paese sudamericano ha convalidato lo stato di emergenza disposto a inizio mese dal presidente Lenin Moreno, limitandosi a dimezzarne l’applicazione temporale, fissata inizialmente a 60 giorni.
Il governo è stato spostato di sede, dalla capitale Quito a Guayaquil, per una misura precauzionale estrema. E nel paese la rivolta è esplosa contro il cosiddetto “paquetazo”, il pacchetto di misure anti-sociali sollecitato dal Fondo monetario internazionale che prevede, tra l’altro, l’eliminazione dei sussidi statali ai combustibili e la liberalizzazione del prezzo della benzina e del diesel. Ma anche contro la corruzione diffusa.
Anche in Ecuador c’è una categoria sociale che è diventata il motore della protesta ed è la Conaie, la potente Confederazione delle nazionalità  indigene dell’Ecuador. Migliaia di indigeni e contadini provenienti da zone rurali di tutta la Sierra Andina, a piedi, in bus e camion, iniziavano a marciare sul palazzo presidenziale a Quito, annunciando di voler occupare simbolicamente l’assemblea nazionale.
Ed è a questo punto che la repressione attuata da forze di polizia e militari è diventata un pugno di ferro: cariche fino a tarda sera, bombe lacrimogene sparate anche nei pressi dell’ospedale che prestava soccorso ai feriti, o contro la Casa della Cultura, dove si erano rifugiati gruppi di indigeni, anziani, donne e bambini accorsi nella capitale per le proteste.
Gia prima del “paquetazo” la popolarità  di Lelio Moreno era crollata per aver riportato il paese nell’orbita americana sottoscrivendo poi (a marzo) un patto con l’Fmi, con un prestito triennale di 4,2 miliardi di dollari, che poteva essere ottenuto solo a patto di attuare delle politiche di austerità  e di rigore. Anche in Ecuador, solo nel giorno più incandescente della rivolta, restavano a terra tre morti e 600 feriti.
In Libano, invece, proprio come in Cile, sono stati protagonisti i più giovani. L’hanno chiamata immaginificamente “la rivolta di Whatsapp”, perchè migliaia di persone infuriate si sono riversate in strada per chiedere la caduta del regime, dopo l’annuncio di una tassa che avrebbe dovuto colpire addirittura un social network. La prima rivolta sociale e digitale insieme.
Ma era ancora una misura contro i più poveri, contro chi comunica, contro i migranti in un paese di profughi. Per ridurre il debito del paese infatti (uno dei più alti al mondo) erano state introdotte varie misure drastiche e impopolari tra cui quella di una tassa di 20 centesimi al giorno per le chiamate via internet realizzate per risparmiare i canoni della telefonia attraverso app come, appunto, WhatsApp e Facetime.
A nulla è servita la precipitosa e maldestra revoca del provvedimento: una folla di persone si è radunata vicino alla sede del governo e al palazzo del parlamento nel centro di Beirut, protetta da plotoni di poliziotti in tenuta anti sommossa.
I manifestanti hanno lanciato slogan estremi e sintetici: “Rivoluzione!” e “Ladri!”. E anche qui la protesta contro la diffusa corruzione del paese si sposa alla protesta sociale. Ovunque sono rivolte di popolo, spesso con un innesco di rabbia disperata, che si rivolgono contro èlites (o presunte tali) screditate ed eterodirette.
È la rabbia populista che si sostituisce al vuoto di potere, alla decadenza, al discredito delle istituzioni che — non a caso — da un paese all’altro, da un continente all’altro, diventano un bersaglio della protesta, con i luoghi della rappresentanza che si trasformano in scenario di assedio e di guerra.
Sembra la visione profetica del Joker di Todd Philips, giustamente acclamato nell’ultimo festival al di Venezia. Film profetico ed epocale. Nella magistrale interpretazione di Joaquim Phoenix l’Occidente e l’America sono raffigurati in uno spettrale scenario di decadenza: rifiuti, taglio dei servizi sociali essenziali, onnipresenza ossessiva della televisione, disperazione diffusa, povertà .
La New York livida, povera e violenta degli anni Settanta, diventa la profezia distopica di tante metropoli assediate dei nostri giorni. La ribellione che nel film esplode è innescata dal delitto e dal disagio di un singolo (uno strepitoso Phoenix, sempre in bilico tra riso e pianto), ma affonda nelle stesse radici, si alimenta degli stessi sentimenti.
Forse — tra il “Paquetazo” e “WhatsApp” — questo film dovrebbe aprirci gli occhi su queste rivolte che hanno radici antichissime nella tradizione dei moti di plebe, e un tocco postmoderno, che crepa la facciata ottimistica della modernità . Ci eravamo illusi di aver debellato la povertà : le abbiamo solo cambiato nome, ribattezzandola “disagio”.

(da TPI)

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“IN ITALIA LE IMPRESE INVESTONO PIU’ IN TANGENTI CHE NELL’INNOVAZIONE”: LA DENUNCIA DEL PROCURATORE DI MILANO GRECO

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

“SIAMO PIENI DI PROCEDIMENTI PER CORRUZIONE INTERNAZIONALE”

“A Milano siamo pieni di procedimenti per corruzione internazionale e vediamo gli effetti negativi, sia nei confronti degli Stati vittime sia nei confronti delle nostre imprese che invece di investire in innovazione, investono in tangenti”: un giudizio netto quello del procuratore capo di Milano Francesco Greco, durante la presentazione del bilancio di responsabilità  sociale 2018 degli uffici giudiziari milanesi.
Nella sua relazione Greco ha parlato anche del ‘codice rosso’, la legge sulle violenze contro donne e minori: “E’ troppo presto per dare un giudizio sulla legge, ma sono convinto che sia stata un’ottima cosa approvarla: ha portato qualche problema organizzativo perchè la sperimentazione è partita ad agosto. Ci stiamo comunque assestando e il prossimo anno faremo un tagliando”.

(da agenzie)

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REDDITO CITTADINANZA, VIA ALLA FASE DUE, MA IL 30% DEI BENEFICIARI NON SI PRESENTA AI COLLOQUI

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

AI COLLOQUI PRESSO I CENTRI PER L’IMPIEGO UNO SU TRE E’ GIA’ SPARITO… E NON SI CAPISCE DOVE SIA IL LAVORO DA PROPORRE AI PERCETTORI DEL REDDITO

Reddito di cittadinanza, via alla fase due. Ma i primi dati, quelli del Lazio, non sono confortanti sulla capacità  della misura di introdurre i beneficiari nel mondo del lavoro. Il 30 per cento dei percettori di reddito di cittadinanza, infatti, non si presenta ai colloqui organizzati dai centri per l’impiego.
Sono 8.172 i colloqui fatti dai centri per l’impiego del Lazio ai beneficiari del Reddito di cittadinanza a fronte di 11.560 titolari del reddito convocati.
I dati, aggiornati al 16 ottobre, sono della Regione Lazio. In questo 30 per cento di persone che non si è presentato al colloquio
A fine settembre la percentuale di coloro che era assente giustificato era circa la metà  dei convocati che non arrivavano al colloquio.
Oggi gli assessori al lavoro delle Regioni avranno un incontro sulla fase due del Reddito con la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo.
patti di servizio sottoscritti dai centri per l’impiego del Lazio sono 5.236. Entro metà  dicembre dovrebbero essere fatti colloqui a 28.000 beneficiari di reddito nella Regione.
Dai dati più recenti nel Lazio sono state accolte 85.003 domande di Reddito (tra le quali 73.163 di Rdc e 11.840 di Pensione di cittadinanza) ma bisogna considerare che ci sono molte persone che sono fuori dal percorso di inserimento lavorativo come le donne in gravidanza, quelle che hanno figli di età  inferiore a tre anni, quelle che hanno persone non autosufficienti da accudire, chi frequenta corsi di formazione, chi lavora ma ha un reddito sotto la soglia che consente di ottenere il sussidio, ecc.
“Stiamo procedendo speditamente — dice l’assessore al Lavoro del Lazio , Claudio Di Berardino — con la convocazione dei beneficiari e con la firma dei patti per il lavoro. La fase più importante è la successiva, quella in cui si dovrà  realizzare l’inserimento occupazionale. Il vero obiettivo da raggiungere deve essere il lavoro e non l’assistenza al reddito. Solo così si possono liberare i beneficiari dalla situazione di bisogno in cui si trovano”.
Ammesso che esista un lavoro.

(da agenzie)

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MILENA GABANELLI SU LUCA MORISI: “LA SUA E’ UNA SNC CHE NON HA L’OBBLIGO DI RENDERE PUBBLICI I BILANCI”

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

QUANDO SALVINI ERA MINISTRO, MORISI ERA PURE STIPENDIATO DAL VIMINALE

Nel corso della sua periodica rubrica sul Corriere della Sera, Milena Gabanelli ha parlato in maniera approfondita del sistema della cosiddetta Bestia, la comunicazione via social di Matteo Salvini.
La giornalista ha illustrato il meccanismo di funzionamento delle pagine Facebook e Instagram del leader della Lega, entrando nel dettaglio a partire da alcune informazioni che Luca Morisi, esperto di comunicazione di Salvini, ha diffuso a Torino, nel corso di una lezione a 50 aspiranti spin doctor.
In effetti, alcuni elementi — altri, invece, erano già  noti — sono di grande aiuto nel comprendere il meccanismo di diffusione dei post di Matteo Salvini.
Se conoscevamo già  — lo abbiamo compreso attraverso l’esperienza — la tipologia dei contenuti pubblicati sui social network (basati sull’asse Televisione-Rete-Territorio) e l’eventizzazione delle comparsate televisive del leader della Lega, grazie a queste ulteriori informazioni scopriamo che lo stesso Morisi ha una rete di 800-1000 fedelissimi che, attraverso WhatsApp, vengono sistematicamente contattati per iniziare a rendere virali i messaggi del Capitano.
Quando viene prodotto un nuovo contenuto, infatti, Morisi lo invia a questa sua rete personale che, a sua volta, fa da prima cassa di risonanza al messaggio, pubblicando lo stesso contenuto sui propri account e su pagine e gruppi Facebook che hanno ampio rilievo a livello di algoritmo. L’importante è far crescere i like (e così deve essere letta l’iniziativa Vinci Salvini che avviene ormai per tradizione a ogni elezione nazionale) e seguire le tendenze.
Ma anche i sondaggi sono importanti: una volta appurato, ad esempio, che il 67% degli elettori della Lega non riteneva i Naziskin una vera e propria minaccia, è stato più semplice aprire a linguaggi e contenuti tipici dell’estrema destra.
La snc di Luca Morisi
Ma la cosa più importante è capire da dove arrivano i soldi alla società  gestita da Luca Morisi che, quando Matteo Salvini era al governo, otteneva uno stipendio direttamente dal Viminale (lui e anche la sua squadra di social media manager).
Attualmente, la sua Sistema Intranet è una snc e, con questa formula societaria, non ha l’obbligo di rendere pubblici i bilanci. Pertanto non si potrà  mai sapere se la voce più corposa dei bilanci della Lega Salvini Premier (ovvero quei 628mila euro destinati alla generica voce “servizi”) contribuisca anche al bilancio della società  di Luca Morisi.

(da agenzie)

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REPORT PUBBLICA LE MAIL DI SIRI PER AVERE PUTIN ALLA SCUOLA DELLA LEGA

Ottobre 21st, 2019 Riccardo Fucile

I LEGAMI DEI SOVRANISTI TAROCCO AL SERVIZIO DI UNA POTENZA STRANIERA

Le mail originali di Armando Siri, ex sottosegretario leghista alle Infrastrutture del Governo Conte I e indagato a Roma per corruzione, che chiede nel 2015 in via riservata l’intervento del presidente russo Vladimir Putin nella scuola di Formazione politica della Lega e a Bielorussia ed Estonia il “placet” per la sua legge Flat Tax che deve presentare in Italia.
Sono solo alcuni dei documenti in possesso di Report, la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci, che verranno mostrati in diretta questa sera, a partire dalle 21.20 su Rai Tre.
Dalle email emerge prima di tutto come la Lega abbia cercato di inserirsi in quella che si può definire l’Internazionale Sovranista che va dalla Russia e arriva fino all’estrema destra americana.
Emerge quindi come Siri provi a ottenere legittimità  presso le ambasciate di Estonia e soprattutto Bielorussia, chiedendo un loro pronunciamento positivo sulla proposta della Flat tax. In un’altra mail chiede al governo bielorusso, “mantenendo la massima riservatezza” di intervenire affinchè Putin possa effettuare un intervento video presso la sua scuola di formazione dei giovani leghisti, dei futuri politici italiani.
Non solo: Report ha recuperato altre carte che provano come la Lega abbia continuato a lavorare in maniera sommersa sull’asse tra Russia e destra americana anche nel 2017. Dopo essere andato più volte a Mosca, il leader del Carroccio Matteo Salvini ha cercato di creare relazioni con gli Stati Uniti.
In una mail del 15 novembre 2017, il giovane Federico Arata, figlio di Paolo l’ex consulente di Palazzo Chigi indagato per corruzione nell’inchiesta sul re dell’eolico Vito Nicastri: “Io opero come spin doctor della Lega e provo ad aiutarla ad elevarsi sul piano sociale e internazionale”. Il giovane Arata spiega poi di essere “l’ideatore, insieme a Ted, del viaggio di Salvini negli Stati Uniti”.
E scrive anche che Salvini e Giorgetti —considerano il viaggio negli Stati Uniti fondamentale, e hanno apprezzato molto il supporto di Ted”. Il Ted di cui Arata parla, in copia alla mail c’è anche l’ex sottosegretario Siri, è Ted Malloch, il faccendiere americano, coinvolto nello scandalo della Russiagate americano: avrebbe avuto un ruolo nel recupero di mail compromettenti, hackerate dai russi, su Hillary Clinton.

(da agenzie)

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