Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
QUANTI ENTRANO ED ESCONO DALLE TERAPIE INTENSIVE, QUANTI AL PRONTO SOCCORSO?… SONO TROPPE LE LACUNE
Il presidente dell’Accademia, Giorgio Parisi, spiega a Open che servono numeri più aggiornati: «Per ricominciare bisogna sapere quali numeri arrivano e come».
Al via l’accordo con l’Iss per nuovi modelli matematici sull’emergenza
Operativamente si parte questa settimana: l’Istituto Superiore di Sanità e l’Accademia dei Lincei collaboreranno per lo sviluppo di modelli che analizzino l’andamento dell’epidemia di Coronavirus in Italia e l’impatto sul sistema sanitario nazionale.
L’accordo durerà un anno. Una novità che arriva a nove mesi dall’inizio dell’emergenza epidemiologica, e quando ormai è chiaro che ancora, nel pieno della seconda ondata, i dati a disposizione dell’opinione pubblica — ma anche di esperti indipendenti — non sono abbastanza trasparenti e completi.
«Sono profondamente convinto che i dati debbano essere pubblici», spiega a Open Giorgio Parisi, fisico e presidente dell’Accademia dei Lincei. «Questo accordo può essere un aiuto, uno stimolo all’Iss per rendere questi dati pubblici, per cominciare a vedere bene gli elementi a disposizione da vicino: quali ci sono, quali non ci sono, come si possono rendere uniformi».
Professore, quali sono i dati sull’epidemia e sull’emergenza sanitaria disponibili in altri paesi e in Italia no?
«Le faccio un esempio. Ogni giorno sappiamo che ci sono +X persone a occupare posti letto in terapia intensiva. Ma per capire come sta andando l’epidemia sarebbe interessante sapere quante persone nuove sono entrate e quante uscite dalla rianimazione. Quante sono le entrate e le uscite separatamente, non sappiamo che percorso hanno fatto: conosciamo solo il saldo di giornata. Quello che succede, che si vede dappertutto, e che le persone stanno in terapia intensiva per periodi lunghi, una o due settimane.
Quando l’epidemia comincia a rallentare, tra i valori che per primi cominciano a diminuire c’è il numero delle nuove terapie intensive. Ma dato che i pazienti già presenti in rianimazione non hanno ancora cominciato a essere dimessi, il numero totale dei posti letto di terapia intensiva occupati (che è il dato pubblicato nel bollettino di ministero della Salute e Protezione Civile, ndr) continua ad aumentare anche all’inizio della fase di rallentamento. Lo stesso vale per gli ospedalizzati: sapere quanti sono entrati e usciti è importante. Nel caso dei positivi lo sappiamo: ci viene detto sia quanti sono i nuovi positivi, sia quante persone sono guarite, sia il saldo tra nuovi positivi e guariti».
Perchè accade questo?
«Per saperlo dovremmo sapere come sono fatti i protocolli di intesa delle singole regioni. Se per esempio gli ospedali sono obbligati a comunicare alle regioni solo il numero totale e non le entrate e le uscite, a questo punto quei dati non sono noti nemmeno alle regioni».
Da dove può ripartire quindi questo accordo tra Lincei e Iss?
«Una delle prime cose che mi piacerebbe conoscere con questo accordo è sapere cosa sa l’Iss: quali dati sono accessibili, quali dati mandano le regioni, quali gli ospedali».
E qual è un’altra priorità del lavoro nella gestione dei dati della pandemia?
«Estremamente importante sarebbe avere un questionario in cui la persona che risulta positiva dà informazioni fondamentali: che lavoro fa? Prende la macchina? Quante volte usa i mezzi pubblici? E per quanto tempo? Ci sono dei lavori che certamente sono esposti. Se per esempio chi fa il cassiere o la cassiera in un supermercato si ammala molto più di altre persone, questo vuol dire che nei supermercati circola il virus. Se gli autisti e le autiste degli autobus si ammalano più di altre categorie, vuol dire che sugli autobus circola il virus. Avere informazioni di tipo occupazionale, sociale (le uscite a cena con gli amici, per esempio), sul tipo di contatti che ha avuto una persona che è risultata positiva è fondamentale.
In alcuni ambienti, quando sono aperti al pubblico, come cinema o teatri — quindi non ora — è impossibile fare contact tracing: chiedere anche questo tipo di abitudini a una persona risultata positiva è molto utile. In strutture piccole e controllate (come la scuola e la famiglia), se una persona si ammala è possibile sapere come e quando sono avvenuti i contagi perchè è possibile fare il tracciamento.
Ma oggi in Italia — ma è lo stesso anche in Germania, per esempio — è possibile sapere dove è avvenuto il contagio solo nel 23% dei casi. Il 77% è ignoto. E questo dipende dal fatto che la maggior parte dei contagi non avviene in luoghi piccoli chiusi ma nella comunità , in occasioni dove si incontrano sconosciuti a distanza di meno di due metri, e quindi sfugge al tracciamento».
Per tutto questo, in teoria, ci doveva essere Immuni…
«Ecco, Immuni avrebbe potuto dare informazioni di questo genere e deve essere in qualche modo rivitalizzata. L’app è stata progettata per funzionare in una situazione in cui c’erano pochi casi in Italia, come accaduto quest’estate: ogni persona avrebbe prodotto una lista di 100/200 possibili contatti da controllare. Se anche Immuni funzionasse al 100%, ora con 30-40 mila persone positive nelle 24 ore, avremmo ogni giorno una lista di 8 milioni di possibili contatti da esaminare: è impensabile.
Immuni era stata progettata per la gestione della fase 2, una fase calante in cui si vuole tendere all’estirpazione del virus, alla riduzione ai minimi termini lavorando sui contatti casuali che nessuno si immaginerebbe. È chiaro che ci sono stati vari problemi. Non ora, ma andava fatta una corsia di emergenza per fare i tamponi il prima possibile a chi ha avuto un segnale da Immuni. L’app poi deve dare la possibilità , privacy permettendo, di conoscere l’ora precisa del contatto: così si riuscirebbe a scoprire eventuali contagi insospettabili e anonimi, o informazioni specifiche su contatti noti. E ancora: si dia una compensazione anche minima a chi si reca a farsi le analisi in seguito a una segnalazione di Immuni. Sarebbero spiccioli dal punto di vista dello Stato rispetto al risparmio sul sistema e un incentivo per il cittadino, magari autonomo».
Quando è saltato tutto?
«Fino a un certo punto, e lo si vede chiaramente, le strutture periferiche sono riuscite a lavorare e a far emergere il dato delle persone contagiate, di quante tra loro sono sintomatiche e di quando lo sono diventate. Dal 20 ottobre scorso il numero delle persone positive continua ad aumentare, mentre quello delle persone che risultano sintomatiche nelle date successive rimane costante.
Ma la malattia non ha cambiato natura: è che evidentemente l’informazione non arriva più almeno da alcune regioni. I medici, oberati, cominciano a “mandare al diavolo” i questionari statistici: non ce la fanno più, è un segno della sofferenza del sistema. E quindi arrivano dati che non hanno senso: si è perso il contatto con quello che succede. D’altro canto gli esperti che analizzano l’indice RT lo sanno benissimo».
Ecco: l’indice RT. Lei lo definisce senza mezzi termini “inaffidabile”.
«Ha presente le forchette elettorali? Ora sono chiarissime: quando un giornalista dice “una forchetta tra il 48 e il 50“, tutti capiscono cosa vuol dire, ovvero che il dato sarà tra quelle due cifre. Quando si calcola l’Rt bisogna fare delle inferenze statistiche sui dati, che possono avere una serie di approssimazioni. Ma la ‘forchetta’ è scritta in un linguaggio incomprensibile ai profani.Negli ultimi monitoraggi viene indicato con “1.73 (95% CI:1,41—1.83)”.
Non viene nemmeno la curiosità di sapere di cosa stiamo parlando: è qualcosa di incomprensibile. La traduzione è che la forchetta è compresa tra 1,4 e 1.8, e il valore più probabile (si tratta di previsioni asimmetriche) è 1,73. La settimana successiva il valore più probabile dell’Rt risulta 1.43 ma la forchetta si è dilatata enormemente, da 1,1 a 1,8. Gli esperti che fanno i report si accorgono dell’instabilità dei dati e del fatto che il sistema non ha più controllo. Un profano no.
Penso che le persone nella cabina di regia si rendano conto che l’Rt è inaffidabile, guardando il valore di CI, il Confidence Interval. Da un lato gli esperti lo sanno, dall’altro è un elemento che si è un po’ perso nella comunicazione».
Quale altro dato sarebbe prioritario rendere trasparente e omogeneo?
«Una delle informazioni fresche più interessanti è il numero di chiamate che vengono fatte al 118. Un numero che per esempio si riesce a sapere per la regione Lombardia: io lo trovo sul Sole 24 Ore, la fonte citata è l’Areu, anche se è un dato non semplice da trovare sul sito dell’Azienda Regionale emergenza urgenza (io non ci sono riuscito). Per altre regioni il dato non si trova.
Nel Lazio invece, per fare un altro esempio, dallo Spallanzani mi raccontano che hanno l’impressione che gli arrivi ai pronto soccorso stiano diminuendo. Ma un conto è l’impressione di persone magari in prima linea, certo fondamentale: un conto è il dato quantitativo. Quante persone sono arrivate ai pronto soccorso? Quante per malattie respiratorie? Il dato di Milano, noto, è certamente positivo: le chiamate al PS stanno diminuendo, due settimane fa erano 500 al giorno mentre da tre giorni sono scese sotto soglia 400.
Qualcosa si vede, ma sono segnali fragili: potrebbe essere una fluttuazione. Se questo trend si consolida e vale solo per Milano è un conto, se invece la discesa delle chiamate al PS è rintracciabile anche — per esempio — in Veneto, Piemonte, Lazio, Campania, è clamoroso. Al momento non possiamo saperlo: sono dati difficili da reperire, e quando anche si riesca, sono difficilmente analizzabili».
E sull’arrivo del vaccino Covid, cosa prevede o cosa suggerisce in termini di dati?
«Sono abbastanza tranquillo perchè penso che ci siano delle procedure a livello europeo chiaramente delineate. Per la distribuzione bisogna fare i piani, ma è chiaro che la prima tranche andrà fatta al personale sanitario, a chi è in prima linea, per loro e perchè sono a rischio di diffonderlo. Poi toccherà agli ultra-ottantenni e a chi ha patologie. Ecco: bisogna cominciare a fare il censimento delle persone con patologie, magari il prima possibile con un questionario mandato ai medici di famiglia dove possano comunicare la situazione dei loro pazienti. Ma sono abbastanza fiducioso: è un qualcosa che funzionerà ».
(da Open)
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Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
ECCO COME (NON ) FUNZIONA
Abbiamo trascorso una giornata con alcuni membri dell’Operazione Igea, che prevede l’utilizzo di forze
armate per aiutare il soccorso dei pazienti affetti da Coronavirus
Suona l’ambulanza verde per le vie di Roma: i malati di Coronavirus non mancano. Manca però l’ossigeno e di conseguenza le corse di uno dei 5 mezzi — messi a disposizione dal ministro della Difesa per aiutare gli operatori sanitari nel soccorso dei pazienti Covid — sono disarmate.
E disarmante è l’attesa per la bombola con il giusto aggancio, che il mezzo è dovuto andare a recuperare all’ospedale del Celio, dove sono ferme anche le altre quattro ambulanze. Tutte in attesa di ossigeno.
Così solo dopo quattro ore il primo intervento della giornata è stato effettuato. Sì, perchè è dai dettagli che si può vedere l’efficacia: ci sono diversi tipi di agganci delle bombole a ossigeno e se non si trasporta quella corretta il recupero del paziente risulta impossibile. «L’ambulanza non può uscire, mancano il cavo del defibrillatore e le bombole di ossigeno», dice l’infermiera al militare in turno.
Alle 11 l’arrivo dei militari al presidio dell’ospedale San Camillo. Il mezzo è fermo dalle 8 del mattino. L’orario di lavoro è 8-20, poi tutti a casa. «Nei prossimi giorni vi mando i video con le spiegazioni per fare qualsiasi tipo di intervento», dice l’infermiera che coordina l’unità in cui operano sia i militari che i civili al colonnello medico Maurizio Lupardini.
Il servizio istituito nel pacchetto operazione “Igea” è attivo già da due settimane, eppure i soldati non hanno idea di come impostare le giornate, nè le operazioni di soccorso.
La missione è stata istituita dal ministro Guerini per coadiuvare lo sforzo delle strutture sanitarie pubbliche nel soccorso “secondario” dei pazienti colpiti dal Coronavirus, e dimostrare che in questa “guerra” anche i militari hanno il loro peso.
Sono passate le 12, di lì a poco il primo dettaglio di quella che si preannuncia una lunga giornata.
«Il ministero ha mandato una circolare», dice il sottoufficiale Michele Carone, «per dirci che nessuno del comparto può avere contatti con i malati». In che senso? E l’infermiera come fa? Chi la aiuta a portare la barella in ospedale, a caricare il paziente e a metterlo sull’ambulanza? «Se lo farà da sola», è la risposta. «Sono ordini dall’alto».
L’ambulanza ci mette due ore per attraversare Roma, e non per questioni di traffico, che per il Covid si è drasticamente ridotto. Arrivata all’ospedale Pertini, il mezzo verde si mette in coda con le altre nove ambulanze civili che aspettano da tutto il giorno — non possono caricare pazienti per mancanza di barelle -, e nessuno dei due ingressi risulta accessibile.
Dopo quaranta minuti il paziente esce sulle sue gambe, e, a piedi, raggiunge l’abitacolo. Non capisce perchè così tanto ritardo. Ci sono voluti ben quattro tentativi ai vari ingressi prima di far ricoverare il malato del Pertini nella clinica che s’affaccia sul Tevere, non lontano dallo stadio Olimpico, nel quartiere Fleming.
Alla fine del trasferimento, sono le 16.45, l’infermiera si lascia scappare un sospiro senza parole. E domani si ricomincia.
(da Open)
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Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
DEDICATO A CHI SOSTIENE CHE LE SCUOLE DEVONO RESTARE APERTE: 36.622 HANNO MENO DI 10 ANNI, ALTRI 90.000 SONO TRA 10 E 19 ANNI
Non sono solo le persone anziane a rimanere positivi al Coronavirus. Dall’inizio del monitoraggio sulla pandemia in Italia sono stati 126.622 i bambini e gli adolescenti positivi, pari a circa il 12% del totale dei contagiati.
Di questi, 36.622 hanno meno di 10 anni, e altri 90 mila hanno dai 10 ai 19 anni.
I dati sono stati raccolti dalla Società Italiana di Pediatria, sulla base del lavoro dell’Istituto Superiore di sanità (Iss), in vista del prossimo congresso.
«La maggior parte ha manifestato forme cliniche lievi, con un tasso di letalità bassissimo. Se i contagi dovessero aumentare, soprattutto i fragili, potrebbero andare incontro a problemi importanti», hanno detto gli esperti.
Mentre Alberto Villani, presidente Sip, ha parlato di un «evento drammatico e inatteso, questa pandemia ha sconvolto l’intero pianeta al punto da rappresentare uno spartiacque epocale tra ciò che è stata la vita prima del Covid e cosa sarà dopo il Covid».
(da agenzie)
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Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
UN IMPRENDITORE DI ROMA E’ STATO DENUNCIATO PER AVER MANOMESSO IL REFERTO
Un imprenditore di 50 anni a Roma è stato denunciato per aver usato un referto manomesso: ha così
convinto i suo dipendenti a tornare al lavoro perchè era negativo al test per il Coronavirus.
Dopo gli accertamenti è risultato contagiato uno dei lavoratori.
La positività al Covid di uno dei due titolari e di un dipendente di un’azienda del quartiere Aurelio/Monteverde aveva gettato nel panico gli altri tre lavoratori i quali, così come il socio del malato, si erano sottoposti subito al previsto tampone.
I dipendenti, risultati tutti negativi, hanno chiesto al titolare di conoscere anche l’esito del suo test: lo stesso, dopo qualche reticenza, ha inviato loro, tramite whatsapp, la foto di un referto che lo dichiarava negativo.
Visto ciò l’azienda, che opera nel settore commerciale, fin dall’inizio del mese ha ripreso a funzionare regolarmente ed i dipendenti hanno continuato a lavorare a stretto contatto con il titolare. Gli investigatori del Distretto Aurelio, diretto da Alessandro Gullo, hanno però deciso di approfondire la questione: i poliziotti hanno acquisito presso una vicina struttura sanitaria il vero risultato del tampone, ossia quello con la positività al Covid-19, ed il relativo consenso informato debitamente sottoscritto dal cinquantenne che, tra le altre cose, lo obbligava all’isolamento domiciliare.
Tale documento era identico, salvo nella parte manomessa, a quello inviato nel gruppo whatsapp per far tornare i dipendenti a lavoro. Il titolare è stato denunciato in stato di libertà all’Autorità Giudiziaria. I dipendenti hanno ripetuto il tampone ed uno dei tre è ora positivo al Covid-19.
(da agenzie)
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Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
LA STRANA CONCEZIONE DEI NUMERI DEL MINISTRO DEGLI ESTERI
Attenzione, attenzione: questo non è un articolo a favore o contro i fondi del Meccanismo Europeo di Stabilità .
Si tratta di un pezzo in cui si analizzano alcune dichiarazioni recenti messe a confronto con altre del passato.
E l’occhio di bue oggi si sposta, inevitabilmente, sulle dichiarazioni di Luigi Di Maio sul Mes. Parole condivise sui social — come ormai di routine in una politica sempre più votata a Facebook, Instagram e Twitter che alla realtà — che mostrano un intriso di populismo. Due dichiarazioni che vanno una contro l’altra.
Evidentemente l’ex capo politico del Movimento 5 Stelle e attuale Ministro degli Esteri non doveva essere fortissimo in matematica.
Partiamo dal post più recente, quello pubblicato poco dopo le 17 sul suo profilo Facebook, con tanto di foto dall’espressione fiera e seriosa.
La nostra attenzione va su un punto specifico: «Si è lasciato passare il messaggio che stessimo, come degli stupidi, rinunciando a 37 miliardi pronti e a costo zero per la nostra sanità . Così non è. Non lo era prima e non lo è adesso, anche dopo che il ministro Gualtieri ha chiarito che il risparmio teorico in termini di cassa sarebbe solo di 300 milioni di euro l’anno e che, dunque, ‘il gioco non vale la candela’». Accidenti: un risparmio di cassa di 300 milioni di euro l’anno non vale la candela.
Un suo parere personale che, però, mostra delle criticità . Torniamo indietro nel tempo, ma neanche troppo.
Campagna di sponsorizzazione per il sì al referendum sul taglio dei Parlamentari (con annessa modifica della Costituzione). Era il 5 agosto. Poco più di tre mesi fa.
Un fiero Luigi Di Maio annunciava con candore che il taglio dei parlamentari si sarebbero risparmiati oltre 400 milioni di euro. Non all’anno, ma a legislatura.
Insomma, 400 milioni in cinque anni (vita naturale di un Parlamento, al netto di crisi varie ed eventuali elezioni anticipate). Quattrocento diviso cinque fa 80 milioni di euro risparmiati ogni anno.
Insomma, se vale il messaggio scritto dal Ministro degli Esteri solo tre mesi fa, allora appare evidente come il gioco valga la candela. E non parliamo solo del taglio dei parlamentari.
Le parole di Luigi Di Maio sul Mes, dunque, mostrano come i ‘buoni motivi’ per votare un referendum che ha cambiato e cambierà la Costituzione (a partire dalla prossima legislatura) non sono gli stessi per prendere i 37 miliardi di euro messi a disposizione col Meccanismo Europeo di Stabilità .
Misteri della matematica. O del populismo.
(da agenzie)
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Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
E’ NORMALE CHE AI LEGHISTI NON VADA GIU’, IL DEPUTATO CALABRESE DELLA LEGA E’ INDAGATO PER TURBATIVA D’ASTA DALLA DDA DI REGGIO CALABRIA
Non va proprio giù ai leghisti della Calabria l’ipotesi di Gino Strada commissario straordinario della
sanità regionale.
Il presidente ad interim Nino Spirlì, uno che in poche settimane è riuscito nella mirabile impresa di mostrarsi in tutta la sua inadeguatezza, dopo la morte della presidente Jole Santelli, sul fondatore di Emergency dice: “Gino Strada? Ma cosa c’entra, dobbiamo scavare pozzi? Non abbiamo bisogno di medici missionari africani”.
Peccato che Gino Strada non si occupi di pozzi, ma sia un medico chirurgo che è stimato in tutto il mondo, uno che, per dire, ha lavorato nelle università di Stanford e di Pittsburgh e che ha lavorato nel più importante ospedale del Regno Unito (l’Harefield Hospital).
Semplicemente Gino Strada si è innamorato delle vittime della guerra quando ha visto con i suoi occhi quegli orrori e si è dedicato tutta la vita alla cura delle persone senza nessuno scopo di lucro.
Che sarebbe, a pensarci bene, proprio quello di cui la Calabria avrebbe bisogno, se ci pensate.
Ma su Gino Strada si è espresso anche Domenico Furgiuele che a Montecitorio ha dichiarato: “Nominare commissario Gino Strada porta soltanto a problemi di ordine pubblico”. Ha parlato proprio di ordine pubblico.
Anzi, ha aggiunto: “Volete che scoppino i moti? Accomodatevi, ci saranno i moti della Calabria 2020”.
Domenico Furgiuele è lo stesso deputato di Lamezia Terme indagato dalla Dda di Reggio Calabria per concorso in turbativa d’asta. Domenico Furgiuele e altri imprenditori, infatti, nel maggio 2015, secondo l’accusa, “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso” e “con mezzi fraudolenti e collusioni, turbavano la gara d’appalto” indetta dal Comune di Polistena per la realizzazione di un eliporto a supporto dell’ospedale”.
In particolare il deputato del Carroccio, legale rappresentante della Terina Costruzioni, avrebbe messo “a disposizione” la sua società “per la presentazione di un’offerta concordata con le altre imprese partecipanti al cartello, al fine di condizionare il risultato della gara in loro favore”.
L’inchiesta “Waterfront” in cui risulta indagato Furgiuele ha portato all’arresto di 63 persone tra cui 11 funzionari pubblici e al sequestro di beni per 103 milioni di euro.
Ecco perchè tornerebbe utile un Gino Strada.
(da TPI)
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Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
LA RISPOSTA DI EMERGENCY LI METTE A TACERE
La questione Calabria e la ricerca disperata di un commissario alla Sanità da parte del governo ha portato Gino Strada e la sua ong Emergency a tornare al centro del dibattito pubblico.
Sul web, in modo particolare, ha fatto nuovamente effetto un meme che riporta una vecchia dichiarazione del fondatore della ong, risalente al gennaio 2019, con cui ha risposto a Matteo Salvini: «I bilanci di Emergency sono pubblici, quelli della Lega sono nelle procure».
Il commissariamento della Sanità in Calabria e la ritrovata vitalità di quella dichiarazione (oltre alla viralità dell’hashtag #Calabria) hanno spinto il web sovranista ad approfondire la questione dei bilanci di Emergency.
Ad esempio, Francesca Totolo — collaboratrice del Primato Nazionale — si è chiesta, testualmente, perchè quei bilanci prevedono «oltre 30 milioni di euro per il personale presso le missioni operative e i quasi 3 milioni per il personale amministrativo». E poi si fa una domanda: «Ma non sono volontari?».
Ora, è piuttosto facile intuire che una ong — soprattutto se si avvale di personale altamente qualificato (è il caso di Emergency, senza ombra di dubbio) — debba sostenere delle spese. E se è vero che alcuni operatori sanitari prestano gratuitamente la loro opera, è altrettanto vero che per un’organizzazione che voglia essere concretamente efficiente in aree del pianeta particolarmente in difficoltà è doveroso prevedere la costante presenza di professionalità che, per fare il loro lavoro, devono essere pagate.
Emergency risponde e fa l’elenco delle professionalità retribuite
Va proprio in questa direzione la risposta, sempre su Twitter, di Emergency che spende del tempo per chiarire: «Nei nostri ospedali lavorano medici, infermieri, laboratoristi, tecnici, logisti, amministratori, numerose altre figure specializzate (che scelgono di partire per missioni continuative di 6 mesi o più) e più di 2800 persone di staff locale. Ovvio e doveroso retribuirli, non crede? I volontari, invece, ci affiancano su eventi e iniziative di sensibilizzazione e raccolta fondi sul territorio (soprattutto in Italia, ma anche in altri Paesi). Anche loro hanno un ruolo fondamentale, ma è giusto non confondere i due ruoli».
(da agenzie)
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Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
BEN CINQUE AVVOCATI HANNO RINUNCIATO AL MANDATO IN QUANTO NON SI SENTIVANO DI RAPPRESENTARE ACCUSE INFONDATE… E ANCHE MARC SCARINGI DEFINISCE BIDEN “PRESIDENTE ELETTO”
Marc Scaringi, avvocato che rappresenta la campagna di Trump in Pennsylvania, aveva espresso
perplessità sulla posbbilità che questi ricorsi potessero avere successo. Il 7 novembre aveva dichiarato: “Alla fine, secondo me i ricorsi non funzioneranno, non rovesceranno queste elezioni”
Ora però Scaringi si trova guidare l’ultimo ricorso ancora in campo della campagna di Trump per cercare di bloccare o al limite ritardare la certificazione della vittoria di Biden in Pennsylvania.
Il suo arrivo è stato determinato da fatto che negli ultimi giorni molti degli avvocati che inizialmente erano stati assegnati ai casi non hanno più voluto seguire i ricorsi considerati da più parti solo una mossa per spacciare accuse infondate di frodi elettorali.
Dopo i due avvocati che hanno rinunciato all’incarico la scorsa settimana, ieri altri tre legali della Pennsylvania hanno anche lasciato il caso. E quindi la campagna di Trump la notte scorsa ha annunciato di aver affidato al 51enne Scaringi il ricorso contro le misure adottate in alcune contee per dare la possibilità di correggere gli errori fatti nell’invio del voto per posta.
Si ritiene che il ricorso abbia scarse possibilità di avere successo, ma anche se lo dovesse avere non potrebbe avere un effetto tale da mettere in discussione il vantaggio di Biden che è di oltre 70mila voti. Trump ha vinto in Pennsylvania quattro anni fa per poco più di 44mila voti.
E questo era il ragionamento che faceva Scaringi, già assistente dell’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum che nel 2012 si è candidato senza successo alla Camera, nel suo show radiofonico: “secondo me non ci sono bombe che possano essere lanciate per deragliare la presidenza Biden, compresi questi ricorsi”.
Diventato un convinto sostenitore di Trump nel 2016, Scaringi prima del voto affermava che il presidente era “in grado di arrivare alla base dei conservatori così a lungo ignorata dall’establishment repubblicano”. Ma subito dopo che, lo scorso 7 novembre appunto, è stata dichiarata la vittoria di Biden in Pennsylvania, non si mostrò sorpreso: “da mercoledì mattina ripeto che Biden avrebbe vinto”, disse alla radio l’avvocato che anche sul sito del suo studio legale definisce Biden “il presidente eletto”.
(da agenzie)
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Novembre 17th, 2020 Riccardo Fucile
CONSIGLIERA REGIONALE, LICEO AL CONVITTO NAZIONALE, UNIVERISTA’ ALLA LUISS, ORIGINI ALTO-BORGHESI ALLA BALDUINA, GENITORI MEDICI, E’ LA PUPILLA DELLA DINASTIA MELONIANA
Giovedì è convocato il prossimo vertice del centrodestra, e la complicata partita per un candidato comune al Campidoglio sembra vicina alla soluzione. Ma soltanto se altre importanti caselle incontreranno il contestuale via libera dei tre alleati.
A partire dalla corsa per la Pisana, prevista per il 2023 a meno che Nicola Zingaretti ceda prima alle sirene che lo vogliono al governo. E passando per il dopo-Sala a Milano, città cruciale per i destini della Lega.
Da tempo Giorgia Meloni chiede di definire le “regole d’ingaggio complessive”, e tutti e tre i leader hanno promesso di ufficializzare i candidati per le comunali di primavera entro l’inizio di dicembre.
Per Roma, i nomi portati al tavolo finora sono soltanto due: Guido Bertolaso, l’ex capo della Protezione Civile sponsorizzato da Silvio Berlusconi, e Chiara Colosimo, giovane consigliera regionale nonchè braccio destro della Meloni nella capitale. Su questo tandem la scelta, però, si è incagliata.
Il Cavaliere ha messo in campo con forza il suo ex sottosegretario a Palazzo Chigi: medico, esperto di emergenze, con esperienza nella gestione del terremoto e dei rifiuti in Campania, è “un nome che in tempi di coronavirus rassicura i cittadini”.
Insomma, la pandemia lo avrebbe “messo su un piano inclinato” difficile da insidiare. Anche perchè arriva dopo che sono stati testati altri nomi “civici” – come il manager di lungo corso Aurelio Regina e l’ex presidente di Unindustria Filippo Tortoriello — non risultati convincenti nei sondaggi. E dopo il no del manager Flavio Cattaneo. Inoltre, Bertolaso ha avuto il via libera pubblico di Matteo Salvini: “Guido è un uomo del fare”. Un endorsement verso un candidato che non è esattamente “il nuovo che avanza” che, dopo le critiche impietose alla candidatura di Raffaele Fitto in Puglia, ha spiazzato e insospettito i meloniani.
Già , perchè la leader di FdI questa candidatura proprio non la digerisce. “Sarebbe sicuramente un ottimo sindaco — ha detto allo scorso vertice — Ma bisogna vedere se sarebbe anche un buon candidato…”. Traduzione: se i romani lo voterebbero.
C’è anche una questione più personale: quattro anni fa, dopo le primarie ai gazebo vinte da Bertolaso, Meloni decise comunque di scendere in campo, sostenuta dalla Lega. E l’ex sottosegretario chiuse a ipotesi di ticket in modo sferzante: “Giorgia deve fare la mamma”.
Finì che Berlusconi virò su Alfio Marchini e al Campidoglio andò Virginia Raggi. Ma tra i due vecchi sfidanti non corre buon sangue. E la “primogenitura” su Roma, nel risiko delle spartizioni all’interno del centrodestra, tocca proprio a FdI. Anche perchè Roma e Lazio sono una roccaforte dei post-aenne, e senza il loro placet non si va da nessuna parte.
L’emergente Colosimo: da “volto pulito” a carta a sorpresa
Meloni, tuttavia, è una politica pragmatica. E il veto su “Guido” potrebbe evaporare sulla base — appunto — di “regole d’ingaggio complessive”.
Che chiamano in causa Chiara Colosimo, la sua “pupilla”, ex presidente della Giovane Italia laziale, a cui dopo aver affidato Atreju (dal 2004) ha dato in mano pochi mesi fa la responsabilità degli eventi di partito nel Lazio. 34 anni, figlia di due medici (un radiologo del Gemelli e una microbiologa), è al secondo mandato in Regione di cui è stata la più giovane consigliera.
Dopo lo scandalo di Franco Fiorito – il “Batman di Anagni” che nel biennio 2010-2012 si mise in tasca oltre un milione di euro di fondi destinati al PdL — Colosimo gli successe come capogruppo perchè il Pdl cercava un “volto pulito” capace di rilanciarlo oltre il caso che costò la poltrona a Renata Polverini.
E lei lo incarnava appieno: liceo al Convitto Nazionale e poi Scienze Politiche alla Luiss, cresciuta alla Balduina, bacino elettorale alla Garbatella, primi passi politici in Azione Studentesca, radici e interessi nella sanità
In consiglio regionale si occupa molto di politiche sanitarie, assistenza ai disabili e alle loro famiglie, tutela e riconoscimento dei caregiver, fino al potenziamento dell’assistenza domiciliare in tempi di coronavirus.
Temi cari alla Meloni, ma spesso recepiti anche dalla maggioranza, grazie a un rapporto di stima reciproca con l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato
Trova spazio anche per iniziative più politiche: la rinuncia all’auto blu, poi al vitalizio, e l’attacco al governatore in carica per il caso delle “mascherine fantasma” nel Lazio.
Adesso, un po’ a sorpresa, l’ex ministro della Gioventù l’ha lanciata nell’arena del Campidoglio. Un nome forse troppo esile rispetto a Bertolaso, ma l’obiettivo non è quello – più immediato — di un ticket per il Campidoglio.
Meloni scalda i motori per il dopo-Zingaretti, sperando che l’attesa non sia troppo lunga. E il nome giusto, a quel punto, potrebbe essere proprio quello della Colosimo.
Salvini punta sulla Madonnina
Il primo nome in campo per la Regione Lazio, va detto, l’aveva avanzato Matteo Salvini. Rivendicando la casella per il fedelissimo Claudio Durigon, originario di Latina e coordinatore leghista a Roma, ex sottosegretario e responsabile del Dipartimento Lavoro, appena entrato nella segreteria politica nuova di zecca.
Tuttavia, i primi sondaggi riservati hanno intiepidito l’entusiasmo. E, sussurrano in diversi, dopo la duplice esperienza di Emilia Romagna e Toscana il Capitano non ha più tanta voglia di rischiare di bruciarsi le ali lontano dalla Padania.
Così, lontano dai riflettori, Salvlni sta già incontrando imprenditori, ceti produttivi e società civile della Lombardia per capire quale candidato potrà sfidare al meglio Beppe Sala o chi per lui. E i giochi sono a buon punto: in cima alla lista c’è il docente di Finanza alla Bocconi Maurizio Dallocchio, seguito dal presidente della Camera della Moda Carlo Capasa. Mentre il medico Paolo Veronesi, figlio di Umberto, ha gentilmente declinato.
(da “Huffingtonpost”)
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