A ROMA IL SOCCORSO DEI PAZIENTI COVID E’ AFFIDATO ANCHE AI MILITARI
ECCO COME (NON ) FUNZIONA
Abbiamo trascorso una giornata con alcuni membri dell’Operazione Igea, che prevede l’utilizzo di forze armate per aiutare il soccorso dei pazienti affetti da Coronavirus
Suona l’ambulanza verde per le vie di Roma: i malati di Coronavirus non mancano. Manca però l’ossigeno e di conseguenza le corse di uno dei 5 mezzi — messi a disposizione dal ministro della Difesa per aiutare gli operatori sanitari nel soccorso dei pazienti Covid — sono disarmate.
E disarmante è l’attesa per la bombola con il giusto aggancio, che il mezzo è dovuto andare a recuperare all’ospedale del Celio, dove sono ferme anche le altre quattro ambulanze. Tutte in attesa di ossigeno.
Così solo dopo quattro ore il primo intervento della giornata è stato effettuato. Sì, perchè è dai dettagli che si può vedere l’efficacia: ci sono diversi tipi di agganci delle bombole a ossigeno e se non si trasporta quella corretta il recupero del paziente risulta impossibile. «L’ambulanza non può uscire, mancano il cavo del defibrillatore e le bombole di ossigeno», dice l’infermiera al militare in turno.
Alle 11 l’arrivo dei militari al presidio dell’ospedale San Camillo. Il mezzo è fermo dalle 8 del mattino. L’orario di lavoro è 8-20, poi tutti a casa. «Nei prossimi giorni vi mando i video con le spiegazioni per fare qualsiasi tipo di intervento», dice l’infermiera che coordina l’unità in cui operano sia i militari che i civili al colonnello medico Maurizio Lupardini.
Il servizio istituito nel pacchetto operazione “Igea” è attivo già da due settimane, eppure i soldati non hanno idea di come impostare le giornate, nè le operazioni di soccorso.
La missione è stata istituita dal ministro Guerini per coadiuvare lo sforzo delle strutture sanitarie pubbliche nel soccorso “secondario” dei pazienti colpiti dal Coronavirus, e dimostrare che in questa “guerra” anche i militari hanno il loro peso.
Sono passate le 12, di lì a poco il primo dettaglio di quella che si preannuncia una lunga giornata.
«Il ministero ha mandato una circolare», dice il sottoufficiale Michele Carone, «per dirci che nessuno del comparto può avere contatti con i malati». In che senso? E l’infermiera come fa? Chi la aiuta a portare la barella in ospedale, a caricare il paziente e a metterlo sull’ambulanza? «Se lo farà da sola», è la risposta. «Sono ordini dall’alto».
L’ambulanza ci mette due ore per attraversare Roma, e non per questioni di traffico, che per il Covid si è drasticamente ridotto. Arrivata all’ospedale Pertini, il mezzo verde si mette in coda con le altre nove ambulanze civili che aspettano da tutto il giorno — non possono caricare pazienti per mancanza di barelle -, e nessuno dei due ingressi risulta accessibile.
Dopo quaranta minuti il paziente esce sulle sue gambe, e, a piedi, raggiunge l’abitacolo. Non capisce perchè così tanto ritardo. Ci sono voluti ben quattro tentativi ai vari ingressi prima di far ricoverare il malato del Pertini nella clinica che s’affaccia sul Tevere, non lontano dallo stadio Olimpico, nel quartiere Fleming.
Alla fine del trasferimento, sono le 16.45, l’infermiera si lascia scappare un sospiro senza parole. E domani si ricomincia.
(da Open)
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