Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
BATTE SIA CENTRODESTRA CHE ALLEANZA PD-M5S… IL PRIMO SINDACO CHE HA VIETATO IL LAVORO NEI CAMPI NELLE ORE PIU’ TORRIDE E CHE STA FACENDO RINASCERE LA CITTA’ PUGLIESE
La riconferma di Pippi Mellone alla carica di sindaco di Nardò, secondo
comune della provincia di Lecce per numero di abitanti, era un risultato scontato secondo la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori.
Si trattava soltanto di capire quali dimensioni avrebbe avuto la vittoria che però, già dagli esordi dello scrutinio, è parsa abbondante, non contendibile: resconti degni di credibilità provenienti dalla sezioni riferivano da subito di una fuga in atto, con circa il 70 percento delle preferenze a un quinto circa delle schede scrutinate.
E con una affluenza al 65 percento si delineava già un verdetto abbastanza solido nelle premesse. Lo prosecuzione delle operazioni elettorali ha confermato e rafforzato la tendenza: con oltre il 50 percento delle schede scrutinate, Mellone è al 73 percento.
Mellone nel 2016 ha ottenuto il 30,09 al primo turno e il 50,28 al ballottaggio, superando per meno di cento voti il sindaco uscente, Marcello Risi.
Ma questa volta è stata tutta un’altra storia. Sostenuto da nove liste di profilo destra sociale, Mellone ha trovato nel favore del presidente della Regione, Michele Emiliano, un alleato.
Questo connubio, che non è cosa degli ultimi mesi, ha sempre indebolito il ruolo di minoranza del centrosinistra sui banchi dell’assise cittadina, ma ha anche complicato la percezione della candidatura di Carlo Falangone, sostenuta da Pd e M5S e tre liste progressiste. Stefania Ronzino, per Nardò Bene Comune, è stata protagonista di una campagna elettorale coraggiosa e sarebbe accreditata di un buon risultato personale che deve trovare il conforto di quello della lista. Il quarto candidato era Mino Frasca, espressione di un raggruppamento di centrodestra moderato.
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
GLI SLOGAN NON INCANTANO PIU’ COME UNA VOLTA, SI APRONO SCENARI IMPREVEDIBILI, MALESSERE DI UNA PARTE DI FORZA ITALIA
Sono le elezioni della crisi del bipopulismo tra declino del M5s e crisi del centrodestra. Per i grillini è un massacro ovunque, simboleggiato dal triste uscita di scena di Virginia Raggi: a Roma mai un sindaco uscente aveva mancato l’obiettivo minimo del ballottaggio.
Per il centrodestra è stata una giornata disastrosa: si conferma in Calabria, come ampiamente previsto, ma crolla con il suo Luca Bernardo a Milano, va malaccio Enrico Michetti a Roma, Paolo Damilano è dietro a Torino.
Il fatto politico più rilevante di queste amministrative riguarda quindi una destra fino a solo pochi mesi fa data da tutti, ma proprio tutti, stra-vincente alle prossime elezioni politiche, tanto è vero che a sinistra fin qui ci si è ingegnati a come contenere le perdite o a quali contrappesi ricorrere per ridurre il danno (a partire dalla elezione di Mario Draghi al Quirinale) dando per scontato che il derby vero sarebbe stato tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Cosa è successo? Perché questo improvvisa parabola dei sovranisti? Forse perché è venuta avanti un’alternativa credibile? Certo che no.
La crisi della destra è interamente spiegabile con ragioni interne alla coalizione.
A parte le novità internazionali (la caduta di Donald Trump, innanzi tutto), al primo posto c’è la perdita di senso dell’offerta politica rappresentata dalla Lega, l’offuscamento del salvinismo come nuovo capitolo della biografia della Nazione, lo svuotamento delle parole d’ordine anti-immigrati e pro-armi, il senso di frustrazione davanti all’azione di governo di Mario Draghi, infine il prospettarsi di un’alternativa interna (Giancarlo Giorgetti) e in misura minore l’emergere di una imprevista questione morale (il caso Luca Morisi).
La crisi della destra è soprattutto la crisi della Lega e del suo capo, un uomo che adesso se le deve aspettare tutte, persino l’evenienza di un vacillare della sua leadership, un uomo che soprattutto avrà difficoltà a trovare nuove strade.
È una crisi che potrebbe trascinare nel gorgo anche una Giorgia Meloni fino a pochissimo fa in grande spolvero.
Perché a Roma nelle mitiche periferie di cui Fratelli d’Italia pareva in grado di intercettare il disagio la gente è restata a casa?
Risposta facile: perché Enrico Michetti è un candidato debole, se ci fosse stata Giorgia. Ma Giorgia non c’era – errore blu? – e la probabilissima sconfitta dell’avvocato radiofonico le cadrà in testa. Fratelli d’Italia non sfonda, anzi.
Può essere che l’effetto-novità sia già sfiorito. Ma più in generale forse paga anche la Meloni, pur meno logora di Salvini, la crisi generale del sovranismo, il grande sconfitto fin dalle Europee del 2019, quando le destre europee cominciarono a rinculare
Quelle ricette, quegli slogan, non incantano più come una volta. È una situazione che apre scenari imprevedibili a partire dal malessere di una parte di Forza Italia – si sa che Berlusconi è fuori di sé per come è stata gestita tutta la vicenda.
Questo appare il fatto nuovo della situazione italiana: e una destra in grande difficoltà è senz’altro una buona notizia per Mario Draghi, che solo da quella parte ha (aveva) da temere qualcosa. E anche il big match del Quirinale risentirà di questa debolezza “contrattuale” dei due partiti sovranisti
Sul Movimento 5 stelle c’è poco da dire: sta affondando.
Giuseppe Conte lo tiene ancora a galla ma è chiaro che con l’uscita di scena di Virginia Raggi si chiude anche simbolicamente un ciclo: cosa ne scaturirà non è chiaro, nella migliore delle ipotesi il M5s contiano diventerà una specie di appendice del Partito democratico.
Così muore anche l’altro corno del bipopulismo, spentosi come una candela dopo l’uscita dell’avvocato del popolo da palazzo Chigi, un passaggio che, oggi si vede meglio, è stato davvero cruciale per la storia italiana.
Per quanto riguarda il centrosinistra, non ha vinto: ha stravinto.
Stante la concomitante crisi degli avversari, e azzeccando le candidature, era prevedibile che andasse così, tanto che l’avevamo scritto ieri.
Bravo Enrico Letta, e fortunato. «Una vittoria che rafforza il governo Draghi», ha detto il segretario del Pd, comprensibilmente assai soddisfatto. Il voto testimonia che «la destra è battibile», e lui ha posizionato il Pd all’incrocio della crisi della destra e del M5s, questo va a suo merito. Ora che il neodeputato Letta si è molto rafforzato nel suo partito avrà anche più agio per tentare qualche operazione politica, a partire dal Quirinale e oltre.
Infine, dal voto vengono segnali incoraggianti per quel centro riformista che stenta ancora a vedere la luce come forza unitaria e organizzata. La vittoria a valanga di Beppe Sala conferma Milano come la capitale del riformismo. Ma ciò detto è anche evidente che se si vuole costruire un super-centro non c’è molto altro da fare che rimboccarsi le maniche. Incarnando l’agenda Draghi e preparandosi a fornire un’offerta politica nuova.
(da Linkiesta)
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Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
I CANDIDATI LI HA SCELTI QUASI TUTTI LUI, DI CHE SI LAMENTA? E NON DICE NULLA SUL CROLLO DI CONSENSI DI LISTA PER LA LEGA
Una sorta di “mea culpa” monco, soprattutto sui tempi della campagna
elettorale. Matteo Salvini appare ai microfoni del TG1 e prova a spiegare la debacle del centrodestra all’ultima tornata di elezioni amministrative, che vedono la vittoria al primo turno di Sala a Milano, Lepore a Bologna e Manfredi a Napoli, oltre al ballottaggio a Roma e Torino con il centrodestra tutt’altro che favorito.
Il segretario leghista punta il dito contro l’organizzazione di candidati e programmi in vista del voto: “Abbiamo offerto ai bolognesi o ai milanesi troppo poco tempo per conoscere candidati e programmi. Non possiamo perdere altri mesi in questioni interne. Se dobbiamo questionare facciamolo prima così arriviamo per tempo”, ha spiegato in riferimento alle comunali del prossimo anno che vedranno coinvolte – tra le altre – Palermo, Genova, Padova, Lecce.
“L’insegnamento tratto da questa esperienza – ha aggiunto Salvini – è che il centrodestra ha il dovere di individuare i candidati il prima possibile, lo dirò anche a Meloni e Berlusconi, al massimo entro novembre”.
Nessuna critica, però, nei confronti dei nomi sui quali è ricaduta la scelta in campagna elettorale. “Abbiamo scelto i migliori – ha detto Salvini – e non sentirete mai parole mie contro di loro”.
“Ma non cerco scuse, dove si è perso lo si è fatto per demeriti nostri. Il centrodestra unito vince, ma deve essere unito sul serio”.
Il leader leghista è apparso amareggiato per l’esito della tornata elettorale, ma ha glissato sui risvolti del voto sulla politica nazionale
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
COMUNQUE LA RIGIRI IN EFFETTI HA VINTO SOLO LUI IN CALABRIA
Il vecchio detto non mente: tra i due litiganti il terzo spesso ne approfitta e ne ottiene un beneficio.
Se Meloni e Salvini non sono stati rivali in questa campagna elettorale poco ci mancava. È chiaro a tutti che i due abbiano condotto non la stessa partita, ma si siano occupati e preoccupati quasi esclusivamente del proprio bacino di voti e di spingere i propri candidati, emanazione diretta del proprio partito.
Soprattutto da quando FdI è diventato la prima forza in Italia, secondo i sondaggi, rosicchiando consensi alla Lega, e da quando Salvini ha iniziato a perdere una dopo l’altra le sue battaglie nella maggioranza, una fra tutte quella sul green pass.
Una danza di incontri mancati, vistose assenze, photo opportunity saltate.
Come un novello Crono Berlusconi, da padre nobile del centrodestra, ha cannibalizzato i suoi “figli” Salvini e Meloni.
Non sorprende che il Cav sia riuscito a prendersi la sua rivincita soprattutto con gli alleati, che di certo non hanno brillato alle urne, anche per via degli scossoni causati dal caso Morisi prima e dall’inchiesta di Fanpage.it ‘Lobby nera’ poi, che hanno agitato non poco gli ultimi giorni di campagna elettorale.
Il candidato espresso da Forza Italia, il capogruppo azzurro alla Camera Roberto Occhiuto, ha fatto incetta di voti in Calabria, Regione che si appresta a governare dopo una vittoria schiacciante.
È vero che la Regione era già azzurra, grazie a Jole Santelli, prematuramente scomparsa, che l’aveva conquistata. Ma Tajani non ha comunque perso tempo mettendo il cappello sul risultato: “Ancora una volta Berlusconi ha dimostrato di sapere scegliere i suoi candidati”.
E di certo non si può dire lo stesso degli uomini lanciati da Meloni e Salvini, rispettivamente Michetti a Roma e Bernardo a Milano: il primo dovrà vedersela al secondo turno, al ballottaggio con Gualtieri; il secondo è stato fermato già al primo turno da Beppe Sala.
Nelle altre grandi città la sconfitta del centrodestra è stata pesantissima: a Bologna il centrosinistra ha vinto al primo turno con Matteo Lepore, a Napoli è arrivato primo Gaetano Manfredi, sostenuto da Pd e M5s.
Nemmeno a Torino il centrodestra ha avuto la meglio: qui l’imprenditore Paolo Damilano – che comunque era un candidato civico vicino alla Lega, ma all’ala più moderata del ministro Giorgetti – è riuscito a strappare il primo posto al candidato di centrisinistra Stefano Lo Russo.
Unica consolazione del centrodestra è Trieste, dove il sindaco uscente Dipiazza (che è di Forza Italia), anche se non vince al primo turno arriva primo e si proietta alla sfida del ballottaggio contro l’uomo del centrosinistra Francesco Russo.
Berlusconi sembrava gongolare già ieri sera, quando davanti al seggio ha violato il silenzio elettorale, di fatto tenendo un comizio per strada alla presenza dei giornalisti. L’ex premier ha mostrato perplessità sulla scelta dei candidati per le amministrative, stroncandoli senza mezzi termini: “I candidati sono candidati che vengono fuori dalle scelte di questo o di quel leader di partito, invece che da scelte democratiche. Quindi forse la prossima volta per quanto riguarda i candidati bisognerà cambiare il sistema”. Tradotto: per Berlusconi sono stati indicati i candidati sbagliati, e i risultati gli confermano che questa volta la colpa non è sua.
La vittoria del Cav è ancora più vistosa, dal momento che le sue condizioni di salute non gli hanno permesso di partecipare fisicamente alla campagna elettorale, ma ha dovuto accontentarsi di seguirla da casa, con collegamenti da remoto.
Un leader che pareva in disarmo, ma che è riuscito lo stesso a imprimere il suo marchio su queste elezioni, arrivando in netto vantaggio rispetto agli altri due partiti in quella che assomiglia sempre di più a una resa dei conti finale nella coalizione.
E ci è arrivato anche giocando sporco, con affondi durissimi, rivolti soprattutto agli altri due leader del centrodestra, come la frecciatina, che non poteva passare inosservata, pronunciata in un colloquio con La Stampa: “Senta, siamo sinceri: ma se Draghi va a fare il presidente della Repubblica poi a chi dà l’incarico di fare il nuovo governo? A Salvini? Alla Meloni? Ma dai, non scherziamo”.
Una dichiarazione che ha innervosito non poco i due alleati, tanto che lo staff azzurro ha smentito non solo la frase, ma ha cercato di ritirare l’intera intervista, sostenendo che quel colloquio fosse frutto della fantasia del direttore Massimo Giannini. Un po’ troppo per risultare credibile.
(da Fanpage)
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Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
SARA’ BALLOTTAGGIO… INTANTO FDI SUPERA LE LEGA IN CADUTA LIBERA
Saranno Stefano Lo Russo, candidato del centrosinistra, e Paolo Damilano,
candidato del centrodestra, i due nomi che si sfideranno al ballottaggio del prossimo 17 e 18 ottobre per la carica di sindaco di Torino.
A scrutinio ancora in corso, è Lo Russo a ottenere oltre il 44% dei voti, con Damilano fermo sotto al 40%. Il risultato è contro i pronostici, che davano invece in testa il candidato del centrodestra. Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, ha superato la Lega di Matteo Salvini per numero di voti ricevuti. Il Partito democratico è il primo partito della città, diversamente da quanto successo cinque anni fa quando per 800 voti fu superato dal Movimento 5 Stelle in corsa con Chiara Appendino. Come a Roma, anche nel capoluogo piemontese l’amministrazione grillina uscente non è riuscita a consolidare le preferenze per il M5s: Valentina Sganga, il nome del Movimento, ha dichiarato che è un risultato «che non soddisfa, ma che è in linea con il trend nazionale». L’affluenza è stata la più bassa della storia recente, al 48,06%.
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
PALAMARA NON VA OLTRE IL 6%, IL PD RICONQUISTA IL SEGGIO DOPO LA SCONFITTA DI QUALCHE ANNO FA
Anche il collegio di Roma-Primavalle per la Camera va al Partito democratico.
Dopo la vittoria a Siena del segretario dem Enrico Letta, nella Capitale è Andrea Casu a ottenere il seggio a Montecitorio conteso anche dall’esordiente in politica Luca Palamara.
Un «risultato straordinario», lo ha definito la presidente del comitato elettorale del candidato a sindaco di centrosinistra Roberto Gualtieri, Beatrice Lorenzin.
«Le forze di centrosinistra si sono unite. Così sarà per Gualtieri che sarà il prossimo sindaco di Roma», ha aggiunto Casu, arrivato al comitato elettorale.
I numeri intanto dicono che ha votato il 44 per cento degli aventi diritto al voto. Casu, di fatto, ha battuto il candidato del centrodestra Pasquale Calzetta e anche l’ex membro del Csm Palamara.
Casu era stato scelto direttamente dal segretario del Pd Enrico Letta (che poco fa ha parlato in conferenza stampa lanciando più di una frecciatina al centrodestra, ndr) per riconquistare il collegio.
Gli ultimi dati parlano del 43,77 per cento dei consensi per Casu quando sono state scrutinate 189 sezioni su 219.
Il candidato del centrodestra, Pasquale Calzetta, invece, si è fermato al secondo posto con il 37,18 per cento dei voti. Palamara, invece, ha raccolto il 5,89 per cento dei consensi, preceduto dal candidato del Partito Comunista, Danilo Ballanti, che ha il 6,7 per cento.
(da Open)
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Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
DODICI PUNTI DI VANTAGGIO PER IL SEGRETARIO DEL PD SUL CANDIDATO SOVRANISTA SCELTO DA SALVINI
Il collegio uninominale di Siena alla Camera dei deputati andrà a Enrico
Letta. Sostituirà Pier Carlo Padoan, che era stato eletto nel collegio Toscana 12 con il Partito democratico nel 2018, ma ha poi lasciato il seggio essendo stato nominato presidente di Unicredit.
Il segretario del Partito democratico ha vinto il seggio vacante contro Tommaso Marrochesi Marzi, sostenuto dal centrodestra, e Marco Rizzo del Partito comunista.
Circa 12 i punti di vantaggio per Letta.
Il collegio di Siena è stato storicamente occupato dal centrosinistra, ma dopo lo scoppio del caso Monte dei Paschi gli equilibri sono cambiati. In altre parole, l’esito non era scontato. Ora la banca sarà assorbita da Unicredit, presieduta proprio da Padoan che in precedenza occupava proprio il collegio di Siena.
Per quanto riguarda gli altri candidati, Tommaso Marrocchesi Marzi, rappresentante della società civile era stato scelto personalmente da Matteo Salvini, che durante la campagna elettorale ha parlato molto della vicenda Monte dei Paschi.
Marco Rizzo, invece, è il segretario del Partito comunista e si era già candidato lo scorso anno alle suppletive della Camera in Lazio per sostituire il commissario europeo Paolo Gentiloni, senza però essere eletto.
Vista la partecipazione del segretario dem, tuttavia, il voto aveva subito preso un sapore nazionale. Letta è sostenuto dal Pd, M5s, Mdp-Articolo 1 e Italia Viva tutti sotto il simbolo “Con Enrico Letta” e senza insegne di partito.
“Sento tutto il peso e la responsabilità di questo impegno. Sono felice del vostro affetto e onorato per la vostra richiesta. Io la voglio fare sul serio questa campagna elettorale, ho iniziato da ragazzo a fare politica così, con un comizio nel comune più piccolo del mio collegio. Voglio una politica popolare, vicina alle persone, che capisca e ascolti i territori”, aveva commentato Letta.
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
IL M5S PERDE DOVE VA DA SOLO, LIMITA I DANNI SE SI ALLEA CON IL CENTROSINISTRA
“I dati non possono compromettere il nuovo corso”, dice Giuseppe Conte mettendo le mani avanti. È la prima tornata elettorale sotto la sua guida, per il Movimento 5 stelle è un bagno di sangue.
A Milano è un testa a testa con il movimento dell’ex Gianluigi Paragone, ma non per il ballottaggio, per un terzo posto su percentuali vicine al 3%.
A Torino, dopo cinque anni di governo, si incassa un misero 8%, a Roma Virginia Raggi rimane fuori dal secondo turno e si contende voto a voto il terzo posto con Carlo Calenda.
“Abbiamo vinto a Napoli”, provano a dire i 5 stelle esultando per Gaetano Manfredi che la spunta al primo turno, ma con l’obiettivo che si erano posti, diventare la prima lista in città, che probabilmente sfumerà alla fine dello spoglio, che li vede crollare dal quasi 40% delle politiche a poco più del 10%.
A Bologna la lista sosteneva la coalizione di centrosinistra ma è ben lontana dalle attese e dalle speranze di incassare un risultato a due cifre, vedendo inchiodati i pentastellati intorno al 4%.
“Siamo morti”, dice un parlamentare raggiunto al telefono, un po’ scherzando ma soprattutto no. Il nuovo corso forse non è compromesso, ma sicuramente parte zavorrato. È uno showdown per il partito di Conte, che vince solo trainato dal Pd e perde clamorosamente dove va da solo, con candidati robustamente identitari come lo sono state Valentina Sganga sotto la Mole ma anche la stessa Raggi.
Al punto che anche i favorevoli all’alleanza oggi si interrogano: ”È vero che vinciamo, ma da partner di minoranza, così finiamo dissanguati”.
Il partito fibrilla, quando a metà pomeriggio arriva una proiezione che vede la sindaca della Capitale in rimonta serpeggia un breve brivido di euforia, che viene stroncato presto dai dati che continuano ad affluire.
Tra i parlamentari è un vespaio. In tanti difendono “i buoni risultati a Napoli e Bologna”, sostengono la linea di Conte che dice che “questo è il tempo della semina per il M5s, siamo appena partiti con il nuovo corso, si è insediato appena prima che si depositassero liste, il nuovo corso non ha potuto dispiegare appieno le sue potenzialità”.
Eufemismo sul quale molti si aggrappano speranzosi, ma che non risolve il tremendo stato di crisi in cui versa il Movimento.
“Forse a questo nuovo corso servirebbe un bel bagno di umiltà”, ragiona un onorevole molto critico ma anche molto preoccupato. Il timore è quello di risolversi ad essere una costola della sinistra, partner fondamentale (spesso) ma minoritario di una coalizione che calza molto stretta a chi ha nel dna il “no alle alleanze”.
Conte fa buon viso a cattivo gioco, spiega ai cronisti che “avevo detto che ci avrei messo la faccia ed eccomi qui”, il volto è teso, e chi ha avuto modo di parlarci spiega che si aspettava qualcosa in più.
Il partito sbanda, c’è chi dice che “un conto sono i like e un conto la vita reale”, chi spiega che “Conte deve fare tanta palestra, non servono i selfie, serve convincere le persone con un progetto credibile”.
L’ex premier è nervoso. Beppe Grillo poco prima che si chiudessero i seggi ha postato una foto con Gianroberto Casaleggio e l’enigmatica didascalia: “Abbiamo fatto l’impossibile ora dobbiamo fare il necessario”.
Alcuni la leggono come la necessità di convivere con una leadership che, non è un mistero, non gli garba fino in fondo, altri proprio come un attacco al nuovo capo, ma un’interpretazione autentica non è dato conoscerla.
Conte risponde quasi stizzito a chi gliela chiede “E che sono io l’interprete dei post di Grillo?”, quasi non c’entrasse niente, quasi a scrollarsi di dosso l’ennesima complicazione di una giornata niente affatto semplice.
Il professore pugliese mette nell’orizzonte i ballottaggi, non scioglie le riserve ma spiega che se appoggio ci sarà, non sarà per i candidati di centrodestra.
Il borsino interno all’entourage del presidente M5s riporta in alto le quotazioni di un sostegno a Roberto Gualtieri a Roma, in forte ribasso quelle di un appoggio al Pd torinese.
Prima ci si dovrà leccare le ferite e capire fino a che punto la leadership contiana esce indebolita dalla sconfitta. La maggioranza dei gruppi parlamentari è ancora con lui, ma il malumore serpeggia sempre più insistente. Whatsapp va down, il chiacchiericcio che stava montando nelle chat si interrompe forzatamente. Conte prende la macchina e se ne va a Napoli, una delle pochissime città in Italia dove stasera può dire di avere vinto. E forse nemmeno del tutto, aspettando i dati definitivi sulle liste dei partiti.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 4th, 2021 Riccardo Fucile
PER IL DIRETTORE DEL GIORNALE IL CENTRODESTRA DEVE TORNARE A GUIDA MODERATA
Augusto Minzolini, direttore del “Giornale e cronista politico di lunga data, Berlusconi al seggio elettorale ha detto che i candidati di centrodestra scelti così non funzionano. E in effetti, Bernardo potrebbe perdere al primo turno e Michetti pare sotto la somma dei partiti che lo sostengono. Colpa della competizione tra Salvini e Meloni?
Vedo un problema di classe dirigente che riguarda tutta la politica. Nel centrodestra è emerso di più in questa campagna elettorale. Anche se non perde in termini di governo delle città principali che oggi non amministra: perde una grande occasione. Quella di evocare un immaginario vincente: Meloni e Salvini accarezzano la prospettiva del voto anticipato sulla base dei sondaggi nazionali, mentre queste amministrative dimostrano che la strada è ben più complicata.
I leader di Lega e FdI si sono elisi a vicenda, troppo presi dalla gara per la futura premiership? E tra i due litiganti eccetera eccetera?
Penso che il punto sia un altro: bisognava dare all’elettorato di centrodestra qualcosa che invece è mancato. Se si sceglie un civico deve essere rappresentativo. Mi riferisco soprattutto a Milano: Sala è sindaco uscente e ci è arrivato sulla scorta dell’Expo. Bernardo ha un profilo che non è stato in grado di intercettare tutti.
Qual è il profilo giusto per un candidato di centrodestra ?
Giorgetti su Roma ha lodato Calenda, considerando possibile il suo approdo al ballottaggio. E pensare che Calenda quando il centrodestra si apprestava a scegliere il candidato per il Campidoglio aveva fatto un endorsement per Bertolaso. Penso poi a Reagan e Clinton negli Usa: servono figure che fanno presa anche nell’elettorato avversario. Capaci di compattare tutti i propri elettori e di pescare pezzi degli elettori altrui. Personaggi di confine e trasversali.
Esponenti di quel centro liberale e cristiano, che Berlusconi considera perno del centrodestra come ha ribadito proprio sul “Giornale” alla vigilia del voto?
Sì, in un sistema bipolare è il segmento di confine che determina la vittoria. Altrimenti il rischio è di mantenere solo l’elettorato più fidelizzato, in una sorta di “sindrome Le Pen”. In un sistema a doppio turno un aspirante sindaco deve avere una capacità di coalizione “successiva”, ovvero essere aggregante con altre liste, partiti, movimenti civici affini. Ed è ovvio che queste caratteristiche si attagliano a un profilo moderato, centrista.
A uscire sconfitta è la linea politica sovranista e anti-draghiana?
Se Salvini ha scelto di far parte del governo Draghi poi deve essere coerente, altrimenti sconfessa lui stesso il suo atto di coraggio. Il Pd all’inizio era attestato sulla linea dell’ “o Conte o morte” e ha quasi subìto il governo Draghi, ora invece se lo è intestato. E chi come Salvini si è esposto non riesce a capitalizzare il risultato.
Meloni ci riesce meglio?
Lo dico da subito: FdI doveva entrare nel governo per legittimarsi. Non so se la vicenda del video di Fanpage abbia influito o meno sul voto, ma se Meloni fosse stata nella maggioranza l’effetto sarebbe stato ridimensionato.
Per il futuro prossimo, scommetterebbe sulla federazione estesa a Fdi o piuttosto sulla nascita di un centro forte con Berlusconi, Calenda, Renzi e magari Giorgetti?
A mio avviso, la coalizione di centrodestra ha alla base un meccanismo unitario più forte, coerente e convinto di quello che è stato messo sul palcoscenico. Ma la prossima e decisiva battaglia sarà quella per il Quirinale: se ogni partito andrà per conto suo, allora dovrà farsi delle domande. Per la prima volta, sia numericamente che politicamente, il centrodestra ha la possibilità di dare le carte per l’elezione del presidente della Repubblica. E questa è un’occasione che non può perdere.
Da cronista, cosa ha pensato vedendo Berlusconi al seggio, dopo mesi di assenza, che promette di tornare a Roma a fare politica?
Bisogna guardare le immagini: si capisce che sta bene, è di buon umore, volitivo. Ma poi è evidente che quanto sta accedendo in queste comunali valorizza l’area di Forza Italia. A prescindere persino dai sondaggi: che sia al 6 o al 10%, è un segmento fondamentale nella politica e nella società. In fondo, il bipolarismo italiano finora è stato incentrato su due figure moderate e cattoliche: Berlusconi e Prodi.
Chi salirà sul Colle?
La mia tesi è sempre stata che per Draghi il governo sia propedeutico al Quirinale, da dove vigilerebbe come “garante” sull’attuazione del Pnrr. Ma non so se ci riuscirà: tra la fragilità dei partiti, la disgregazione del M5S che sta emergendo, e la voglia di molti parlamentari di maturare la pensione, la bussola mi sembra quella di evitare il voto anticipato. Senza Draghi a Palazzo Chigi, però, questo auspicio sarebbe di difficile realizzazione.
(da Huffingtonpost)
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