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ALLARME OMS SU TERAPIE INTENSIVE IN EUROPA: “VERSO 2 MILIONI DI MORTI ENTRO MARZO”

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

PER INVERTIRE QUESTA TENDENZA SONO NECESSARI VACCINI E TERZE DOSI

“Possiamo prevedere che ci sarà una pressione elevata o estrema sui posti letto negli ospedali in 25 Paesi europei e una pressione elevata o estrema sulle unità di terapia intensiva in 49 dei 53 Paesi fra ora e il 1 marzo 2022”. È l’allarme lanciato dall’Oms che, entro marzo del 2022, prevede che ci saranno due milioni di morti in totale per il coronavirus in Europa se non ci saranno interventi immediati.
“La regione europea resta nella morsa della pandemia. La scorsa settimana le morti attribuite al Covid sono aumentate di 4.200 al giorno, raddoppiando la cifra di 2.100 al giorno della fine di settembre. Oggi il Covid è la prima causa di morte in Europa e Asia centrale”, scrive ancora l’organizzazione in una nota. Per invertire questa tendenza, e per poter “convivere con il virus” è necessario assumere un approccio “vaccino più”, cioè assumere i vaccini standard e il booster.
L’Oms consiglia anche di “incorporare le misure di precauzione nelle nostre abitudini quotidiane”, indossando la mascherina, lavandosi le mani, ventilando gli spazi chiusi, mantenendo il distanziamento sociale e starnutendo nell’incavo del gomito.
Fra le cause del recente aumento dell’incidenza del Covid-19 in Europa, l’Oms europea ne ipotizza tre: la prevalenza della variante Delta, molto più contagiosa; l’indicazione prevalente in alcuni Paesi secondo cui l’emergenza è alle spalle e si può soprassedere alle misure di cautela e, infine, la presenza di fasce della popolazione non ancora vaccinate, che riducono la tutela e lasciano molte persone vulnerabili.
E il Vecchio Continente già soffre. “In alcune regioni della Germania la situazione è drammatica. Dobbiamo trasferire i pazienti, le unità di terapia intensiva sono piene”: sono le parole pronunciate dal ministro della Salute tedesco Jens Spahn in un’intervista a Deutschlandfunk. “I pazienti che hanno un infarto o le vittime di un incidente in queste zone possono avere molta difficoltà a ricevere buone cure”, ha aggiunto. Al momento, i posti liberi in terapia intensiva a Berlino sono l′8,1%, in Sassonia l′8,8% e il 9,4% in Baviera.
Da ieri, 22 novembre, la vicina Austria è in lockdown per contrastare la quarta ondata. Una prima valutazione sugli effetti della chiusura verrà effettuata dopo 10 giorni. Non è escluso che la misura possa essere prorogata alla scadenza delle 3 settimane se la situazione dei contagi non migliorasse e se i reparti di terapia intensiva, ora al limite della capacità, non riusciranno a liberare letti. Secondo gli ultimi dati in Austria l’incidenza è arrivata a 1.000 casi ogni 100mila abitanti.
Ma chi sono i ricoverati nei reparti di terapia intensiva? Il Covid-19 “non è più una malattia” grave per i vaccinati. Lo afferma il professor Andrew Pollard, cattedratico d’immunologia all’università di Oxford e padre, assieme alla collega Sarah Gilbert, del primo vaccino anti-Covid al mondo: quello prodotto da AstraZeneca. In un articolo scritto per il Guardian, Pollard commenta gli ultimi dati aggiornati che confermano come – nel Regno Unito e in altri Paesi – la maggioranza dei ricoveri ospedalieri attuali per Covid e la quasi totalità di quelli in terapia intensiva sia formata da persone non vaccinate. “L’orrore” dei sintomi più seri, della fame d’aria che costringe alcuni pazienti a dover ricorrere tuttora alle macchine per la respirazione assistita, è adesso “largamente limitata” a chi non si è fatto vaccinare, ha rilevato l’accademico britannico.
Per tutti gli altri, l’infezione – anche nella versione più trasmissibile alimentata dalla variante Delta – si è invece ridotta a “sintomi leggeri”, a “poco più di uno spiacevole disturbo” passeggero, gli ha fatto eco Ben Angus, professore di malattie infettive nello stesso ateneo di Oxford. Secondo Angus, del resto, la stessa ondata di nuovi contagi che sta investendo in queste settimane diversi Paesi dell’Europa continentale appare destinata ora a “tradursi direttamente” in una sostanziale pandemia di “non vaccinati”: persone alle quali – raccomanda – occorrerebbe somministrare quanto prima a scopo preventivo “la prima e la seconda dose” vaccinale. Con la terza di rinforzo, suggerita a distanza di 5-6 mesi dalla seconda a iniziare dalle fasce d’età più mature e dai vulnerabili.
Evidenze che fanno riflettere se si considera che in Paesi come la Bulgaria i vaccinati sono solo il 29%. Non è un caso che il territorio sia anche quello col maggior numero di decessi per milione di abitanti: 325 in 14 giorni. Fanalino di coda in Unione Europea anche la Romania, 43% di immunizzati e 267 morti per milione di abitanti; e la Slovacchia, 54% e 29 decessi. Sono i dati della Commissione europea, rilanciati dal portavoce alla Salute, Stefan De Keersmaecker, sul suo profilo Twitter.
Con l′82% di adulti ad aver ricevuto entrambe gli shot e 9 morti per milione di abitanti, l’Italia si trova nella fascia medio-alta. Poco al di sotto si trovano la Francia 81% e 7 morti, e la Germania 81% e 20 decessi. Poco al di sopra invece la Svezia, 83%, 3 decessi; la Finlandia 83%, 7 morti; e la Spagna 84%, 4 decessi. Il Paese dell’Unione con più vaccinati è l’Irlanda, 93% con 15 decessi per milione di cittadini, seguito a poca distanza da Portogallo, 92%, 10 morti; e Malta 92% che fa registrare zero morti.
(da agenzie)

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35 CROLLI IN 6 MESI: LA SCUOLA ITALIANA A PEZZI

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

LA MESSA IN SICUREZZA ARRANCA, IN PIEMONTE E LIGURIA GLI EDIFICI PIU’ A RISCHIO

Si dice spesso che il futuro è nelle mani dei giovani studenti ma poi puntualmente ci si dimentica della loro sicurezza. A lanciare l’allarme è Cittadinanzattiva, in occasione della Giornata nazionale della sicurezza nelle scuole, secondo cui “la necessità di adeguare” gli istituti “dal punto di vista della sicurezza strutturale resta un’emergenza per il nostro Paese, così come occorre continuare a tenere alta l’attenzione e l’informazione sulla prevenzione dei rischi, ben oltre la pandemia”.
Un tema delicato che dovrebbe essere in cima alla lista delle cose da fare da parte della politica ma che, incredibilmente, torna in auge solo durante le ricorrenze o, peggio, quando si verifica un disastro.
Sfortunatamente quest’ultima eventualità è tutt’altro che remota tanto che nel report (qui il focus) si legge che sono “trentacinque gli episodi di crolli che si sono verificati a scuola fra settembre 2020 ed agosto 2021, circa tre al mese” e che “in due settimane, fra fine ottobre e l’11 novembre, ci sono stati altri 6 casi”.
Soltanto guardando a quest’ultimi casi si può capire la gravità della situazione in quanto: sono 29 le aule inagibili e 500 gli studenti in didattica a distanza nel Liceo Boggio Lera di Catania dove, il 10 novembre, è crollato il tetto a causa delle abbondanti piogge; lo stesso giorno un crollo è avvenuto nella palestra della scuola media Staffetti di Massa; l’Istituto comprensivo di Torre del Greco è chiuso fino al 19 novembre a causa di parziali ed improvvisi crolli di intonaco nei corridoi; il 5 novembre a Rodigo, in provincia di Mantova, è crollato il controsoffitto in un’aula della scuola primaria”. Gli ultimi due episodi, invece, sono avvenuti: “il 3 novembre in cinque delle sei classi del Plesso Don Milani di Paternò (PA) dove si sono verificati crolli nel controsoffitto a causa delle piogge; a fine ottobre nel quartiere Librino di Catania, è crollato parte del muro di sostegno che circonda il plesso scolastico Fontarossa.
Purtroppo i dati sullo stato degli edifici in cui si formano i giovani sono terrificanti. Stando al report più della metà degli istituti scolastici “è privo del certificato di agibilità statica (54%) e di quello di prevenzione incendi (59%); il 39% è senza collaudo statico”. Inoltre “sono 17.343, pari al 43% del totale, le scuole in zone ad elevata sismicità e 1.983 (4,9%) si trovano in una zona soggetta a vincoli idrogeologici”. Come se non bastasse, “il 18% circa è da considerarsi un istituto vetusto (con più di 50 anni) e questo dato si concentra soprattutto in Piemonte e Liguria dove ben 4 edifici su 10 sono vetusti”.
A fronte di questa situazione disastrosa, aggravata dalla pandemia che ha travolto l’Italia, la politica sembra fare ancora troppo poco. Per questo Cittadinanzattiva, l’Associazione nazionale presidi e la Protezione civile hanno lanciato un’ indagine “Sicurezza, qualità, benessere a scuola in epoca Covid 19”, rivolta ai dirigenti scolastici degli istituti di ogni ordine e grado, per fotografare lo stato della sicurezza delle scuole così come previsto dalle norme vigenti.
(da La Notizia)

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I CENTO ANNI DI FRED BUSCAGLIONE, TRA PUPE, WHISKY E PISTOLE CHE FANNO BANG

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

FU UN CANTANTE IRONICO E IRRIVERENTE: UN INCIDENTE STRADALE SPEZZO’ LA SUA VITA ALLA SOGLIA DEI 40 ANNI

Il 3 febbraio del 1960 il giornale radio del mattino annunciò la morte di Fred Buscaglione, avvenuta a Roma, all’alba, in seguito ad un incidente stradale, mentre si trovava a bordo della sua auto americana, una Tunderbird color rosa.
Qualcuno pensò a una trovata pubblicitaria, dato che Buscaglione stava girando un film che doveva intitolarsi “A qualcuno piace Fred”, ambientato nel mondo di improbabili gangster, di avvenenti pupe facili, di whisky bevuto in quantità industriali, di pistole che facevano “bang”, di inseguimenti con auto di grossa cilindrata…
Ma soprattutto perché Fred Buscaglione aveva abituato tutti a scherzare proprio con le pistole, a morire in scena e a rialzarsi dopo la fine di una canzone.
Quel cantante dal baffo alla Clarck Gable e dal fisico alla James Cagney, andava all’altro mondo quasi ogni giorno, interpretando in televisione i suoi singolari e parodistici personaggi: gangster col vestito gessato che scambiavano l’anonima assassini per l’anonima cretini, amanti sbruffoni che cadevano sotto le sventole di un “mammifero” modello 103, un suo modo originale per definire una bella donna; guardaspalle con il pugno da un quintale che affrontano killer che si chiamano Billy Carr e si incontrano al Roxy Bar.
Insomma, Fred era il protagonista di un mondo improbabile e paradossale e forse per questo la notizia della sua scomparsa sembrò altrettanto improbabile e paradossale
Ferdinando Buscaglione era nato a Torino il 23 novembre 1921, quando l’Italia e Torino sono percorsi da grandi fremiti. La fine della prima guerra mondiale ha portato nuove spinte sociali e rivendicazioni radicali: nel 1920 l’occupazione delle fabbriche ha portato la città all’attenzione di tutti, a Livorno è nato il Partito Comunista, proprio mentre è in gestazione la marcia su Roma che porterà Mussolini al potere
La famiglia di Fred è povera. Il padre è verniciatore, la madre portinaia con un passato di pianista. Per arrotondare, la madre insegna il piano ai bambini nella guardiola della portineria. Fred ascolta musica ogni giorno e gli entra nel sangue. Per questo i genitori, a costo di grandissimi sacrifici, decidono che andrà al conservatorio. Studierà violino, che è lo strumento principe dell’orchestra sinfonica.
A 11 anni l’ingresso nel sontuoso palazzo della musica, il Conservatorio Verdi, dove Ferdinando studia violino e si impossessa di quei rudimenti che lo porteranno anche a pizzicare il contrabbasso, a soffiare in una tromba, a pestare sul pianoforte.
Ma per poco, perché a 15 anni è già fuori e alla ricerca di qualche orchestrina in cui suonare.
La guerra e l’arrivo degli americani con i loro ritmi, il loro jazz danno una svolta alla musica leggera italiana. Per Fred è una vera e propria folgorazione. Ma dopo alcuni anni di gioiosa anarchia musicale, in Italia è tempo di restaurazione perché si torna alla canzone melodica, alle mamme in lacrime, agli amanti sospirosi e quindi lo spazio per l’ironia, ma anche per i sapori musicali d’oltre oceano, si restringe a vista d’occhio.
E’ in queste contraddizioni che Fred Buscaglione si trova a vivere da musicista che ama il jazz e che vorrebbe cantare storie nuove.
L’incontro con Leo Chiosso, anche lui appassionato di jazz, sarà fondamentale per Fred. Chiosso e Buscaglione si sono conosciuti casualmente ma se Chiosso apprezza di Buscaglione la musicalità particolare, Buscaglione apprezza di Chiosso quel modo di scrivere storie che sembrano richiamarsi al mondo dello scrittore americano Damon Runyon, l’autore di Bulli e Pupe.
Il grande successo arriva con Che bambola, o Eri piccola, dove le donne “hanno più curve di una strada di montagna”; o Teresa non sparare, dove le avventure extraconiugali diventano cronaca di ogni giorno e vengono risolte a colpi di fucile. Visto il successo, la TV deve aprire le porte a questo singolare personaggio di cui il cinema si è già accorto.
Ma alle soglie dei 40 anni, quando il successo sta oramai diventando travolgente, l’incidente mette la parola fine alla straordinaria carriera di Ferdinando Buscaglione, detto Fred.
(da Fanpage)

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RUMORS SU TRASLOCO DI VESPA A MEDIASET. LA VERA TRATTATIVA E’ SUI SOLDI

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

AL GIORNALISTA RAI SCADE IL CONTRATTO E LA CONCORRENZA SPINGE IL COMPENSO

Dopo sessant’anni e un contratto faraonico, l’epoca di Bruno Vespa alla Rai sarebbe al capolinea.
Questo almeno è quanto trapela in queste ore dopo la notizia della presunta trattativa “segreta” tra il dominus dell’intrattenimento politico dell’ammiraglia del servizio pubblico e la Mediaset di Silvio Berlusconi.
Un tradimento per il quale molti gridano allo scandalo mentre altri sembrano addirittura pronti a stracciarsi le vesti. Peccato che le cose potrebbero non essere affatto come raccontato dai media che hanno descritto il tutto come una sorta di calciomercato, declinato per il piccolo schermo.
Allo stato attuale l’eventuale cambio di casacca, da Rai a Mediaset, sembra più una manovra di fanta-mercato per farsi apprezzare da chi già lo ha a libro paga, ossia il servizio pubblico, e spuntare un contratto migliore piuttosto che per passare alla concorrenza. Una notizia che, però, non trova conferme a piazza Mazzini tanto che dal consiglio di amministrazione filtra stupore.
Che le cose starebbero così lo si può percepire da alcune indiscrezioni come anche dall’analisi, pura e semplice, dei fatti. In primo luogo c’è da notare come gli ultimi rinnovi contrattuali tra il giornalista e il servizio pubblico radiotelevisivo sono sempre stati tutt’altro che semplici e hanno dato il via a furibonde polemiche.
Riavvolgendo il nastro del tempo al 2017 Mario Orfeo, all’epoca direttore generale Rai, gli abbassò il compenso di circa 300 mila euro riducendo anche la durata del contratto a due anni più l’opzione per un terzo ma solo a eventuale richiesta della Rai mentre Vespa sperava di spuntare un quadriennale
Due anni dopo, la situazione non cambia e la stretta viene confermata anche dall’ex ad Fabrizio Salini. Così quando il tema del rinnovo contrattuale con la Rai sta per tornare all’ordine del giorno, curiosamente ecco spuntare il corteggiamento di Mediaset. Insomma una tempistica sospetta.
Cosa ancor più strana è che la trattativa viene definita da tutti come “segreta” al punto che ne sarebbero a conoscenza solo il trio Berlusconi, Fedele Confalonieri e Gianni Letta, più un ristrettissimo – e fidato – gruppo di dirigenti.
Malgrado tutte queste premure, la cosa sarebbe comunque trapelata e nessuno l’ha smentita. Anzi, alla faccia della segretezza, le reti del Cavaliere hanno ammesso che “ci sono stati contatti” – ovviamente senza specificare se recenti o meno – e perfino Vespa è rimasto sul vago dicendo che “finché mi trattano bene in Rai, resto” aggiungendo sibillino che comunque “a Mediaset sono molto gentili”.
Se il passaggio di Vespa a Mediaset si concretizzerà o se è stata tutta una manovra per spuntare un contratto migliore, sarà il tempo a dirlo. Quel che è certo è che quando uno dei big del servizio pubblico arriva in scadenza, si solleva un polverone mediatico tra presunte trattative con reti avversarie o in cui il protagonista di turno solleva questioni e lamentele di ogni tipo. Lo abbiamo già visto nel caso di Fabio Fazio che, anni fa, è finito al centro delle polemiche per via del suo maxi stipendio che alla Rai in molti volevano rivedere al ribasso.
In quell’occasione anche il conduttore di Che tempo che fa aveva sbandierato un suo possibile passaggio alla concorrenza, senza mai svelare a quale rete, dando una sorta di ultimatum alla Rai. Parole che alla fine hanno piegato le resistenze all’interno del servizio pubblico che, temendo di perdere il noto conduttore, hanno finito per fare tutto il possibile per accontentarlo. Una storia che sembra potersi ripetere anche nel caso di Vespa.
(da agenzie)

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IL NO VAX CHE HA DATO UNA TESTATA ALLA LUCARELLI ORA FA IL PENTITO: “SE MI DENUNCIA FA BENE”

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

CE NE FOSSE MAI UNO, TRA QUESTI EROI CHE COMBATTONO LA “DITTATURA”, CHE NON CHIEDA SCUSA DOPO ESSERE STATO IDENTIFICATO

Roberto Di Blasio, il pugile che ha sferrato una testata a Selvaggia Lucarelli, si è scusato. In un’intervista rilasciata a Domani il ‘no green pass’ ha dichiarato: “Se l’avessi riconosciuta me ne sarei andato, perché non accetto provocazioni. È stato un lapsus (raptus, ndr), sono dispiaciuto, non è nella mia indole. A sessant’anni che mi metto a fare…  Se avessi la possibilità di incontrarla le chiederei scusa. Se mi denuncia, ha ragione. Io sono stato uno dei primi a essere ricoverato. Non sono un no vax, va bene il vaccino, va bene il green pass. Prendo gli anticoagulanti, ho paura”. Secondo Di Blasio “io il sabato sera sto tranquillo a casa. Invece sabato sono andato al Circo Massimo. Ho visto gente di Forza Nuova, e mi sono detto: qui ci scappano le botte. Poi ho sentito “giornalista terrorista” e mi sono fermato a vedere con chi ce l’avevano. Ho visto che mi metteva il telefono davanti, volevo levarle  il telefonino, volevo dare una manata e invece ho dato una capocciata. Adesso mi rendo conto che potevo farle male”.
Selvaggia Lucarelli è stata aggredita alla manifestazione dei no green pass che si è tenuta sabato al Circo Massimo a Roma. La giornalista ha pubblicato una clip in cui si vede Di Blasio che le sferra una testata: “Ieri sono andata al Circo Massimo per la manifestazione no vax con cappello, occhiali, mascherina. Nessuno sapeva chi fossi. Per il solo fatto di chiedere ‘perché è qui oggi?’ sono stata aggredita in ogni modo possibile (denuncerò)”.
Chi è Roberto Di Blasio
Roberto Di Blasio è un ex pugile e insegnante di pugliato. Attualmente lavora in una palestra di Manziana, paese nei pressi del lago di Bracciano a nord di Roma. Ha partecipato a diverse manifestazioni ‘no vax’ e ‘no green pass’. Stando a quanto si apprende, l’uomo era stato denunciato a piede libero dai carabinieri della stazione di Manziana per aver violato la quarantena. Il 40enne residente a Canale Monteranno sarebbe uscito di casa per fare la spesa in un negozio e avrebbe per questo violato l’obbligo di quarantena.
(da Fanpage)

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SELVAGGIA LUCARELLI: “VIOLENZA NO VAX, PERCHE’ LE FORZE DELL’ORDINE NON HANNO DIFESO I GIORNALISTI IN PIAZZA?”

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

IN TUTTO IL PERIMETRO DEL CIRCO MASSIMO NON C’ERA UNA UNIFORME… LA TEORIA ALLLUCINANTE CHE LE FORZE DELL’ORDINE DEVONO STARE LONTANE PER “NON PROVOCARE DISORDINI”

Pensavo alla storia del Circo Massimo, a quanta vita è passata di lì, alle gare tra quadrighe, alle feste dedicate agli dei, e poi i raduni politici, i mercati, le naumachie, i gladiatori, le mostre, le feste dello scudetto, i concerti.
Finché un giorno, quel prato calpestato dalla storia, è diventato il luogo in cui si incontrano violenti, frustrati, ignoranti, egoisti, disinformati, arroganti e opportunisti, tutti sotto un’unica bandiera: quella di chi cerca un posto nel mondo.
Che poi sia il posto di chi crede che i poteri forti ci stiano iniettando grafene, il ferromagnetismo orbitale ci attirerà ai confini della terra che è ovviamente piatta e oltre le colonne d’Ercole c’è solo Davide Barillari, poco conta.
I “no- tutto” sentono finalmente di esistere in funzione del continuo, petulante, irragionevole no a qualsiasi cosa. «É inutile che insistete, che volete da noi, noi non ci vaccineremo mai, noi combatteremo fino alla morte per il nostro diritto, il diritto di fare quel che cazzo ci pare!», mi ha detto sabato uno di loro al circo Massimo, poco prima della testata del gladiatore di Manziana, Roberto Di Blasio. E quello, forse, tra i tanti momenti “lunari” della giornata, è stato l’unico autentico.
Quell’uomo mi stava spiegando con rara efficacia questo passaggio della storia. Perché dopo averli visti così da vicino, posso affermare con certezza che qualsiasi tentativo di persuasione a vaccinarsi, con questi individui, avrebbe le stesse percentuali di successo di un invito alla finale regionale di pole dance per Mario Draghi.
Dunque, i problemi da risolvere sono proprio la testata, gli insulti, le frasi sessiste, l’atteggiamento intimidatorio, le minacce, l’arroganza di questa gente.
Questi raduni feroci e sconclusionati, che servono solo ad ammantare di senso e lotta politica delle sgangherate gite fuori porta di compagni di scuola troppo cresciuti e troppo assenti a tutte le lezioni, da quelle di italiano a quelle di storia.
Sabato pomeriggio, in assenza di psicologi e fini persuasori che avessero tempo da perdere con questi individui, mi aspettavo almeno di poter contare sulle forze dell’ordine. Le ho cercate più volte, al Circo Massimo, dopo la testata, prima della testata, mentre ero accerchiata da decine di persone che mi urlavano “terrorista”, “infame”, “ammazzati”, quando due energumeni mi inseguivano, quando mi minacciavano di spaccarmi la faccia.
E non c’ero solo io, a fare il mio lavoro. C’erano molti giornalisti di varie testate, forse più al sicuro perché una donna con un telefonino deve aver suggerito meno prudenza nell’esporsi e nell’aggredire di un uomo accompagnato da un operatore con una camera a spalla.
Non ho potuto contare su nessuno.
SENZA TUTELE
I giornalisti, noto bersaglio dei novelli gladiatori più da circo che da Circo Massimo, erano abbandonati al loro destino. Nonostante i precedenti, nonostante il clima, nonostante le liste di proscrizione su Telegram. «Vieni qui. Ti aspettiamo!», mi urlava qualcuno dal palco, dopo che alla fine sono stata identificata.
In tutto il perimetro del Circo Massimo non c’era un uniforme, un volto rassicurante, un appiglio. E dunque, una volta abbandonata l’area e attraversata la strada che mi separava dall’inizio di via dei Cerchi, ho raggiunto i poliziotti lì fermi e senza alcuna possibilità di vedere la spianata del Circo Massimo
«Sono stata aggredita, i giornalisti rischiano molto laggiù, perché non andate nella spianata?», ho chiesto. «Noi non ci possiamo avvicinare alla piazza per non provocare disordini», mi è stato risposto. E ancora: «Il personale in uniforme non si può avvicinare a meno che non ci sia un ordine diretto».
Dunque, il no green pass non va innervosito, povera stellina. I poliziotti non gli devono rovinare la festa con quelle brutte divise che evocano regole e dittature. Resta solo da capire perché ci ostiniamo ancora a chiamarle forze dell’ordine, se la loro presenza crea disordine. Potremmo ribattezzarle forze del disordine oppure che so, emissari del caos.
Ma soprattutto, resta da capire cosa aspetti la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese a comprendere che quel famoso “bilanciamento dei diritti” tra l’ordine pubblico e il diritto di manifestare, dovrebbe includere anche quello dei giornalisti di documentare in sicurezza.
A meno che qualcuno non abbia deciso che debba accadere qualcosa di così grave da rendere poi legittima una decisone più drastica. Nel frattempo, i no pass alzano l’asticella della violenza, i giornalisti cercano di salvare almeno quella degli occhiali.
(da editorialedomani.it)

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I TAMPONI RAPIDI NON BASTANO PIU’ MA I MOLECOLARI SPAVENTANO I NO VAX: 50 EURO A TEST E POCHE STRUTTURE

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

I TEST ANTIGENICI NON GARANTISCONO ATTENDIBILITA’, PER QUESTO IL GOVERNO PENSA DI ABOLIRLI, MA C’E’ UN PROBLEMA

Dopo quasi due anni di pandemia ormai è chiaro, il miglior modo per frenare la corsa del virus è anticiparlo.
Stanarlo o come si direbbe meglio in gergo, “tracciarlo”, prima che abbia tutto il tempo di replicarsi da un organismo a un altro e magari anche di mutare in varianti più pericolose. In piena quarta ondata e con l’inverno alle porte, tamponare il numero maggiore di persone e casi sospetti si fa fondamentale, soprattutto se la popolazione non è ancora completamente immunizzata.
Il lavoro di squadra tra vaccini anti Covid e test appare ora centrale a meno di decisioni da parte del governo che non siano ancora più drastiche. Si parla di G2, e cioè di un Green pass che elimini l’opzione dei tamponi. Ma mentre nei palazzi si discute ancora sul da farsi, la variante Delta corre veloce e spinge ad attrezzarsi con quello che si ha.
«Con il virus originario di Wuhan un positivo ne infettava al massimo 2, con la Delta i contagi arrivano a 6-7 persone, con un indice di contagiosità maggiore del 15-20%. Per queste ragioni non possiamo più permetterci il rischio dei falsi negativi dati dai tamponi antigenici », spiega il consulente del ministro della Salute Speranza, il professor Walter Ricciardi.
Alla luce di questi dati la domanda è su quanto i tamponi antigenici rapidi siano davvero un’arma efficace per questo inverno e quanto siano in grado di tracciare una variante del virus così potente. L’ultimo allarme dei presidi nelle scuole è piuttosto indicativo: per risultati sbagliati dei test antigenici oltre 150 classi sono attualmente in quarantena con 1.500 ore di lezione perse.
«Si usino solo i molecolari», dicono. La risposta degli esperti poi non incoraggia: «Sappiamo che il test antigenico è meno attendibile di quello molecolare: il 60-65% dell’attendibilità contro il 99%. Significa che un terzo degli infetti non viene intercettato», spiega il membro del Comitato tecnico scientifico e immunologo Sergio Abrignani. Una differenza di efficacia che in piena quarta ondata risulta rischiosa. Ogni falso positivo è in grado di dare via a un cluster ancora più pericoloso. Dunque cosa fare? Molecolari per tutti?
I problemi
Chi paga 50 euro a test?
Gli scettici del vaccino non hanno al momento scelta: a lavoro e nella maggior parte dei posti di svago si entra con Green pass. E a meno che non abbiano già contratto il virus e siano guariti, l’unica strada per loro rimane il tampone. Attualmente il test antigenico rapido, valido entro 48 ore dall’esecuzione, (ma il governo pensa a una riduzione a 24) può essere fatto in farmacia e negli ambulatori al prezzo di 15 euro. Se per proteggersi dalla Delta si dovesse decidere di abbandonare questa tipologia di tampone e scegliere unicamente il molecolare, la spesa media ogni 72 ore (ma il governo pensa a una riduzione a 48) sarebbe di 50 euro. Una bella differenza che al momento peserebbe sulle tasche dei No vax.
Tempi troppo lunghi
Il tampone molecolare garantisce un’efficacia di tracciamento del virus al 90%. Un enorme vantaggio per il tentativo di arginare in tempo la diffusione veloce sul territorio nazionale e individuare con sicurezza i contatti stretti di un positivo colpiti dall’infezione. Il problema però sono i tempi. A differenza del rapido, il cui esito è ottenibile anche entro un quarto d’ora dall’esecuzione, il test molecolare richiede un iter di elaborazione molto più lungo, che in genere richiede almeno le 24 ore. Tempistiche che risulterebbero poco fattibili soprattutto per quei test utili per l’ingresso quotidiano a lavoro.
Troppe poche strutture
Negli ultimi mesi No vax e non vaccinati in generale hanno trovato nelle farmacie il posto più comodo e immediato per eseguire i loro tamponi ogni 48 o 72 ore. Se i test rapidi venissero completamente eliminati, la capillarità garantita dalla farmacie verrebbe meno lasciando il posto a un problema di strutture e numero di laboratori in grado di affrontare una richiesta così alta di molecolari.
Troppi test da fare
Attualmente in Italia si eseguono circa 600-700 mila tamponi al giorno tra rapidi e molecolari. All’interno del totale la differenza di numero tra le due tipologie però è netta. Basti pensare che negli ultimi 7 giorni su territorio nazionale si sono contati 3,7 milioni di tamponi in tutto di cui 2,7 milioni di antigenici rapidi e solo 1 milione di molecolari.
Una differenza che sta anche nell’efficacia di tracciamento: il tasso di positività rilevato dai molecolari si è attestato al 6,04%, quello degli antigenici allo 0,25%. Il gap è spiegato sia dalla differente efficacia di rilevamento sia dall’utilizzo attuale delle due tipologie.
Spesso si ricorre ai molecolari per casi già fortemente sospetti nella sintomatologia, i rapidi sono la scelta più frequente per tutti coloro che vogliono il Green pass. Alla luce di questi numeri, eliminare di colpo l’utilizzo dei test antigenici rapidi significherebbe per tutti i motivi finora spiegati provocare un evidente blocco al sistema di tracciamento italiano.
Chi entra in Italia con altre regole
L’idea di eliminare i test rapidi sarebbe per l’Italia una decisione piuttosto forte anche rispetto a una politica di azione condivisa con il resto d’Europa. In tutti gli altri Paesi l’antigenico rapido è un tampone ritenuto valido: per questo si potrebbe continuare ad entrare tranquillamente in Italia con Green pass da esito negativo di test antigenico.
E ancora uno straniero potrebbe accedere a tutti i luoghi di svago e alle attività sociali. Stesso problema si verificherebbe con la questione dei tempi di validità: se l’Italia dovesse ridurre a 24 ore il tempo massimo in cui un test rapido continua a valere come “patente” di negatività al virus, andrebbe a scontrarsi con le tempistiche più ampie dei Paesi esteri. Insomma si continuerebbe a entrare in Italia con modalità che ai cittadini italiani risultano vietate.
(da agenzie)

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FEMMINICIDI, TRA ERRORI DELLA POLIZIA E ATTENUANTI DEI GIUDICI, LE DONNE NON SONO PROTETTE DALL’ORDINAMENTO ITALIANO

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

MINIMIZZAZIONI DELLE RICHIESTE DI AIUTO E FACILE CONCESSIONE DELLE ATTENUANTI

I dati sui femminicidi, in Italia, restituiscono la fotografia di un Paese in cui le donne non sono ancora sufficientemente tutelate dall’ordinamento. Ma, soprattutto, il rapporto della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio – che Open ha potuto visionare -, ha rilevato come leggi e sentenze fatichino a stare al passo con le urgenze imposte dalla violenza di genere.
La relazione della Commissione – che sarà presentata il 24 novembre, alla vigilia della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – ha preso in esame 211 procedimenti penali di uccisione di donne da parte di uomini nel biennio 2017-2018.
La prima evidenza, di tipo anagrafico, racconta che l’età media di vittime e autori dell’omicidio è molto simile: la prima è pari a 51,5 anni, la seconda a 52,5.
Anche per quanto riguarda la cittadinanza delle due categorie non si ravvisano particolari differenze: il 78% delle vittime è italiana, così come il 78,1% degli autori. In generale, l’83,9% dei femminicidi è stato commesso da un autore che ha la stessa cittadinanza della vittima.
Buona parte del rapporto sulle donne uccise in italia per «motivi di genere» si concentra sulle criticità nell’operato della polizia giudiziaria.
I parlamentari denotano una frequente «sottovalutazione della violenza riferita o denunciata dalla donna». Fatto reso più grave se si considera che circa due donne su tre vivono nel silenzio le aggressioni che precedono il femminicidio.
Nelle cittadine più piccole, i cui abitanti spesso si conoscono tra loro, spesso le donne sono state addirittura dissuase dalla denuncia. Le forze di polizia, in alcuni casi valutati dalla Commissione, hanno derubricato le violenze a semplice lite famigliare, limitandosi «a calmare gli animi».
Peggio, in alcune situazioni di violenza correttamente accertata, «non si è registrato alcun seguito concreto». Sono state riscontrate persino «minimizzazioni dei gravi maltrattamenti denunciati dalle donne», circostanza che ha agevolato l’archiviazione di alcuni procedimenti in cui gli atti persecutori sono stati «ridimensionati a mere molestie telefoniche o i maltrattamenti in famiglia ricondotti a lesioni semplici».
L’impreparazione della forze dell’ordine e i «pregiudizi giudiziari
Nel rapporto si cita un caso specifico in cui la denuncia di una donna – uccisa poi con 10 coltellate – è passata in secondo piano rispetto alla denuncia dell’ex partner per tradimenti della moglie, sebbene l’adulterio non costituisca reato ormai dal 1968. Per ultimo, sono stati rilevati casi in cui la polizia giudiziaria, pur avendo ricevuto richieste di aiuto da parte di donne vittime di violenza che, per paura, non volevano formalizzare una denuncia, non hanno provveduto a comunicare la notizia di reato alla procura.
Fatto grave, considerando che in questi casi la comunicazione del reato è prevista per obbligo di legge.
Lo stesso linguaggio utilizzato nelle sentenze o nelle archiviazioni, sottolinea la Commissione, evidenzia un’inesperienza della magistratura nel rispondere adeguatamente al fenomeno del femminicidio. Il documento parla di «pregiudizi giudiziari». Ad esempio? «le denunce delle donne vittime di violenza, specie se in fase di separazione, in alcuni casi non sono valutate come qualsiasi altra denuncia, ma subiscono una più approfondita valuta­ zione di credibilità, nel presupposto che le donne mentono o esagerano».
I dati sui procedimenti giudiziari per femminicidio
Di tutti i procedimenti analizzati dal rapporto nel biennio 2017-2018, il 37% è finito in archiviazione: 79 casi, di cui 58 si sono chiuso per la morte dell’autore del femminicidio. Per l’81,2% dei processi che riguardano l’omicidio di una donna in quanto tale, si è scelto di procedere con rito abbreviato.
La Commissione, tuttavia, nota come «a fronte di un reato così grave, la somma delle sentenze definitive di ergastolo e di condanna a 30 anni è pari al 35,7%, più bassa della somma delle sentenze di pena inferiore ai 20 anni, il 40,8%».
Rilevante anche il fatto che il giudice, nelle sentenze di primo grado, tenda a ridurre le pene richieste dal pm: per un 65,7% di richieste di condanna sopra i 30 anni di carcere, al primo grado di giudizio vengono emesse pene oltre i 30 anni solo nel 45,5% dei casi. Tra la richiesta del pm e la sentenza del giudice, la percentuale di ergastoli si dimezza quella sotto i 15 anni raddoppia. In quasi un terzo dei casi, il giudice ha concesso delle attenuanti al colpevole. Le motivazioni più frequenti? «La confessione, l’incensuratezza, la condotta processuale dell’imputato, la sua età o il suo pentimento».
Il femminicidio come volontà di possesso dell’uomo e non come esito di una rottura della relazione
Il documento, poi, si concentra sulle motivazioni che hanno portato all’uccsione di 197 donne nel biennio. Nella maggior parte dei casi, la rottura della relazione non è presente negli atti giudiziari, nemmeno come intenzione della vittima prima di essere assassinata.
Nei fascicoli, in quattro coppie su 10 si ravvisano segnali di interruzione della relazione: in particolare, il 4,4% delle volte la coppia era di fatto separata, mentre il 9,7% dei femminicidi è avvenuto con una separazione in corso. Il 23,9% delle donne aveva espresso la volontà di separarsi.
«Il femminicidio si conferma come un atto di volontà di dominio e di possesso dell’uomo sulla donna al di là della possibile volontà di indipendenza e di rottura dell’unione della donna stessa», rileva il rapporto della Commissione. In generale, il 57,4% è stato perpetrato dal partner – che in 88 casi su 113 coabitava con la vittima -, mentre il 12,7% delle donne è stata uccisa dall’ex partner.
Il suicidio dell’autore con porto d’armi e le modalità di uccisione
È ricorrente nei femminicidi presi a esame dalla Commissione il suicidio dell’autore che possedeva di porto d’armi da fuoco, il 16,1% del totale. Nove volte su dieci, chi ha una pistola si è suicidato dopo aver commesso il crimine. «Si tratta di una percentuale piuttosto elevata, specie se si considera il totale degli autori che si sono suicidati, il 34,9%».
Altro elemento rilevante del rapporto è la percentuale di uomini che hanno compiuto un omicidio e che, contemporaneamente, sono risultati dipendenti da alcool e psicofarmaci: più di un quarto del totale, il 27,1%.
Tra le vittime, invece, le donne che avevano una dipendenza sono risultate essere soltanto l’8,6%. Passando alle modalità di uccisione, il lavoro della Commissione segnala come il 28% degli assassinii sia avvenuto con modalità efferate. Al primo posto, nel 32% di casi, la causa del decesso è stata l’accoltellamento. Segue l’uso di armi da fuoco, nel 28% dei femminicidi, e colpi di oggetti contundenti, nel 19%.
I precedenti penali degli autori
Un terzo degli autori di femminicidio aveva a suo carico precedenti penali o giudiziari. Il 32,3% di questa fetta analizzata, inoltre, era già stata sottoposta a misure cautelare.
È evidente che qualcosa nella rieducazione del condannato – come prescritto dall’art. 27 della Costituzione – non va. Così come è triste rilevare che la percentuale di denunce arrivate dalle vittime di femmincidio è bassissima: 29 su 196, mentre il 63% ha vissuto le violenze pregresse all’uccisione senza parlarne con nessuno. Ma il dato che denota le maggiori criticità nel sistema giudiziario di tutela delle possibili vittime è che in 15 procedimenti per femminicidio alle donne coinvolte, nonostante le autorità avessero ricevuto notizia di minacce, lesioni, tentati strangolamenti, non è stato garantito un sistema di protezione. Una di loro aveva denunciato ben otto volte l’aggressore prima di essere uccisa.
La percentuale di orfani di femminicidio
Un’altra piaga dei femminicidi analizzati è che, in appena due anni, 169 figli sono rimasti orfani di madre, di cui 67 minorenni. Sono 55, poi, i figli in questione che non hanno nemmeno il padre. «Questo dato è di particolare rilevanza ai fini del supporto materiale e psicologico che deve essere garantito dallo Stato alle famiglie che si prendono cura dei figli», scrivono i parlamentari.
Si tratta di individui più o meno giovani che, nel 46,7% dei casi, aveva assistito alle violenze precedenti al femminicidio, nel 30% dei casi ha visto il corpo della madre defunta e nel 17,2% dei casi era presente durante l’assassinio.
(da Open)

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VACCINATI AL 100%: LA MAPPA DEI PAESI VIRTUOSI DOVE NESSUNO SI AMMALA DI COVID

Novembre 23rd, 2021 Riccardo Fucile

DALLA PROVINCIA DI VARESE ALLA SICILIA, LE ROCCAFORTI DELLA VACCINAZIONE

Vere e proprie roccaforti della vaccinazione, dislocate da Nord a Sud.
Sono tante le località italiane, per la maggior parte piccoli borghi, a raccontare storie di grandi successi nella battaglia contro il Covid.
L’ultimo in ordine di tempo è Brinzio: comune di 789 anime della provincia di Varese in Lombardia che oggi conta il 97 per cento della popolazione immunizzata grazie all’impegno dei cittadini.
“Attualmente non abbiamo persone contagiate. Il 3 per cento di non vaccinati? Escludo che abbiano a che fare con i No Vax”, dice con orgoglio il sindaco di Brinzio, Roberto Piccinelli. In tutto la provincia di Varese conta il 91,49% di prime dosi somministrate.
Sempre in territorio lombardo, in provincia di Lecco, nelle scorse settimane la piccola Premana è riuscita a vaccinare tutti i suoi 2.200 abitanti. Il borgo, famoso per la storica produzione di forbici e di coltelli e dell’attività estrattiva e di lavorazione del ferro, ha raggiunto il traguardo del 100% di popolazione vaccinata.
La Lombardia, una delle regioni più colpite dal virus l’anno scorso, oggi registra percentuali altissime di immunizzazione. Un po’ ovunque la copertura supera ormai di gran lunga quell’85% che era stato fissato all’inizio della campagna vaccinale come obiettivo dalla Regione e dalle Agenzie di tutela della Salute sul territorio.
Secondo gli ultimi dati diffusi, solo per fare qualche esempio, Bergamo è al 93,07% di prime dosi somministrate, Brescia al 93,14%, Como al 92,78%, Lecco al 94,15%, Monza Brianza al 94,00%. Traguardi che non possono essere considerate semplici cifre, in un territorio che per primo ha dovuto affrontare il dramma del coronavirus.
Ma i primati “Pro-Vax” non riguardano soltanto la Lombardia. Spostandoci verso Sud, nelle isole, in Sicilia i comuni di Palazzo Adriano, nel Palermitano, e di Roccafiorita, nel Messinese, le somministrazioni di vaccino hanno superato la soglia massima del 100%. E da tre mesi non si registrano contagi.
In particolare Palazzo Adriano, noto per essere stato il set del film da Oscar Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, ha raggiunto quota 104%, mentre Roccafiorita 117%. Il superamento della quota massima del 100% è avvenuto grazie alle persone arrivate da zone limitrofe, a turisti di passaggio e a coloro che pur essendo residenti altrove hanno deciso di vaccinarsi nelle due località.
Ma non è stato sempre tutto semplice: quando la campagna vaccinale è cominciata, la cittadina del palermitano si è trovata di fronte a evidenti problemi logistici. Tanti cittadini, anzitutto quelli più anziani, hanno lamentato difficoltà negli spostamenti per recarsi presso gli hub di città come Corleone o Lercara Friddi: situato nel cuore della sicania alle pendici settentrionali del monte delle Rose, il paesino dista circa 40 minuti di curve dai centri urbani più grandi. La soluzione per non rallentare le immunizzazioni? Portare i vaccini direttamente in paese, con gli open day. Così, pian piano, si sono vaccinati praticamente tutti. E anche qualcuno in più.
Storie di successi vaccinali arrivavano già quest’estate dall’Emilia-Romagna. A Casola Valsenio, in provincia di Ravenna, nel mese di agosto la vaccinazione aveva raggiunto già quasi tutti i circa 2.500 residenti Il sindaco della località, conosciuta meta per gli speleologi e terra natale dello scrittore e poeta Alfredo Oriani, aveva spiegato: “Qui medici e farmacisti si sono messi subito in contatto con le persone più scettiche, una per una, spiegando l’importanza della vaccinazione e la bassissima incidenza di effetti avversi. E alla fine quelle persone sono venute a vaccinarsi”.
E le storie sono ancora tante, lungo tutta la penisola. Anche oggi, mentre le somministrazioni continuano con le terze dosi, necessarie per affrontare la recrudescenza del virus di questa quarta ondata.
Guardando i dati aggiornati, sono 3.419.675 gli italiani che hanno già ricevuto la dose booster, a cui si aggiungono 705.366 dosi addizionali. Le prime sono quelle somministrate a chi ha già il completato il ciclo vaccinale per mantenere alta la risposta immunitaria contro il Covid. Le addizionali riguardano invece particolari categorie di soggetti, come gli immunodepressi, a cui soltanto due dosi non bastano per avere una copertura sufficiente contro il virus.
(da agenzie)

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