FEMMINICIDI, TRA ERRORI DELLA POLIZIA E ATTENUANTI DEI GIUDICI, LE DONNE NON SONO PROTETTE DALL’ORDINAMENTO ITALIANO
MINIMIZZAZIONI DELLE RICHIESTE DI AIUTO E FACILE CONCESSIONE DELLE ATTENUANTI
I dati sui femminicidi, in Italia, restituiscono la fotografia di un Paese in cui le donne non sono ancora sufficientemente tutelate dall’ordinamento. Ma, soprattutto, il rapporto della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio – che Open ha potuto visionare -, ha rilevato come leggi e sentenze fatichino a stare al passo con le urgenze imposte dalla violenza di genere.
La relazione della Commissione – che sarà presentata il 24 novembre, alla vigilia della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – ha preso in esame 211 procedimenti penali di uccisione di donne da parte di uomini nel biennio 2017-2018.
La prima evidenza, di tipo anagrafico, racconta che l’età media di vittime e autori dell’omicidio è molto simile: la prima è pari a 51,5 anni, la seconda a 52,5.
Anche per quanto riguarda la cittadinanza delle due categorie non si ravvisano particolari differenze: il 78% delle vittime è italiana, così come il 78,1% degli autori. In generale, l’83,9% dei femminicidi è stato commesso da un autore che ha la stessa cittadinanza della vittima.
Buona parte del rapporto sulle donne uccise in italia per «motivi di genere» si concentra sulle criticità nell’operato della polizia giudiziaria.
I parlamentari denotano una frequente «sottovalutazione della violenza riferita o denunciata dalla donna». Fatto reso più grave se si considera che circa due donne su tre vivono nel silenzio le aggressioni che precedono il femminicidio.
Nelle cittadine più piccole, i cui abitanti spesso si conoscono tra loro, spesso le donne sono state addirittura dissuase dalla denuncia. Le forze di polizia, in alcuni casi valutati dalla Commissione, hanno derubricato le violenze a semplice lite famigliare, limitandosi «a calmare gli animi».
Peggio, in alcune situazioni di violenza correttamente accertata, «non si è registrato alcun seguito concreto». Sono state riscontrate persino «minimizzazioni dei gravi maltrattamenti denunciati dalle donne», circostanza che ha agevolato l’archiviazione di alcuni procedimenti in cui gli atti persecutori sono stati «ridimensionati a mere molestie telefoniche o i maltrattamenti in famiglia ricondotti a lesioni semplici».
L’impreparazione della forze dell’ordine e i «pregiudizi giudiziari
Nel rapporto si cita un caso specifico in cui la denuncia di una donna – uccisa poi con 10 coltellate – è passata in secondo piano rispetto alla denuncia dell’ex partner per tradimenti della moglie, sebbene l’adulterio non costituisca reato ormai dal 1968. Per ultimo, sono stati rilevati casi in cui la polizia giudiziaria, pur avendo ricevuto richieste di aiuto da parte di donne vittime di violenza che, per paura, non volevano formalizzare una denuncia, non hanno provveduto a comunicare la notizia di reato alla procura.
Fatto grave, considerando che in questi casi la comunicazione del reato è prevista per obbligo di legge.
Lo stesso linguaggio utilizzato nelle sentenze o nelle archiviazioni, sottolinea la Commissione, evidenzia un’inesperienza della magistratura nel rispondere adeguatamente al fenomeno del femminicidio. Il documento parla di «pregiudizi giudiziari». Ad esempio? «le denunce delle donne vittime di violenza, specie se in fase di separazione, in alcuni casi non sono valutate come qualsiasi altra denuncia, ma subiscono una più approfondita valuta zione di credibilità, nel presupposto che le donne mentono o esagerano».
I dati sui procedimenti giudiziari per femminicidio
Di tutti i procedimenti analizzati dal rapporto nel biennio 2017-2018, il 37% è finito in archiviazione: 79 casi, di cui 58 si sono chiuso per la morte dell’autore del femminicidio. Per l’81,2% dei processi che riguardano l’omicidio di una donna in quanto tale, si è scelto di procedere con rito abbreviato.
La Commissione, tuttavia, nota come «a fronte di un reato così grave, la somma delle sentenze definitive di ergastolo e di condanna a 30 anni è pari al 35,7%, più bassa della somma delle sentenze di pena inferiore ai 20 anni, il 40,8%».
Rilevante anche il fatto che il giudice, nelle sentenze di primo grado, tenda a ridurre le pene richieste dal pm: per un 65,7% di richieste di condanna sopra i 30 anni di carcere, al primo grado di giudizio vengono emesse pene oltre i 30 anni solo nel 45,5% dei casi. Tra la richiesta del pm e la sentenza del giudice, la percentuale di ergastoli si dimezza quella sotto i 15 anni raddoppia. In quasi un terzo dei casi, il giudice ha concesso delle attenuanti al colpevole. Le motivazioni più frequenti? «La confessione, l’incensuratezza, la condotta processuale dell’imputato, la sua età o il suo pentimento».
Il femminicidio come volontà di possesso dell’uomo e non come esito di una rottura della relazione
Il documento, poi, si concentra sulle motivazioni che hanno portato all’uccsione di 197 donne nel biennio. Nella maggior parte dei casi, la rottura della relazione non è presente negli atti giudiziari, nemmeno come intenzione della vittima prima di essere assassinata.
Nei fascicoli, in quattro coppie su 10 si ravvisano segnali di interruzione della relazione: in particolare, il 4,4% delle volte la coppia era di fatto separata, mentre il 9,7% dei femminicidi è avvenuto con una separazione in corso. Il 23,9% delle donne aveva espresso la volontà di separarsi.
«Il femminicidio si conferma come un atto di volontà di dominio e di possesso dell’uomo sulla donna al di là della possibile volontà di indipendenza e di rottura dell’unione della donna stessa», rileva il rapporto della Commissione. In generale, il 57,4% è stato perpetrato dal partner – che in 88 casi su 113 coabitava con la vittima -, mentre il 12,7% delle donne è stata uccisa dall’ex partner.
Il suicidio dell’autore con porto d’armi e le modalità di uccisione
È ricorrente nei femminicidi presi a esame dalla Commissione il suicidio dell’autore che possedeva di porto d’armi da fuoco, il 16,1% del totale. Nove volte su dieci, chi ha una pistola si è suicidato dopo aver commesso il crimine. «Si tratta di una percentuale piuttosto elevata, specie se si considera il totale degli autori che si sono suicidati, il 34,9%».
Altro elemento rilevante del rapporto è la percentuale di uomini che hanno compiuto un omicidio e che, contemporaneamente, sono risultati dipendenti da alcool e psicofarmaci: più di un quarto del totale, il 27,1%.
Tra le vittime, invece, le donne che avevano una dipendenza sono risultate essere soltanto l’8,6%. Passando alle modalità di uccisione, il lavoro della Commissione segnala come il 28% degli assassinii sia avvenuto con modalità efferate. Al primo posto, nel 32% di casi, la causa del decesso è stata l’accoltellamento. Segue l’uso di armi da fuoco, nel 28% dei femminicidi, e colpi di oggetti contundenti, nel 19%.
I precedenti penali degli autori
Un terzo degli autori di femminicidio aveva a suo carico precedenti penali o giudiziari. Il 32,3% di questa fetta analizzata, inoltre, era già stata sottoposta a misure cautelare.
È evidente che qualcosa nella rieducazione del condannato – come prescritto dall’art. 27 della Costituzione – non va. Così come è triste rilevare che la percentuale di denunce arrivate dalle vittime di femmincidio è bassissima: 29 su 196, mentre il 63% ha vissuto le violenze pregresse all’uccisione senza parlarne con nessuno. Ma il dato che denota le maggiori criticità nel sistema giudiziario di tutela delle possibili vittime è che in 15 procedimenti per femminicidio alle donne coinvolte, nonostante le autorità avessero ricevuto notizia di minacce, lesioni, tentati strangolamenti, non è stato garantito un sistema di protezione. Una di loro aveva denunciato ben otto volte l’aggressore prima di essere uccisa.
La percentuale di orfani di femminicidio
Un’altra piaga dei femminicidi analizzati è che, in appena due anni, 169 figli sono rimasti orfani di madre, di cui 67 minorenni. Sono 55, poi, i figli in questione che non hanno nemmeno il padre. «Questo dato è di particolare rilevanza ai fini del supporto materiale e psicologico che deve essere garantito dallo Stato alle famiglie che si prendono cura dei figli», scrivono i parlamentari.
Si tratta di individui più o meno giovani che, nel 46,7% dei casi, aveva assistito alle violenze precedenti al femminicidio, nel 30% dei casi ha visto il corpo della madre defunta e nel 17,2% dei casi era presente durante l’assassinio.
(da Open)
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