Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
“SE PROVI A SCAPPARE, I RUSSI TI SPARANO“
«Se qualcuno prova a scappare, gli sparano». A dirlo è un cittadino italiano bloccato a
Kherson, Giovanni Bruno. Nella città ucraina occupata dall’esercito russo, e teatro da giorni di proteste contro le forze di Mosca, «è tutto bloccato. La città è circondata. Usciamo solo per cercare di procurarci i beni di prima necessità. Ma ormai non si trova quasi più niente, mancano cibo e medicine», ha detto Bruno, 35 anni.
Con lui a Kherson sono bloccate la moglie, di nazionalità ucraina, e la figlia di 22 mesi. Complessivamente, tra Kherson e Nova Kachovka, sono circa 40, tra italiani e familiari ucraini, le persone impossibilitate a partire.
«Siamo in contatto con la Farnesina, ma per ora non ci sono possibilità di evacuazione», ha spiegato. «Abbiamo le provviste limitate. Speriamo ci tirino presto fuori di qui», ha aggiunto Bruno. Il 35enne ha raccontato che quando scattano gli allarmi aerei «ci incastriamo tra due muri, tra i pilastri, con la speranza che reggano. Non ci possiamo muovere, ci hanno sconsigliato di andare nel bunker che ha una sola entrata, presidiata dai militari. E comunque siamo al settimo piano, anche fuggire non sarebbe immediato».
(da agenzie)
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Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
DOMENICA PIÙ DI 350 I FERMI A MOSCA, E NON LA SCAMPANO NEMMENO QUELLI CHE TENGONO IN MANO FOGLI BIANCHI O UN PEZZO DI CARTONE CON DEGLI ASTERISCHI
«Mi ha chiamato “cagna”, mi ha sbattuto la testa sul tavolo, ha iniziato a strangolarmi. Diceva qualcosa, ma non ricordo più nulla». Anastasia Kotliar è stata tra i primi manifestanti a venire fermata, a Vladivostok, quando ha deciso di fare da scudo a un amico buttato per terra dai poliziotti: «Pensavo non avrebbero picchiato una ragazza», ha raccontato alla Ong OVD-Info, che assiste i detenuti politici russi.
Ora Anastasia è in ospedale con quella che è probabilmente una commozione cerebrale, una dei quasi 900 russi fermati al momento nella domenica di protesta contro la guerra. Il numero degli arrestati per le manifestazioni in 18 giorni di guerra ha superato le 15 mila persone, e anche ieri è valsa la regola che ormai praticamente tutti quelli che scendono in piazza vengono portati via dalla polizia.
Più di 350 i fermi a Mosca, in piazza del Maneggio ai piedi del Cremlino, 151 arresti a Pietroburgo, forse la città più ribelle negli ultimi giorni, decine a Saratov e Nizhny Novgorod.
Scendere in piazza senza autorizzazione delle autorità in Russia è illegale, ma ora al divieto di manifestare si aggiunge il reato di «discredito dei militari russi», quella legge approvata dalla Duma che proibisce di chiamare la guerra in Ucraina «guerra», pena una multa salatissima la prima volta e un’incriminazione penale fino a 15 anni di carcere se il reato viene reiterato.
In un clima orwelliano, a Nizhny Novgorod i poliziotti si sono scagliati contro una ragazza che teneva in mano un foglio bianco. A Mosca, un manipolo di agenti in assetto antisommossa ha buttato a terra Dmitry Reznikov, che non opponeva alcuna resistenza, tenendo semplicemente un pezzo di cartone con degli asterischi, «*** *****», che ormai tutta la Russia legge come «net voyne», no alla guerra.
A Saratov Irina Filatova è stata arrestata per il manifestino «Nonno prendi le pasticche», correttamente interpretato dagli agenti come un insulto a Vladimir Putin. A Pietroburgo è stata arrestata di nuovo l’84enne Elena Osipova, la sopravvissuta all’assedio nazista diventata ormai un simbolo della protesta: ieri è stata portata via con il cartello «Non vogliamo andare in paradiso morendo per Putin».
Un’altra donna è stata portata via dopo aver gridato al poliziotto che «i vostri hanno ucciso mia nipote in Ucraina»: anche la notizia sulle morti dei civili è considerata «discredito» della Russia.
Una giornata di ordinaria repressione, e l’appello di Alexey Navalny dal carcere a scendere in piazza a migliaia perché «siete voi le persone più importanti che possono fermare questa guerra» è rimasto inascoltato. La paura è troppa, e sembra che la polizia abbia ricevuto l’ordine di terrorizzare ancora di più i cittadini: ieri in piazza del Maneggio a Mosca venivano fermati anche passanti casuali, e molti manifestanti hanno denunciato violenze e minacce.
Molti attivisti sono stati fermati preventivamente, ancora prima di raggiungere le piazze, altri sono stati arrestati per «reati» come sciarpe nei colori giallo e azzurro della bandiera ucraina, o per spillette pacifiste.
La sproporzione tra il numero dei poliziotti – molti dei quali esibivano sugli elmetti e sulle uniformi la Z diventata simbolo dell’operazione russa in Ucraina – e il numero dei manifestanti sembra essere un messaggio ai pochi che osano ancora protestare, così come la brutalità con la quale gli agenti hanno insultato e picchiato, sotto gli occhi delle telecamere e degli altri passanti, chi aveva aderito alla protesta.
Mentre nelle città ucraine occupate dai russi come Kherson e Melitopol ieri migliaia di persone sono tornate in piazza con le bandiere ucraine, sfidando i fucili e i carri armati degli invasori per protestare contro Putin, nelle città russe assembramenti molti più numerosi si registravano ieri sera ai McDonalds.
Nelle ultime ore di funzionamento – la casa madre ha deciso di chiudere da oggi i quasi 870 fast food che operavano in Russia per protesta contro la guerra – decine di persone si sono messe in coda per l’ultimo hamburger, e ai McDrive si sono formate file lunghissime di automobili.
In serata ha cominciato a spegnersi anche Instagram, bloccato dalle autorità russe come uno dei principali network della protesta – Alexey Navalny conta 3,5 milioni di follower che leggono i suoi post dalla prigione – gettando nel lutto centinaia di blogger.
(da La Stampa)
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Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
ADAM MICHNIK, UNO DEI PIU IMPORTANTI INTELLETTUALI POLACCHI: “NON CI SARÀ UNA NUOVA GUERRA FREDDA. SE LA RUSSIA VINCERÀ IL CONFLITTO DIVENTERÀ SEMPRE PIÙ CALDO. A QUEL PUNTO L’UCRAINA SARÀ SOLTANTO UN PRIMO PASSO, POI CI SARANNO LA MOLDAVIA, I PAESI BALTICI, NOI. E L’OCCIDENTE AVRÀ PERSO TUTTO”
L’Hotel Europejski di Cracovia si affaccia sul piazzale della stazione, con la sua scritta blu.
La Polonia è un paese al neon, è un suo segno distintivo: di là, a est, c’era il comunismo, quello sovietico. Di qua, invece, c’erano le insegne luminose, che facevano l’occhiolino ai cittadini della Repubblica popolare di Polonia.
Dagli anni Cinquanta Cracovia, come le altre città polacche, richiama chiunque con la sua luce e uno dei suoi alberghi più antichi non poteva essere da meno.
Attorno al piazzale della stazione ci sono anche l’Hotel Polonia e il Warszawski, ma l’Europejski è altro, un mondo di tappeti e moquette, vecchie radio e scacchiere all’ingresso, attorno alle quali si radunano gli ucraini in attesa.
Formano una coda lunga davanti al bancone della reception, si informano sui prezzi, chiedono gli uni agli altri se sono arrivati da Leopoli, da Kyiv, da Kharkiv. Un signore con un dito rotto dice: “Da Kherson”.
Si leva attorno un sospiro. Entrano all’Hotel Europejski con le loro storie lasciate in Ucraina, molte saranno macerie al loro ritorno, ma questi profughi alla ricerca di un albergo non sono arrivati per rimanere: sono qui per attendere. Una coppia di signori molto eleganti mette in fila un po’ di russo e un po’ di polacco per farsi capire. Hanno tante domande: il prezzo? Che c’è per colazione? Il ristorante funziona? La lavanderia? Prima di prenderla, salgono a vedere la stanza, potrebbero doverci rimanere un po’.
Questi profughi non hanno l’aria di chi scappa, e non vogliono che si pensi che la loro sia una fuga. Sono convinti che torneranno e in molti dicono: se sei anziano o devi badare ai bambini, non servi neppure a combattere e anzi i soldati dovrebbero preoccuparsi della tua sicurezza. Il viaggio via dalla guerra è piuttosto un tassello della strategia: togliere all’esercito ucraino anche il peso di dover difendere i civili. Combattono tutti, dicono, anche a distanza, anche prendendo un treno.
Non piangono, sono stanchi, resistono, sono infuriati. Chi è in Polonia già da qualche giorno aiuta chi è appena arrivato, va alla frontiera a prendere chi entra, ad aspettare un familiare o un amico che è in coda dall’altra parte, in Ucraina, dove si sta combattendo la guerra che ci sta cambiando tutti.
Sono una città nella città, un corpo estraneo che molti polacchi coccolano, perché se ne sentono responsabili. Sono il simbolo della storia che pensavamo di aver chiuso, di esserci messi alle spalle, dei danni nati da un’amicizia forzata con un autocrate, Vladimir Putin, che non ha mai voluto essere nostro amico e che si è convinto del fatto che il suo potere debba durare per sempre.
Gli ucraini lo chiamano “il matto” e Alisa, che ha due figli al fronte ed è venuta in Polonia con una fascia ricoperta di fiori blu e gialli in testa, dice: “Se i russi non sono in grado di liberarsene, vedrai che toccherà a noi. Stiamo combattendo tutte le battaglie dell’occidente”.
Gli ucraini hanno svegliato il mondo e quello che nascerà da questa guerra sarà un nuovo ordine. Loro combattono e a noi spetta la responsabilità di ricostruirlo. Pena: perdere tutto. La consapevolezza degli ucraini di farsi carico della protezione del confine tra barbarie e diritto ha in sé anche i suoi rischi: Kyiv sta sviluppando una sua terza via
Da una parte c’è l’odio nei confronti di Mosca, dall’altra la sfiducia nei confronti dell’occidente che non chiude i cieli. E poi ci sono loro, che non stanno con Putin, ma che più la guerra si protrae, più iniziano a sentirsi altro rispetto a noi. C’è chi si sente usato, chi si sente umiliato, chi la rabbia la divide in due: molta per l’occupante feroce e un po’ per l’alleato indeciso. Se lo lascia scappare più di qualcuno nelle stazioni di Cracovia, di Varsavia e Przemysl, mentre ringrazia i volontari, rispolvera la fratellanza polacca, ma sa con certezza che davanti a Putin e al suo esercito ci sono rimasti i figli, i nipoti, i mariti
Perché Kyiv viveva ieri come vive Varsavia oggi, e la Polonia non può togliersi dalla mente la rapidità con cui tutto è stato sconvolto. Guarda con ammirazione gli ucraini che arrivano, ma tra i volontari che aiutano i rifugiati c’è la paura che questa accoglienza sarà il prossimo fronte politico interno.
Gli ucraini sono tanti, sui treni non si trova posto, anche gli aerei che partono dagli aeroporti polacchi sono pieni. Non tutti si fermano in Polonia, ma ogni due minuti arrivano tre ucraini attraverso il confine. Farli entrare è naturale, ma una nazione non abituata all’accoglienza ha i suoi limiti e il timore che questo grande sforzo di solidarietà si trasformi in un nuovo argomento del revanscismo preoccupa chi è più abituato a guardare al futuro.
Ma per adesso i polacchi partecipano e non c’è angolo delle città che non esponga una bandiera blu e gialla o immagini di Volodymyr Zelensky; il presidente ucraino domina le copertine delle riviste e i suoi slogan vengono stampati sui cartelloni e sulle magliette.
La Polonia è un paese che non è mai stato affascinato dalla Russia, neppure durante il comunismo: voleva sempre far capire di essere altro rispetto a Mosca e i neon ne sono la dimostrazione. L’Ucraina, invece, della Russia si fidava, ma è cambiato tutto otto anni fa, quando, tra l’occidente e Mosca, ha scelto l’occidente e Putin non è mai stato in grado di riguadagnare la fiducia di Kyiv.
Oggi per riconquistarla ha dichiarato una guerra che non è nata in pochi giorni, ma è il frutto di una preparazione lenta, non abbastanza minuziosa, con più rancore che strategia, e l’errore del mondo occidentale è stato distogliere gli occhi dal quel fronte, lungo il quale oggi si gioca il suo futuro.
C’è una bandiera dell’Ucraina all’ingresso della redazione della Gazeta Wyborcza. E’ il quotidiano della Polonia post comunista, la Polonia nata da Solidarnosc, che vuol dire solidarietà. Nie ma wolnosci bez solidarnosci , non c’è libertà senza solidarietà è il motto della testata.
E in questo momento tutta la solidarietà va all’Ucraina, anche sui cartelloni che recitano: siamo solidali con voi. Adam Michnik è uno dei più importanti intellettuali polacchi, fondatore del quotidiano delle battaglie e oggi dell’opposizione e nella sua stanza, nella redazione ormai svuotata dal Covid – “un tempo qui c’era la vita”, dice la sua segretaria attraversando le stanze piene di sedie vuote e prove di stampa – aspetta seduto con una bandiera appuntata sulla maglietta: ovviamente quella dell’Ucraina.
Si augura che finalmente il mondo abbia capito cos’ è il putinismo e che sia pronto a stanarlo in tutti i paesi: Viktor Orbán in Ungheria, Marine Le Pen in Francia, Matteo Salvini in Italia e così via.
Dice che non ci sono modi per mettersi d’accordo con il capo del Cremlino, i compromessi non valgono più. “Veniamo da anni in cui ci piangevamo addosso, parlando del tramonto della democrazia e invece: eccola la democrazia, l’Ucraina ha dimostrato tutta la sua vitalità”. E questo è uno dei motivi per cui non si può tornare indietro: questa guerra va vinta. La democrazia nuova, forte, vigorosa merita la vittoria.
Non ne va soltanto della sopravvivenza di Kyiv, dice Michnik, perso dietro a fogli e giornali, ammantato dal fumo delle sue sigarette. Ama spegnerle sul fazzoletto di carta: il fumo si fa ancora più intenso. Michnik è visto come il simbolo di una generazione che non ha saputo capire fino in fondo i problemi e le contraddizioni della Polonia che cresceva e si sviluppava, non ha voluto leggere i volti degli scontenti, che erano soprattutto quelli di chi era arrivato a Cracovia ad assistere al funerale di Lech Kaczynski.
Questa è l’accusa che gli viene mossa da ambienti più giovani, conservatori e liberali, che imputano a lui, come a Tusk, di aver regalato la Polonia al PiS. Ma Michnik la libertà la conosce, conosce la democrazia e il suono che fa quando forte e vivida combatte contro l’autoritarismo. Sostiene che l’occidente stia facendo molto, ma l’impegno non può scemare: se Kyiv perde, perdiamo anche noi. “Se lasciamo che la Russia vinca la guerra apriamo le porte a Putin, il segnale che noi gli manderemo sarà che il leone è sdentato e non sa più ruggire”.
La vittoria dell’Ucraina è anche la nostra e se vogliamo che il mondo si raddrizzi c’è solo un modo: “Il putinismo deve finire, dobbiamo assicurarci che Putin se ne vada”. Michnik ama pubblicare sulla Gazeta Wyborcza le lettere dei russi che sono contrari alla guerra, dice che c’è vita, che una resistenza può esserci, ma non si sa quanto guardi a questa possibilità con gli occhi dell’ottimismo sfrenato di chi è riuscito a cambiare almeno un pezzo di mondo.
“Le strade sono due: o si vince o si perde. Non ci sarà una nuova Guerra fredda, è una questione storica. La Guerra fredda è scoppiata tra le due potenze che avevano sconfitto il nazismo. Erano due vincitori che si fronteggiavano, che volevano avere ragione, che fino a un certo punto sono stati potenti, decisi, tenaci allo stesso modo. Se invece la Russia vincerà questa guerra, non ci sarà nulla di freddo, il conflitto diventerà sempre più caldo. A quel punto l’Ucraina sarà soltanto un primo passo, poi ci saranno la Moldavia, i Paesi baltici, noi. E l’occidente avrà perso tutto, in nome di una pace che era già stata spezzata”. Non ci sarà una Guerra fredda neppure nel caso in cui vinca l’Ucraina:
“A quel punto la Russia sarà sconfitta, ed è così che deve andare”. Se vogliamo la pace, in questo momento ha un costo alto e va pagato tutto, dice Michnik, anche se questo vuol dire accantonare per un po’ la mentalità senza guerra che ha scandito le nostre vite in questi ultimi anni, vuol dire smetterla di bearci del mondo senza armi che abbiamo costruito dalla fine del Secondo conflitto mondiale, vuol dire riformare, rifondare, anche sfasciare un ordine che credevamo essere il migliore possibile, e che lo è stato, ma che ha permesso anche l’attacco russo ai danni dell’Ucraina.
Le crepe c’erano già, noi non le abbiamo viste, Putin sì. Slawomir Sierakowski indica una data di inizio, il primo istante in cui si è avvertita la mancanza dell’occidente: “Il vertice Nato del 2008, quando si doveva offrire all’Ucraina e alla Georgia una strada verso l’Alleanza e invece alcuni paesi bloccarono l’iniziativa.
Putin ha visto lo spazio e poi ha attaccato la Georgia. Mosca interpreta il vuoto come un invito e, se continueremo a lasciare spazi liberi, la Russia continuerà a occuparli.
Finora ci siamo illusi di poter risolvere il rapporto con il Cremlino attraverso i compromessi, ma non possiamo più permettercelo perché in questo modo Putin si sentirà sollevato e gli ucraini perderanno il senso di questa lotta”. La Russia non è un paese che lancia messaggi contraddittori, non gira attorno alle cose, è diretto, lascia poco spazio alle illusioni. “Se noi permettiamo che l’Ucraina perda sarà un lutto per tutto il nostro mondo”. Gli ucraini ci mettono la tenacia, il carattere, il sangue cosacco: lottano. Noi dobbiamo inventare il progetto del nuovo mondo.
“Dobbiamo molto a Kyiv – dice Sierakowski – e credo che opporsi all’ingresso dell’Ucraina nell’Ue sia immorale, per noi europei sarebbe molto squalificante”.
I Paesi bassi sono tra i più contrari, il premier olandese Mark Rutte ha detto che non si può aprire un processo di adesione a un paese in guerra e c’è però un episodio che Sierakowski vuole ricordare a Rutte: “Nel 2014 il volo MH17 della Malaysian Airlines che viaggiava da Amsterdam a Kuala Lumpur è stato abbattuto da un missile terra aria Buk, mentre attraversava il cielo dell’Ucraina. Ci sono state quasi duecento vittime olandesi, come è possibile che i Paesi bassi si siano dimenticati di aver subito le conseguenze dell’invasione di Mosca?”.
Ieri la Russia ha colpito una base militare ucraina a Yavoriv, a meno di venti chilometri dalla frontiera con la Polonia. Varsavia teme sempre di più per la sua posizione, la sua è una paura geografica e anche storica. E’ la paura del confine, che si mescola con la consapevolezza che non ci sono altre strade: bisogna sostenere l’Ucraina, un paese sconvolto da una guerra brutale, che ha rimesso in fila l’ordine delle paure europee. Negli ultimi due anni, l’Europa ha conosciuto la pandemia e ora sente la guerra, i timori sono cambiati, le priorità anche, il futuro è diventato una responsabilità pesante. Gli ucraini che sono già in Polonia ripetono che bisogna chiudere i cieli. Lo ripete anche Olga, che dalla guerra sembra scocciata più che spaventata, ma la frase “chiudere i cieli”, la pronuncia spesso.
Di cielo e dei suoi pericoli parlano anche all’Hotel Europejski e anche i polacchi non possono più fare a meno di guardare in alto. E’ un riflesso, la voglia di essere sicuri che le nuvole sono ancora lì, che nevica, che i rumori della guerra non ci sono, che i fori che si intravedono ancora su vecchie case polacche sono di una guerra passata, lasciati lì per ricordare. Il mondo si è rispostato a est e quell’affaccio dell’Europa tra Polonia e Ucraina è diventato il laboratorio, lo specchio delle scelte, il confine del nuovo mondo, tra la libertà e l’orso danzante russo. “Orsi danzanti” è il titolo dell’ultimo libro pubblicato in Italia dello scrittore polacco Witold Szablowski, che come protagonista ha la libertà.
Quando in Bulgaria, prima dell’ingresso nell’Unione europea, tra le condizioni fu chiesto di liberare gli orsi che erano stati allevati in cattività e addestrati a danzare, alcuni animali vennero sistemati in delle riserve naturali. Anche se in libertà, gli orsi si alzavano su due zampe e si mettevano a danzare, a fare la stessa cosa per la quale erano stati addestrati contro la loro natura.
Szablowski vive nel quartiere Praga di Varsavia, uno dei pochi risparmiati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Con le vecchie case di pietra, simboli ebraici sopravvissuti qua e là, lontano dal Palazzo della cultura di Stalin, che per Varsavia è un segno distintivo e una ferita.
E’ convinto che Putin sia il retaggio, una chincaglieria della vecchia guardia sovietica che ha lanciato all’Ucraina una sfida che non ha nulla a che fare con il nostro presente. Il presidente russo non si è adattato al mondo, non si è adattato al tempo e per noi è molto difficile capire se invece la Russia attorno a lui viva nella nostra stessa epoca o in quella di Putin.
Gli orsi danzanti di Szablowski non sono soltanto gli animali, ma anche gli abitanti di tutti i paesi ex comunisti, incatenati agli schemi, ai tic, ai pensieri, alle paure delle loro dittature morte. Il comunismo gli è rimasto addosso. Per alcuni è la paura che non se ne va più, per altri è anche nostalgia, ma come gli orsi, anche se sono liberi, ci sono persone che si mettono sulle zampe posteriori e danzano. La Polonia è guarita dalla sua nostalgia, ora ha altri problemi che con la guerra si vedono meno.
Anche l’Ucraina non danza più e la tenacia con cui combatte questo conflitto è la grande dimostrazione di quanto sappia bene cosa sia la libertà, di quanto sia delicata e cara. E’ la Russia che danza ancora, che non è mai guarita, che ha perso il suo appuntamento con il futuro, che vive in un bunker, che rincorre il suo spazio sovietico, che fa a pugni con la storia lungo il confine in cui si delinea il nuovo ordine mondiale.
All’hotel Europejski le stanze sono finite, alcuni signori hanno organizzato un torneo di scacchi e rimangono a giocare fino a tardi. L’albergo ha deciso che ammetterà anche gli animali, tutto sta cambiando, le vecchie regole non servono più e l’Europejski è un luogo di convivenza e di storie: una piccola repubblica ucraina che assomiglia all’Europa. Da qui appare chiaro che il futuro del mondo ha il cuore più a est, su una frontiera da cui si sta disegnando il progetto dei nuovi equilibri, affacciata su una guerra che potrebbe essere ancora lunga, ma che ci sta imponendo di riscrivere tutto: amicizie, inimicizie, regole, istituzioni, valori. Il costo della nostra pace.
(da il Foglio)
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Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
IL PUGNO DI FERRO CONTRO LE PROTESTE
La chiamano oramai «La grande fuga» perché l’alternativa è essere licenziati per aver espresso la propria contrarietà alla guerra che non si chiama guerra o finire nelle mani della polizia per essere scesi in piazza.
Ieri in centinaia hanno fatto vedere e sentire il loro dissenso e sono stati afferrati in malo modo e trascinati da agenti in tenuta antisommossa (quasi mille i fermati; quindicimila dall’inizio della guerra). Una donna aveva semplicemente pensato di passeggiare per le vie del centro di Nizhny Novgorod con un foglio bianco in mano.
Niente da fare, è stata agguantata e portata via. Il nuovo simbolo della protesta è un nastro verde, forse perché zelyonij (verde) ricorda il nome di Zelensky.
Allora chi può, chi ha ancora la speranza di ricominciare una vita, se ne va. La Russia che non può esprimere il suo voto nell’urna, visto che, secondo l’opposizione, le elezioni sono falsate, sta votando con i piedi.
In auto o treno verso i Paesi baltici e la Finlandia; in aereo chi può permetterselo. I fortunati che avevano ottenuto un visto Schengen per turismo scelgono l’Europa, ma naturalmente passando per altri scali perché i voli diretti sono tutti bloccati. Gli altri puntano su Stati che ammettono i cittadini della Federazione russa senza richiedere il visto. I ricchi, quelli che hanno già pensato per tempo ad accumulare quattrini all’estero, guardano agli Emirati Arabi che non fanno nemmeno troppe domande sulla provenienza del denaro trasferito nelle loro banche.
La gran massa va nelle ex repubbliche sovietiche «amiche» che hanno accordi di libera circolazione in base ai vecchi trattati sottoscritti dopo lo scioglimento dell’Urss nel 1991.
Perfino la Georgia, con la quale Mosca è stata in guerra nel 2008. «Sono almeno 25 mila i russi entrati in queste due settimane», dicono le autorità di Tbilisi. Ma anche Kirgizistan, Armenia, Uzbekistan. In tutti questi Paesi, tra l’altro, si parla comunemente russo.
Altre mete verso le quali si stanno dirigendo grandi flussi di persone che non vogliono avere più nulla a che fare con Vladimir Putin e con i suoi luogotenenti sono il Messico, la Turchia e la Serbia. Belgrado accoglie a braccia aperte i russi, soprattutto se hanno una specifica formazione tecnica. E poi il serbo è pur sempre una lingua slava e farsi capire non è un gran problema. A nord si entra direttamente in auto in Estonia e Lettonia, sia pure con qualche problema. Tantissimi, da Mosca e da San Pietroburgo, puntano sulla Finlandia che si raggiunge pure in treno.
Quattro ore dalla capitale a Piter e poi si sale sull’«Allegro» delle ferrovie finlandesi che assicura due collegamenti quotidiani (la domenica sono tre).
Inutile dire che i convogli sono gremiti verso Helsinki e vuoti al ritorno. Sul treno adesso possono salire solo cittadini russi e finlandesi. «Stiamo perdendo i migliori talenti, le persone più dinamiche. Sembra la ripetizione del 1917», dice la cinquantenne Alla Magnitskaya che non se ne può andare da Mosca perché deve assistere i genitori malati. Non possono lasciare la Russia nemmeno due milioni e mezzo di silovikì , vale a dire militari, poliziotti e agenti dei servizi segreti. Per motivi di sicurezza nazionale a loro è vietato da anni l’espatrio.
(da il Corriere della Sera)
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Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
“OGGI ALL’ESTERO CI ODIANO TUTTI”
Chi può se ne va. E in tanti se ne sono già andati: Istanbul, Dubai, Atene. Poi però ci sono
quelli come Cyril, che non si chiama così perché nessuno a Mosca racconta più niente con il suo vero nome, anche se vuole che la sua storia si sappia, e infatti la scrive in una delle tante chat su Telegram che si sono accese in Russia come fiammelle alle finestre (era così che in Belarus dimostravano il dissenso, non potendo più scendere in strada senza finire in carcere).
«Io e la mia famiglia abbiamo pensato a emigrare – scrive Cyril – ma non c’è nessun posto dove andare. Dove si può andare se poi non ci puoi stare? Tutti odiano i russi adesso, sarà solo più difficile tornare».
Anche Olga, che fa il notaio a Mosca (non è la stessa cosa che fare il notaio in Occidente, in Russia i notai sono qualcosa a metà tra i ragionieri e gli amministratori di condominio) non se ne può andare: «Dovevo partire prima, mentre stavo ancora portando a termine gli studi, ma allora non ne ho avuto la forza. Adesso ho mia mamma che ha avuto un ictus e un bimbo piccolo di cui occuparmi. E anche un lavoro di cui nessuno all’estero ha bisogno: che possibilità avrei?».
Chi è istruito e ha un buon lavoro (ma non buonissimo) oscilla di continuo nel dubbio se partire o restare.
Ivan, che lavora all’università di Yelets, scrive che stava pensando di andarsene, ma non si è sentito a posto con la sua coscienza: «Ho una figlia che vive qui, e la tomba di mia mamma».
In alcune famiglie si litiga, c’è chi vorrebbe fuggire e chi no. Come a casa di Marina, che lavora in una galleria d’arte a Mosca: «Vorrei andarmene, ma mio marito è contrario, dice che all’estero senza sapere le lingue e avere delle competenze particolari non troveremmo mai un lavoro. I nostri genitori sono qui e a casa abbiamo una nonna di 92 anni che ha bisogno di essere curata. Come faccio ad andarmene senza la mia famiglia? Sento che andrà tutto molto male, che tornerà la povertà, i banditi, forse una guerra civile. Abbiamo una piccola dacia fuori città – aggiunge – forse andremo lì, ho rinunciato a realizzarmi nel mio lavoro. Quando c’è la guerra nessuno ha più bisogno dell’arte».
Altre famiglie invece si spezzano: «Sono il figlio maggiore – racconta Sergey – mio fratello lavora all’estero, i nostri genitori sono anziani, hanno bisogno di cure, ed è giusto che il più giovane viva in un Paese libero e quello più anziano in uno totalitario».
Tra le paure più grandi dei russi c’è quella di non riuscire a trovare più le medicine per i loro malati: circa il 55% dei farmaci venduti in Russia sono importati, e quelli che sono prodotti in patria hanno bisogno di sostanze di importazione per almeno l’80%. Ci si aspetta interruzioni di forniture, scaffali vuoti, malattie che non si possono curare.
E se gli anziani sembrano più rassegnati – ma anche forse più capaci di immaginare il futuro, perché è il loro passato, sanno già come sarà – per i più giovani sembra solo un brutto film: «Ho 30 anni – scrive Liza – vengo da una piccola città della Siberia. E solo di recente ho iniziato a vivere, e non a sopravvivere: mangiare cibi deliziosi, comprare cose buone, fare qualche viaggetto con mio marito E ora il mio Paese mi sta gettando di nuovo nella povertà».
Ruslan vorrebbe andarsene in Georgia, o in un altro Paese della Cis, «ma ho 22 anni, sono in quell’età stupida in cui ho già dei risparmi ma non bastano per mollare tutto e andare a vivere in un Paese in cui non so quando potrò lavorare. Poi ho paura di lasciare mio padre e mia nonna che vivono a Samara. Se la pensione di nonna non sarà più sufficiente ci dovrò pensare io, forse arriverà la fame». Ruslan scrive anche un’altra cosa: «In fondo, non voglio andarmene, questo è il mio Paese, credo che possiamo cambiare qualcosa, soprattutto ora che il regime sembra più vulnerabile».
E’ la stessa cosa che pensa Oleg: «Sì, è vero, adesso un nonno impazzito (sono in molti a chiamare così il presidente Putin) rende la vita in questa casa molto peggiore. Ma so perfettamente che la Russia non è lui. La Russia siamo noi. Quando tutto sarà finito ci sarà molto da fare per ricostruire. Voglio essere tra quelli che lo faranno, voglio aspettare l’alba in Russia. Credo che dopo una notte così dura, l’alba che stiamo aspettando sarà incredibilmente bella».
( da la Stampa)
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Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
I MANIFESTANTI NON HANNO INTENZIONE DI SCHIODARE E VOGLIONO CHE IL MEGA APPARTAMENTO DA 50 MILIONI DI STERLINE OSPITI GLI UCRAINI CHE FUGGONO DALLA GUERRA
Alcuni membri del gruppo Anarchist Action Network hanno occupato una proprietà nel centro di Londra legata all’oligarca russo Oleg Deripaska. Secondo quanto riferito, gli anarchici stanno occupando il palazzo in piazza Belgrave per protestare contro l’invasione dell’Ucraina e per mostrare “solidarietà” al popolo ucraino e ai cittadini russi “che non hanno mai accettato questa follia”.
Il gruppo ha affermato che la proprietà servirà da “sostegno ai rifugiati, per il popolo ucraino e per persone di tutte le nazioni ed etnie”. Alcuni dei manifestanti hanno riferito alla stampa presente che non c’è acqua calda in casa e cibo nei frigoriferi, suggerendo, quindi, che la proprietà non risulta abitata da un po’.
I manifestanti, inoltre, hanno riferito che non intendono vivere o dormire nella proprietà, ma la occuperanno a rotazione. La scorsa settimana, il Regno Unito ha sanzionato Deripaska, un industriale con stretti legami con il presidente russo Vladimir Putin.
(da agenzie)
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Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
“FINCHÉ PUTIN RESTERÀ AL CREMLINO, LA PACE NON CI SARÀ, SUL CAMPO DI BATTAGLIA IN UCRAINA VIENE DECISO IL FUTURO DELLA NOSTRA CIVILTÀ. O IL PEGGIOR DITTATORE VERRÀ SCONFITTO O CI SARÀ L’ASCESA DEL TOTALITARISMO E L’EUROPA NON SARÀ PIÙ AL SICURO”
“L’Ucraina sta combattendo per tutti noi, per proteggere l’Europa contro il dittatore
russo”. Il campione di scacchi Garry Kasparov, attivista anti Putin in esilio a New York, interviene a “Propaganda Live” su La 7 e spiega perché lo zar Vlad va fermato militarmente. “C’è una regola semplice: i dittatori non si fermano, a meno che non vengano fermati. Putin non fermerà la sua espansione. Se lui riuscirà a prendere, che Dio non voglia, l’Ucraina, andrà avanti.
È assolutamente vitale per la sopravvivenza dell’ordine mondiale che venga sconfitto in Ucraina. Abbiamo tutte le componenti per farlo. Manca la volontà politica nel riconoscere che siamo già nella terza guerra mondiale. Non è una guerra che abbiamo scelto ma non possiamo evadere le nostre responsabilità”.
Kasparov accusa imprenditori e politici ammiratori di Putin: “Non volevano sentire i moniti che persone come me lanciano da 20 anni. La guerra in Cecenia, i crimini contro gli oppositori politici, l’aggressione all’Ucraina. Putin non era nascosto nell’oscurità. Ha fatto tutto alla luce del sole. Ma faceva più comodo ignorarlo per una questione di affari”. L’opposizione in Russia? “C’è stata un’opposizione contro Mussolini e Hitler?”, si chiede l’ex re degli scacchi.
“Se protesti in Russia contro la guerra ti becchi 3 anni di prigione. Solo 20mila hanno protestato? Non è la stessa cosa che protestare a Roma o a Firenze. In Russia la polizia in Russia ti picchia e ti mette in galera”.
Le sanzioni possono fiaccarlo? “Se fossero state adottate 3-4 mesi fa avrebbero scongiurato questa escalation. Ora dobbiamo pensare a vincere questa guerra. Non si può pareggiare, a differenza degli scacchi. O vinci o perdi. Finché Putin resterà al Cremlino, la pace non ci sarà. Sul campo di battaglia in Ucraina viene deciso il futuro della nostra civiltà. O il peggior dittatore verrà sconfitto o ci sarà l’ascesa del totalitarismo. Se la Russia vincerà, la Cina prenderà Taiwan e l’Europa non sarà più al sicuro”.
Negli scacchi vince chi fa il penultimo errore: “Sono sempre riluttante ad applicare le regole del gioco degli scacchi a Putin, con lui e gli altri dittatori penso più al poker. Ora Putin ha deciso di andare in all in. Se c’è il bluff lo scopriremo. Ha delle carte in mano che sono veramente scarse…”
(da agenzie)
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Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
MA ORA GLI UCRAINI GLI DANNO LA CACCIA PER ELIMINARLO
Il leader ceceno Ramzan Kadyrov ha deciso di imbracciare il fucile al fianco dei suoi miliziani fedeli alle truppe di Vladimir Putin impegnate in Ucraina. Ma la sua decisione potrebbe rivelarsi fatale, dato che le autorità di Kiev, per bocca del ministro dell’Interno ucraino, Anton Gerashchenko, sostengono di aver individuato il suo nascondiglio in un seminterrato a Ivankov, nel distretto di Kiev.
L’esecutivo guidato da Volodymyr Zelensky basa le sue affermazioni sull’analisi di un video diffuso proprio dal gruppo di miliziani vicini al capo ceceno, stretto alleato del leader del Cremlino. Nelle immagini lo si vede in una stanza, con sullo sfondo la bandiera cecena con la faccia del padre Achmat, mentre discute con alcune delle sue truppe, tra gli oltre 10mila combattenti che la Cecenia ha mobilitato per sostenere l’invasione dell’Ucraina.
Una trovata propagandistica che potrebbe aver però fornito indicazioni fondamentali al nemico. Si specifica infatti che il leader di Groznyj si trovava a Gostomel
Nonostante le sue minacce, la presenza di Kadyrov in territorio ucraino sembra aver scatenato una caccia all’uomo nei suoi confronti. L’ex parlamentare Yevhen Rybchynsky ha promesso una casa con un appezzamento di terreno vicino a Kiev a chi riesca a uccidere il leader ceceno: “Se Kadyrov è davvero vicino a Kiev, allora ogni combattente delle forze armate e dell’antiterrorismo deve porsi l’obiettivo di distruggere questa vergogna del popolo ceceno. Prometto che la testa di Kadyrov varrà una casa di 40 acri vicino a Kiev”.
(da agenzie)
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Marzo 14th, 2022 Riccardo Fucile
40.000 EURO RICEVUTI DA ESSELUNGA
È un «triplete»: alle condanne nel 2021 in primo grado per peculato e turbativa d’asta
degli ex contabili dei gruppi parlamentari Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, adesso si aggiunge la condanna per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti inflitta dal Tribunale di Milano al tesoriere della Lega, il deputato Giulio Centemero.
Otto mesi di pena per avere, a cavallo tra il 2015 e il 2016, concordato con l’allora patron di Esselunga, lo scomparso Bernardo Caprotti, un finanziamento illecito — all’inizio di 150.000 euro scesi poi a 40.000 — camuffato però da contributo alla luce del sole alla formale destinataria associazione «Più Voci» (di cui Centemero era legale rappresentante accanto a Manzoni, Di Rubba, e agli oggi deputato Alessandro Morelli e europarlamentare Alessandro Panza).
Un cambio in corsa, determinato dal fatto che il partito fosse sì interessato a recuperare risorse per l’indebitata «Radio Padania», ma tenendole fuori dal perimetro ufficiale della Lega e dunque al sicuro dalle inchieste all’epoca in corso, che poi dal 2017 sarebbero infatti sfociate nel sequestro genovese di 49 milioni ritenuti profitto di truffa allo Stato sui rimborsi elettorali della Lega dell’era Bossi.
La tesi della difesa di Centemero, affidata agli avvocati Giovanni Ponti e Roberto Zingari, era invece che il reato non fosse comunque configurabile perché «Più Voci» (che ha cessato di esistere) non sarebbe stata una «articolazione del partito», ma una Onlus autonoma, seppure di area culturale lumbard.
Al contrario, davanti alla giudice Maria Idria Gurgo di Castelmenardo il pm Stefano Civardi ha argomentato il contrario a partire dalla testimonianza dell’allora direttore delle relazioni istituzionali di Esselunga, Marco Zambelli, e dal fatto che i conti di «Più Voci» avessero poi bonificato soldi a «Radio Padania», e finanziato il 25 giugno 2016 il convegno «Il cantiere e il futuro in costruzione» organizzato a Parma dalla «Mc srl», società partecipata dalla Lega tramite la «Pontida Fin», concessionaria pubblicitaria di «Radio Padania», editrice della testata online «Il Populista.
Inoltre la Procura ha valorizzato che Centemero fosse simultaneamente tesoriere della Lega Nord, presidente di «Più Voci», e amministratore di «Radio Padania» e di «Mc srl»; e che in una mail del primo ottobre 2017, dopo la confisca di Genova, raccomandasse di escludere dai soci fondatori di nuove associazioni chi ricoprisse cariche ufficiali del movimento.
Inoltre molto al processo si è discusso intorno alla sentenza di Cassazione n.4187 del 1998, che qualificava come articolazione di partito «qualsiasi struttura a mezzo della quale il partito fa conoscere le proprie idee ancorché non vi sia un inserimento organico nella struttura del partito a livello centrale o periferico».
(da agenzie)
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