Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
SECONDO L’ISTAT LE PRINCIPALI “VITTIME” DEI LAVORI DA FAME SONO GLI APPRENDISTI (26% DEL TOTALE), GLI UNDER 30 (12,3%), CHI HA CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO (11,5%) E CHI LAVORA AL SUD (10,9%)
Nel 2021, l’anno della ripartenza dell’occupazione dopo il fermo imposto dalla pandemia, l’Istat ha contato 1,3 milioni di “posizioni lavorative”, cioè di contratti, con una retribuzione oraria inferiore a 7,79 euro lordi, un terzo più bassa di quella mediana pari a 11,69 euro. L’Istituto di statistica li classifica come “low pay jobs”, lavori da fame, pagati pochissimo.
Nel 2021 erano il 6,6% dei 19,5 milioni di contratti presi in esame da Istat: quelli del settore privato, escluso però il settore agricolo che avrebbe portato quella percentuale, superiore dello 0,6% al 2016 e in linea con il 2019, probabilmente ancora più su.
I low pay jobs , continua Istat, si concentrano tra gli apprendisti (26% del totale), i giovani under 30 (12,3%), i contratti a tempo determinato (11,5%), i contratti siglati al Sud (10,9%). Ma anche tra quelli sottoscritti dalle donne (7,1%), più numerosi di quelli sottopagati degli uomini (6,2%). Il lavoro povero è più diffuso tra le posizioni di breve durata, ad esempio nel 16,6% dei contratti che durano meno di un mese, nell’11,5% di quelli tra uno e tre mesi e solo il 2,7% nei contratti annuali.
Se si guarda a tutta la distribuzione dei contratti, divisi da Istat in decimi di retribuzione oraria dal primo 10% pagato meno all’ultimo 10% pagato di più, quindi da 8,32 euro lordi all’ora a 21,92 euro, si scopre che il 30% dei contratti non arriva ai 10 euro lordi orari.§
Quasi un terzo. Un dato emerso durante il dibattito sul salario minimo, innescato dalla proposta di Pd, M5S, Avs per i 9 euro lordi all’ora, poi affossata in Parlamento dalla maggioranza, vista la contrarietà della premier Meloni.
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
UN ITALIANO SU SEI SOFFRE LA FAME, IL VUOTO VIENE RIEMPITO CON CIBO SPAZZATURA CHE PEGGIORA LE CONDIZIONI DI SALUTE
Lo scorso anno le famiglie hanno speso un 4,1 % in più per nutrirsi, ma
hanno acquistato un 2% in meno di prodotti alimentari, nonostante abbiano fatto in misura maggiore gli acquisti nei discount rispetto ai supermercati, ipermercati, piccoli negozi e commercio ambulante. È quanto emerge dai dati sull’andamento delle vendite al dettaglio pubblicati ieri dall’Istat. Fotografano bene come le famiglie abbiano fatto fronte all’impatto dell’inflazione che è stato particolarmente pesante sui beni di necessità, in primis gli alimentari: hanno in molti casi ridotto il consumo e la qualità. La riduzione è stata altrettanto consistente, 2,3 %, per le vendite al dettaglio non alimentari, accompagnata in questo caso da una, sia pur più piccola (-0,3 %), riduzione di spesa. Ma la riduzione degli acquisti a livello aggregato nel caso dei beni non alimentari è l’esito di andamenti eterogenei, ove, a fianco di una drastica riduzione di acquisti di beni durevoli come elettrodomestici, radio, tv e registratori, mobili, il cui acquisto o rinnovo è agevolmente rimandabile, vi è stato un aumento negli acquisti di prodotti per la cura della persona e, in misura minore, per l’abbigliamento.
Si tratta di dati medi, che nascondono diseguaglianze tra chi ha potuto mantenere lo stesso livello e qualità di consumo alimentare, chi ha modificato di poco le proprie abitudini di consumo, e chi i invece neppure ricorrendo ai discount è riuscito a soddisfare appieno i propri bisogni alimentari, chi può sostituire una lavatrice rotta e chi non può neppure fronteggiare il costo della riparazione. Dobbiamo aspettare i dati dell’indagine sui consumi delle famiglie, non sulle vendite, per vedere l’ampiezza e distribuzione di queste differenze. Tuttavia già i dati disponibili segnalano che l’impossibilità di soddisfare i bisogni alimentari è un fenomeno diffuso in Italia, nonostante faccia parte degli otto Paesi più sviluppati, e non riguarda solo l’ultimo anno. Secondo l’Indagine europea sulle condizioni economiche e di vita (Eu-Silc) nel 2021 il 12% della popolazione sopra i 16 anni residente in Italia soffriva di deprivazione alimentare, non potendo consumare un pasto adeguatamente proteico almeno una volta ogni due giorni. Una percentuale più alta di quella stimata essere in povertà assoluta in quell’anno (9,1%). Non significa che saltava del tutto i pasti, ma che questi erano costituiti da cibo “riempitivo”, spesso di bassa qualità, il cosiddetto cibo spazzatura. Non a caso l’obesità, anche tra i bambini, è più diffusa nelle famiglie e nelle aree più povere. Una meritoria analisi in profondità di questi dati effettuata da ActionAid in collaborazione con Percorsi di Secondo Welfare ha evidenziato come l’incidenza di questa deprivazione fosse alta (oltre il 20%) tra i disoccupati, le persone inabili al lavoro, gli stranieri e le persone che vivono in affitto. Era oltre il 17% tra le persone a bassa istruzione. Le più deprivate dal punto di vista alimentare erano le famiglie monogenitore (per lo più con la sola madre) e le famiglie numerose, che sono anche quelle in cui è più alta l’incidenza della povertà assoluta. Ciò significa anche che, nonostante i genitori cerchino di salvaguardare il più possibile i bisogni alimentari dei più piccoli anche sacrificando i propri, una quota non irrilevante di bambini è esposta all’esperienza di avere carenze alimentari. Sempre secondo l’indagine Eu-Silc, nel 2021 il 2,5% del bambini e ragazzi sotto i 16 anni non ha potuto fare un pasto proteicamente adeguato almeno una volta al giorno.
Come segnalano le ricerche sulla distribuzione e l’accesso agli esercizi che vendono alimenti, specie nelle grandi città, anche recarsi in un discount o in un supermercato dove trovare prodotti non di marca e/o a prezzo scontato e verdura e frutta fresche non sempre è agevole per chi si trova in povertà e vive in periferie prive di servizi sia pubblici sia privati, inclusa la grande distribuzione. E i negozi di prossimità o non ci sono o offrono prodotti troppo costosi per budget familiari risicati. In taluni quartieri periferici poveri gli unici prodotti alimentari che si trovano in zona sono gli snack dei distributori automatici. Il costo in termini di utilizzo di mezzi di trasporto e di tempo (per persone già sovraccaricate da orari di lavoro lunghi e scomodi e/o da carichi famigliari pesanti) per raggiungere un discount o un supermarket può costituire un vincolo aggiuntivo alla scarsità di reddito. In questa prospettiva, il relativo successo dei discount, seguiti dalla grande distribuzione, a sfavore dei piccoli negozi è un segnale ambivalente. È negativo per il piccolo commercio e i suoi addetti, sempre più in affanno rispetto alla grande distribuzione, senza riuscire a competere almeno sul piano della prossimità per chi ha difficoltà a muoversi a motivo di risorse economiche insufficienti.
(da La Stampa)
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Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
NON SOLO: IL SOTTOSEGRETARIO, QUANDO È PARTITO IL COLPO, SAREBBE STATO IN SALA E NON FUORI, COME HA DICHIARATO… MORELLO È UN GRANDE AMICO DI DELMASTRO… UNA VERSIONE CHE STA MANDANDO NEL PANICO I VERTICI DI FRATELLI D’ITALIA E RENZI CI METTE L’ASSO: “RAPPORTI OPACHI TRA DELMASTRO E LA PENITENZIARIA DI BIELLA, SE ABBIAMO CHIESTO LE SUE DIMISSIONI, C’E’ UN MOTIVO”
Lo ha detto dal primo momento. Lo ha spiegato al presidente del gruppo parlamentare di FdI da cui è stato sospeso, Tommaso Foti, che è andato a trovarlo nei giorni scorsi. Lo giura sui suoi figli. Lo ribadirà ai magistrati. “Non sono stato io a sparare la notte di Capodanno”.
La versione del deputato Emanuele Pozzolo, in attesa delle risultanze dello stub, sta gettando in ansia il partito di Giorgia Meloni. In Transatlantico i patrioti non parlano d’altro. Perché in questa storia sembra esserci qualcosa che non torna.
E che riporta alla ribalta il ruolo di Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia ultrameloniano, presente la notte dello sparo alla festa, organizzata dalla sorella-sindaca a Rosazza, in compagnia della scorta. A rimanere ferito dal colpo del mini revolver di Pozzolo è stato Luca Campana, marito della figlia del caposcorta di Delmastro, l’ispettore capo della penitenziaria Pablito Morello (cognome cambiato nel ‘96: si chiamava Porcello).
Giorgia Meloni ha chiuso il caso Pozzolo con parole inappellabili: “La questione è che chiunque detenga un’arma ha il dovere legale e morale di custodire con responsabilità e serietà quell’arma”.§
Pozzolo però sta ripetendo ai vertici del partito che il colpo sarebbe partito al caposcorta di Delmastro, Morello, e che – versione tutta da verificare – il sottosegretario al momento dell’incidente si trovava nella sala dove si stava festeggiando l’arrivo del 2024 con tutti gli altri invitati.
E quindi non era, come dichiarato subito, in un parcheggio a duecento metri di distanza a caricare da solo in auto gli avanzi del cenone. Sono due versioni contrapposte e che stanno facendo piombare in ansia il partito di Via della Scrofa.
Anche perché il caso non sembra chiuso. Matteo Renzi, che dal primo giorno chiede le dimissioni di Delmastro, oggi in Senato interrogherà il ministro della Giustizia Carlo Nordio, competente sul Dap, che ieri al Foglio ha detto “di non sapere più di quanto ho letto in questi giorni”.§
Il leader di Iv dal primo momento ha parlato di “caprone espiatorio” nei confronti di Pozzolo, lasciando intendere di presunti rapporti opachi fra Delmastro e la penitenziaria locale di Biella.
“La vicenda dello sparo di Capodanno è molto più grave di quello che sembra. Siamo gli unici che continuano a chiedere le dimissioni di Delmastro: un motivo ci sarà, no?”.
Parole, illazioni, spifferi della procura che rimbalzando a Roma, nella bolla del Parlamento, iniziano a preoccupare non poco i vertici di FdI. “Che succede se Pozzolo, comunque non perdonabile perché ha tirato fuori un’arma, dicesse il vero? Che succederebbe ad Andrea, già rinviato a giudizio per il caso Cospito?”.
Il problema è la difesa del sottosegretario meloniano, fedelissimo della leader fin dai tempi della scissione dal Pdl quando era assessore a Biella e l’attuale caposcorta, Morello, sedeva tra i banchi del consiglio comunale.
Dunque un compagno di partito e di battaglie politiche a tutti gli effetti, diventato il suo angelo custode (modalità abbastanza inusuale, se non inedita). Questa storia rischia di diventare altro rispetto alla polemiche sul parlamentare pistolero e su una classe dirigente, quella di FdI, considerata non sempre all’altezza.
Delmastro si dice tranquillo. Non c’era e l’arma non era nelle mani di Morello. Dalla sua ha le testimonianze della sorella e della famiglia del caposcorta (compreso il ferito che dopo tre giorni ha sporto querela), l’assessore Davide Zappalà e il consigliere Luca Zani, tutti di FdI. Eppure in Via della Scrofa sono più agitati che mai.
Sete di verità o ansia da brutte sorprese? Di sicuro il deputato si sta lamentando di essere stato scaricato dal sottosegretario, che in passato è stato il suo mentore.
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
LA “DISINFORMAZIONE” PUTINIANA USA LE IMMAGINI DELL’ADUNATA NERA PER SCAGLIARSI CONTRO “L’ITALIA FASCISTA” DOPO L’AIUTO ALL’UCRAINA… MOSCA E PUTIN DI GUARDANO BENE DAL DIRE CHE A ACCA LARENTIA C’ERANO ANCHE NEONAZISTI RUSSI E CHE I DENUNCIATI APPARTENGONO A UN MOVIMENTO FASCISTA, CASA POUND, NOTO SEMMAI PER GLI INVITI A DUGIN, L’IDEOLOGO DI PUTIN
«La situazione nella capitale italiana, Roma, è attualmente questa: ecco
come militanti italiani di destra hanno onorato la memoria di tre loro fratelli di sangue neofascisti, non solo con il saluto romano, ma con l’ovvio, e per nulla nascosto, “Sieg Heil”.
È degno di nota che tutto questo accade vicino all’ex quartier generale di un partito neofascista, il Movimento sociale italiano, che poi si è trasformato in Fratelli d’Italia, il cui leader è Giorgia Meloni, l’attuale presidente del Consiglio italiana. Vale a dire, proprio davanti ai nostri occhi l’Europa sta tornando alle sue radici e origini (ossia il nazifascismo). Tutta la sua presunta educazione post-bellica, che era mirata in teoria a separare gli europei dall’eredità del nazismo, è andata in fumo».
Chi parla così non è qualche sincero democratico preoccupato delle sorti dell’Italia e nientedimeno dell’Europa, ma è Olga Skabeyeva, una delle più scatenate propagandiste di regime di Vladimir Putin.
Lei, con Margarita Simonyan e Vladimir Solovyov, rappresenta la trimurti della propaganda di regime della tv di stato putiniana. Ossia il megafono di una dittatura. E così a Skabeyeva ieri nel suo programma, in prime time, nello show di massimo ascolto su Rossiya 1, non è parso vero poter disinformare e fuorviare sulla situazione in cui versa l’Italia, dipinta praticamente come un Paese che sta guidando il ritorno dell’Europa al nazifascismo.
«Proprio davanti ai nostri occhi, l’Europa sta tornando alle sue radici e origini», che sarebbe il nazifascismo, mentre scorrono in loop le immagini delle braccia tese alla manifestazione di Acca Larentia e i saluti neofascisti di un centinaio di militanti di estrema destra presentati come se coincidessero con l’intero Paese.
Naturalmente a Skabeyeva non importa che le braccia tese siano state condannate ampiamente nel mondo politico – persino nel centrodestra e nella destra ufficiale, dal ministro Tajani al ministro Sangiuliano, dal ministro dell’Interno Piantedosi a Ignazio la Russa e Fabio Rampelli. Sono particolari che alla propaganda russa non servono. A Putin serve far passare l’equivalenza Italia=ritorno del nazifascismo in Europa=armi ai discendenti di Bandera, ossia all’Ucraina.
Facciamoci qualche domanda, prima di farci sciocchi strumento dei veri fascisti contemporanei: le dittature. Mosca e Putin sono ben lieti di disinformare su un’Italia tutta “fascista” usando la storia di Acca Larentia – proprio mentre diversi estremisti di destra vengono denunciati, e molti altri sono stati identificati, dalla polizia di quale Paese? L’Italia. Mosca e Putin non dicono che i denunciati appartengono a un movimento fascista, Casa Pound, noto semmai per invitare e ospitare in Italia la tappa romana del tour di Alexander Dugin, il filosofo rossobruno figlio di un colonnello dei servizi russi, e tanto caro a chi?
A Putin, e alle sue battaglie anti-europee (la tappa milanese del tour di Dugin fu invece organizzata da Lombardia-Russia, l’associazione del consigliere di Salvini, Gianluca Savoini, e da vari reduci del neofascismo milanese). Ad Acca Larentia c’erano ovviamente diversi militanti di Forza Nuova, oltre che di Casa Pound: Forza Nuova dichiaratamente filorussa, che stampava manifesti per le vie della Capitale con scritto, testualmente, “Io sto con Putin”.
(da la Stampa)
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Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
“E’ COSI’ CHE FITTO SI OCCUPA DEL MEZZOGIORNO?”
Un altro colpo al sud da oltre 3 miliardi e mezzo di euro. Coperto per settimane dalla macchina della propaganda sul Ponte sullo Stretto, messa in piedi dal leader leghista Matteo Salvini. Ma che pure non è bastata a nascondere la realtà di un governo disinteressato al Mezzogiorno.
Sono i numeri a raccontare come Giorgia Meloni non abbia a cuore la questione meridionale: c’è un taglio netto alle risorse per Mezzogiorno, previste per la realizzazione o il miglioramento infrastrutture di vario tipo, dalla scuola alla sanità, passando per i trasporti e per la rete idrica. I 4,6 miliardi di euro stanziati fino al 2033 sono quasi tutti cancellati: restano in cassa meno di 900 milioni di euro, 891 milioni per l’esattezza.
Nel dettaglio sono “salvi” 100 milioni all’anno dal 2027 al 2033, che si sommano ai 191 milioni di euro già impiegati per il 2022 e il 2023. Spiccioli rispetto alle intenzioni iniziali.
La riduzione parte drasticamente dal 2024. La contrazione degli investimenti per il sud ammonta a 900 milioni di euro per il prossimo triennio. In questi 36 mesi è stato deciso il totale azzeramento del fondo perequativo infrastrutturale.
Tra le pieghe della manovra economica, che inizia a dispiegare i propri effetti, non mancano dunque delle sorprese. Spesso amare. E viene così smascherato lo storytelling meloniano.
MINISTRI IN SILENZIO
Il dato è incontrovertibile. Il governo, che ha varato il decreto Sud nei mesi scorsi e ha promesso la realizzazione del collegamento tra Calabria e Sicilia, in realtà taglia delle risorse già a disposizione. Sarebbe stato sufficiente prenderle e metterle nel motore dell’economia meridionale, stabilendo le modalità di ripartizione.
Invece è stato innescato un cortocircuito tra ministeri, quelli particolarmente interessati. Almeno sulla carta. Visto che Salvini è concentrato principalmente sul Ponte, che propaganda via social, mentre gli altri ministri, come quello dell’Istruzione Giuseppe Valditara, non ha valutato la portata dell’investimento del fondo sulla scuola, alla pari del collega della Salute, Orazio Schillaci.
Ne esce male, su tutti, il ministro del Sud, Raffaele Fitto. Non ha battuto ciglio di fronte all’azzeramento del fondo, nonostante la sua estrazione pugliese. E proprio il presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, rilancia un appello su Domani: «Nell’ottica di leale collaborazione istituzionale tra organi dello Stato, si chiede al governo di riprendere immediatamente il percorso già avviato».
Si tratta, osserva il governatore pugliese, di «finanziamenti che avrebbero potuto essere utilizzati per ridurre sensibilmente il loro gap infrastrutturale».
Un’occasione sprecata su cui le amministrazioni tentano il dialogo in extremis. La vicenda non riguarda solo i territori. I malumori si registrano anche in parlamento. Dalle opposizioni c’è una certa irritazione nei confronti dei silenzi di Fitto.
«C’è un ministro del Sud che si occupa del Mezzogiorno nei ritagli di tempo. Non ha mai difeso nemmeno la quota dell’80 per cento delle risorse del Pnrr», dice a Domani la deputata e presidente di Azione, Mara Carfagna, che da ministra del governo Draghi conosce bene il meccanismo dello strumento finanziario, ora cassato.
IL RITORNO DEL FONDO
La misura, del resto, ha avuto un iter alquanto travagliato. Non è nata sotto una buona stella. La sua istituzione risale addirittura al 2009, con l’ultimo governo Berlusconi, per volontà del ministro leghista Roberto Calderoli con lo scopo di dare attuazione al federalismo fiscale.
Così è stato previsto lo stanziamento di 4,6 miliardi di euro per intervenire su «strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche», sulla «rete stradale, autostradale e ferroviaria» per finire alla «rete, elettrica, al trasporto e distribuzione del gas» e alle «strutture portuali e aeroportuali».
Insomma, un progetto di ampio respiro. Peccato fosse finito nel dimenticatoio: le risorse sono rimaste bloccate per oltre dieci anni. Il motivo? La mancanza del decreto attuativo, seguendo un copione consolidato della politica italiana.
Così, dopo essere sparito dai radar, con il governo Conte II il fondo perequativo infrastrutturale è riapparso dietro la spinta dell’allora ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia. Ma è stato il governo Draghi a pianificare davvero l’impiego dello strumento.
Da ministra Carfagna curò la fase di ricognizione a palazzo Chigi per individuare dove e in che modo intervenire. A giugno, al termine di questa operazione, si attendeva il passaggio finale del riparto. La caduta del governo Draghi ha stoppato tutto e Meloni non ha dato seguito all’iniziativa. E l’ultima manovra fa capire il motivo.
«Il governo Meloni decide ancora una volta di prendersela con il Mezzogiorno, preferendo investire le risorse degli italiani sul ponte sullo stretto, invece di intervenire sui profondi divari esistenti tra nord e sud su sanità, trasporti e istruzione», dice a Domani Marco Sarracino, deputato e responsabile Sud del Pd.
«Diventa davvero incomprensibile», insiste il parlamentare, «questo accanimento della destra contro un territorio che invece meriterebbe opportunità e protezione». Non è la prima volta che il governo promette qualcosa per il sud e fa il contrario.
«C’è una presidente del Consiglio che nella conferenza stampa di fine anno non ha quasi mai parlato di Mezzogiorno» ricorda Carfagna, evidenziando che «quando lo ha fatto, ha detto una cosa non vera sui livelli essenziali delle prestazioni, perché con il governo Draghi ne abbiamo definiti e finanziati tre: per gli assistenti sociali, per gli asili nido e per il trasporto a scuola per le persone con disabilità».
(da editorialedomani.it)
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Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
DA UN ANNO UNA RAGAZZA ITALIANA E’ NELLE CARCERI DI ORBAN IN CONDIZIONI DURISSIME PER AVER MANIFESTATO CONTRO UN RADUNO DI NEONAZISTI… IL PADRE HA CHIESTO L’INTERVENTO DEL GOVERNO ITALIANO: NESSUNA RISPOSTA… MA LO SLOGAN NON ERA “PRIMA GLI ITALIANI”?
Una ragazza italiana, Ilaria Salis, è detenuta da quasi un anno nelle
prigioni ungheresi, in regime di massima sicurezza, per avere manifestato a Budapest contro un raduno di nazisti europei. In quell’occasione scoppiarono disordini e violenze.
Salis, in compagnia di alcuni antinazisti tedeschi, avrebbe partecipato all’aggressione di un nazista che ha riportato lesioni guaribili in pochi giorni. I familiari di Ilaria hanno potuto parlare con lei solamente in settembre, otto mesi dopo il suo arresto.
Qualunque sia l’imputazione a carico di Salis, il caso colpisce soprattutto per i suoi risvolti italiani.
Il padre Roberto si è rivolto al ministero degli Esteri, al ministero della Giustizia, alla presidenza del Consiglio, per sapere se è possibile qualche passo ufficiale per assistere una cittadina italiana detenuta all’estero in condizioni durissime, pur essendo ancora in attesa di processo. Riposta ricevuta: nessuna.
Nemmeno “ci dispiace ma il caso non ci riguarda”, oppure “le autorità ungheresi faranno ciò che meglio credono”. No, non una parola detta, un rigo scritto, niente di niente.
Che Ilaria Salis sia finita nei guai per essersi contrapposta fisicamente, non sappiamo con quale grado di coinvolgimento, a un raduno nazista, è probabilmente un elemento che non le giova di fronte alle autorità di un Paese retto dall’estrema destra nazionalista.
Ma che le autorità italiane non si sentano in dovere, almeno per salvare la forma, di dare assistenza ai familiari della detenuta, è desolante. L’Ungheria è membro dell’Unione Europa. I due capi di governo, Meloni e Orbán, sono in ottimi rapporti. Ma né l’una né l’altra circostanza sembrano avere alcun peso per la sorte della cittadina italiana Ilaria Salis. Domanda: ma lo slogan non era “prima gli italiani”?
(da La Repubblica)
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Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
MENTRE NOI BESTIE ARRANCAVAMO TRA LAVORI PRECARI E SOTTOPAGATI E FACEVAMO LA FILA ALLA ASL, LUI CREAVA POSTI DI LAVORO… E ORA CI SA’ LEZIONI
Flavio Briatore, l’anello di congiunzione tra il Suv e l’uomo, si confida a Libero per consegnare ai posteri il manifesto della Weltanschauung che condivide con la razza padrona e cafona di cui è prototipo quasi didascalico.
L’intervista è affidata alla prestigiosa penna di Hoara Borselli, già concorrente di Miss Estate Festivalbar, perché nemmeno una goccia vada sprecata della saggezza emunta da questo gigante del pensiero contemporaneo, e comincia così: “Dottor Briatore”, col vocativo. In realtà Briatore è al massimo geometra, diploma peraltro conseguito con fatica (siamo andati a controllare che non avesse lauree honoris causa, in Italia tutto può essere: l’unica occorrenza “Briatore + laurea” è una sua uscita del 2015: “Mio figlio Nathan all’università? No, ad aiutarti nella vita oggi è soprattutto la rete di conoscenze che sai costruirti sul campo, quello che io chiamo connecting people”, perbacco), ma in effetti ultimamente è uso presso ricconi e liberali (vedi il signor Carlo Bonomi, ragioniere, o il ministro Guido Crosetto, diplomato classico) farsi chiamare “dottore” pure se l’università la si è vista tutt’al più dai finestrini dell’auto blu.
Comunque: il colloquio è un atto di bullismo ai danni di Angelo Bonelli, segretario dei Verdi, colpevole di sospettare che il governo Meloni faciliti Briatore sulle concessioni balneari. Un pensiero bislacco, venuto a Bonelli solo perché la storica socia balneare di Briatore è quella Daniela Santanchè ministra del Turismo che non si è mai vergognata (al contrario di Briatore, che è tutto dire), del fatto che il Twiga, stabilimento dei vip in Versilia dove una experience in “tenda araba” costa 700 euro al giorno, fattura 7 milioni l’anno e paga allo Stato 17 mila euro di canone.
È chiaro che attraverso Bonelli, per metonimia, si intende picchiare duro su quella parte di società che ostacola Briatore e quelli della sua schiatta: “la sinistra” (è dimostrato che più sale l’Isee, più si hanno allucinazioni circa la presenza di una sinistra in Italia), i sindacalisti, gli ecologisti, i disoccupati e in generale i poveri, questi mantenuti dallo Stato o, quando gli va bene, dai magnanimi imprenditori che li fanno lavorare.
Come disse l’economista e imprenditore americano Warren Buffett, la lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi; pertanto anche a un epigono come Briatore il capitalismo marcescente impone di pensare l’umanità divisa in due: da una parte i perdenti, che rompono le palle a chi “fa”; dall’altra i vincenti, “chi vuol dare lavoro, chi investe, chi produce ricchezza e contribuisce al Pil del Paese”, questo è il verbo briatoriano. “C’è un odio sociale dilagante a sinistra”, denuncia Flavio alla giornalista del Bagaglino, “il vero problema è che nel nostro Paese ci sono ancora i 5Stelle, i comunisti, le sinistre che odiano gli imprenditori e cercano in tutti i modi di affossarli”: non si potrebbe arrestarli? Deportarli? Rinchiuderli in campi di concentramento? Ma no, Flavio non vuole gasarli, vuole solo che lo amino. Come?
Lo rivela implicitamente l’intervistatrice: “Forse perché perseguono il paradosso che per arricchire il povero la strada giusta sia impoverire il ricco?”. È come se avesse bestemmiato in chiesa, infatti tutti sanno che per arricchire il povero bisogna arricchire vieppiù il ricco, meglio ancora se evasore, cosa che peraltro la Meloni sta diligentemente facendo. Briatore scolpisce la Verità: “Solo l’imprenditore può creare posti di lavoro. Un povero può diventare ricco se trova un imprenditore che gli offre delle possibilità. In tutta la mia vita non ho mai visto persone senza capitali creare posti di lavoro”.
È vero. Mentre noi bestie arrancavamo tra lavori precari e sottopagati, facevamo la fila alla Asl e andavamo in pensione con la flebo al braccio, lui creava posti di lavoro per i poveri (e al Billionaire, sotto Covid, li faceva infettare in massa perché, come da prescrizione del dott. Zangrillo, l’Italia ne aveva “le palle piene” degli allarmisti e bisognava tornare “al ristorante, in discoteca”, sugli yacht ormeggiati a Porto Cervo, salvo poi infettarsi pure lui, Briatore, finendo ricoverato al San Raffaele da Zangrillo, con l’amica Santanchè che andava in Tv a negare il virus e a diagnosticare una prostatite).
Ma come è nato il suo mito? Le cronache narrano di un giovane Briatore galoppino di un imprenditore di vernici del Cuneese che ha rilevato un’azienda di Michele Sindona e che poi salterà in aria con la sua auto, costringendo Flavio a emigrare a Milano dove si reinventa broker, maestro di sci, discografico di Iva Zanicchi e co-gestore di bische clandestine, con polli da spennare ogni sera (nella rete pure Emilio Fede e il cantante Pupo).
Così, mentre la gente normale lavorava, i giudici di Bergamo e Milano spiccavano due mandati di cattura per associazione a delinquere finalizzata alla truffa contro Flavio e la sua “banda dei bari”.
Flavio si becca 3 anni più 1 anno e mezzo, ma essendo un vincente scappa alle Isole Vergini, dove apre negozi Benetton, famiglia che lo ripagherà affidandogli la Formula 1 (eccoli, gli “imprenditori che offrono una possibilità” ai poveri). Intanto un’amnistia lo salva e l’Italia riaccoglie uno dei suoi figli più meritevoli.
Il resto è cronaca: il sodalizio con Santanchè, una che secondo le accuse traffica coi bilanci della sua azienda, non paga dipendenti e fornitori, intasca i Tfr, mette gente in finta cassa integrazione, incassa i bonus pandemia, sfreccia in Maserati, non paga le multe e sta con un tizio che millanta titoli nobiliari (la Casa d’Asburgo-Lorena lo ha diffidato su Facebook), e per tutto ciò è ministra della Repubblica; gli yacht; le tasse a Montecarlo; le top model; le starlette; l’amicizia con Renzi.
Sul finale l’intervistatrice chiede a Flavio: “La sinistra che per definizione dovrebbe difendere i lavoratori ha abdicato alla destra le sue battaglie?”; lasciate stare che non sa l’italiano e pensa che “abdicare” voglia dire “delegare”, il concetto è giusto. Perciò quando Flavio dice senza alcun dubbio: “Per abolire la povertà l’unica strada possibile è creare posti di lavoro”, a noi ne vengono in mente altre due o tre, ma bisogna aver letto Marx o, a mali estremi, saper maneggiare il bastone.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
“L’HO FATTO PER ME , MA NON PER CANDIDARMI ALLE EUROPEE”
Ministro, Francesco Lollobrigida: che chioma!
“Ho fatto un rafforzamento”.
Bello, le dona. E’ andato in Turchia?
“No. Non le rispondo”.
E’ una svolta tricologica in vista di una candidatura alle Europee: un ciuffo per Strasburgo?
“No, non mi candido, e non so nemmeno cosa farà Giorgia, tanto me lo chiedete tutti. Però per noi è ora di rafforzarci, e anche io mi sono dato una rafforzatina”.
Simpatico e guascone come pochi, il titolare della sovranità alimentare, nonché super big del governo Meloni, da qualche giorno sfoggia anche una certa sovranità di capelli.
Le croniste più smaliziate lo fermano: ma che bravo barbiere che ha, caro ministro, ha cambiato look? Lui ride, e svia il discorso, mentre le nuove ciocche biondo cenere gli addobbano la testa, con un taglio da marines.
Le malelingue del Pd lo chiamano “Kim Jong Un Lollo”, come il leader nordcoreano che gioca con i missili e con l’atomica.
Lollobrigida è sempre stato il bello della destra meloniana: così conquistò la sorella della premier, Arianna, da ragazzi (“Giorgia, non può capire quanto è bello!”).
Ha sempre curato il fisico, forte di una presenza non banale. Da qui il soprannome “Lollo Beatiful”
Adesso l’uomo più forte del governo Meloni se ne sta qui in Transatlantico. Ricercatissimo da tutti, ammirato forse per una scelta che tanti uomini vorrebbero fare. Altro che nomine. “Non lo sapevo, ma ha fatto benissimo. Anzi, Lollo, che è un mio amico, ha tutta la mia approvazione. Un po’ di chirurgia estetica fa bene a tutti”, dice Renato Ancorotti, senatore di Fratelli d’Italia e imprenditore nel campo della cosmesi (per Natale ha regalato a tutti gli eletti un kit di bellezza a base di creme).
Senatore, il ministro ha rotto un altro tabù, dopo il Cav. “Con me apre un portone. Anche io io avevo le borse sotto gli occhi e me le sono tolte. Non c’è alcun tipo di problema, non ci deve essere tabù, anche noi uomini abbiamo diritto alla bellezza e a intervenire per stare meglio con noi stessi”. Capelli d’Italia.
(da editorialedomani.it)
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Gennaio 11th, 2024 Riccardo Fucile
CAMBIANO LE ABITUDINI PER L’INFLAZIONE E IL CAROVITA
L’inflazione brucia i consumi degli italiani. E le famiglie cercano di difendersi cambiando le loro abitudini. E andando a fare la spesa alla ricerca di sconti. Aumentano gli acquisti nei discount. Soprattutto, spiega oggi La Stampa, quelli alimentari. Che crescono dell’8,5% nel 2023. I dati Istat rielaborati da Coldiretti dicono che gli italiani l’anno scorso hanno speso 9 miliardi in più per mangiare di meno. E se la crescita complessiva della Grande Distribuzione continua (+3,4% a novembre rispetto all’anno precedente), il vero boom lo fanno i discount. Che crescono invece del 6,9% e un +8,5% nei primi undici mesi dell’anno passato. Cresce anche il commercio online, sempre per la ricerca di sconti. Mentre calano i negozi di prossimità.
Profumeria e cura della persona
I prodotti che crescono di più sulle vendite sono quelli relativi alla profumeria e alla cura della persona. Scendono invece elettrodomestici e televisori. La crescita è più alta nel valore che nel volume: un effetto spiegabile proprio con l’inflazione, che fa crescere i prezzi del singolo prodotto. Intanto le organizzazioni dei rivenditori dicono di vedere la luce in fondo al tunnel: Confcommercio dice che «il contesto economico nell’ultima parte del 2023 sembra aver superato la fase più critica». Mentre Confesercenti sostiene che «le vendite al dettaglio hanno il segno positivo a novembre, ma la crescita è totalmente azzerata dall’inflazione». Per i consumatori invece i numeri delle vendite al dettaglio dicono che la povertà è aumentata e non ci sono, per ora, soluzioni di continuità dopo il carovita che ha colpito le tasche degli italiani nel 2023.
I prodotti No logo
Gli italiani intanto spostano le loro preferenze alimentari. E vanno verso i prodotti No logo, cioè non di marca. Soprattutto, l’abitudine nel fare la spesa adesso vede almeno due tappe in due supermercati differenti: per esempio un discount e il Carrefour. E provano prodotti come l’olio “Terre sapienti”, il sugo “Tenuta del cervo”, il tonno “Rosa d’amore”. A volte anche cercando imitazioni di prodotti, come la pasticceria che somiglia al Mulino Bianco. Molti si pongono dei limiti. Per esempio, non acquistano carne e pesce e nemmeno il pane. «La carne rossa al discount è davvero un po’ troppo».
(da agenzie)
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