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TEATRO DI ROMA, DOPO IL COLPO DI MANO CON LA NOMINA DI LUCA DE FUSCO A DIRETTORE, ORA I SOVRANISTI ESAUTORANO PURE IL PRESIDENTE DEL CDA, FRANCESCO SICILIANO

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

IL MOTIVO? OFFRIRE A DE FUSCO UN SUPER-CONTRATTO CHE SFIOREREBBE I CENTOCINQUANTAMILA EURO… PER ACCELERARE SULLA NOMINA SAREBBE STATA TOLTO ADDIRITTURA IL POTERE DI FIRMA A SICILIANO (“UN ATTO SENZA PRECEDENTI”)… LA PROTESTA DEGLI ARTISTI, DA MATTEO GARRONE A ELIO GERMANO

Stanno per prendersi pure i costumi di scena. Dopo aver proceduto con un blitz alla nomina di Luca De Fusco, a direttore del Teatro di Roma, la destra di governo esautora pure il presidente del cda, Francesco Siciliano. Il motivo? Offrire a De Fusco un super contratto che, da come spiega Siciliano, in una nota, sfiorerebbe i centocinquantamila euro.
La nomina è già avvenuta senza il voto di Siciliano e di un altro membro del cda. L’operazione, voluta da Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura di FdI, avvallata dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è stata organizzata dal vicepresidente del Teatro di Roma, Danilo De Gazio.
Per accelerare sul contratto è stato tolto a Siciliano il potere di firma. Da come si legge, sempre nella nota di Siciliano, “mi è stato infatti riferito che il Consiglio di Amministrazione, con un atto oggettivamente senza precedenti, avrebbe deciso di assegnare il potere di sottoscrivere il contratto con Luca De Fusco (quale nuovo Direttore Generale del Teatro) ad un componente del Consiglio di Amministrazione diverso dal sottoscritto. E ciò, benché le mie prerogative statutarie come Presidente della Fondazione impongano al Consiglio di Amministrazione di rispettare la mia funzione – non sostituibile – di legale rappresentante della Fondazione stessa e, più in generale, di soggetto deputato alla esecuzione delle decisioni del Consiglio di Amministrazione”.
A opporsi alla nomina, si ricorda, il comune di Roma, che è l’azionista di maggioranza del Teatro di Roma, forte del contributo, oltre sei milioni e mezzo di euro. Il compenso di De Fusco ora è oggetto della contesa. De Fusco, prima della nomina, era direttore del Teatro Stabile di Catania, dove percepiva 68 mila euro. A Roma, si triplica.
(da IlFoglio)

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MAIGNAN E GLI INSULTI RAZZISTI: “TUTTI COMPLICI, GLI AUTORI, GLI SPETTATORI CHE NON LI HANNO FERMATI, L’UDINESE, LE AUTORITA’ E LA PROCURA”

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

A 24 ORE DAL FATTO, POSSIBILE CHE LA QUESTURA NON SIA RIUSCITA ANCORA A IDENTIFICARE I RESPONSABILI?

Mentre il Milan annuncia il silenzio social per 24 ore “a sostegno di Mike Maignan e della lotta al razzismo”, il portiere rossonero – vittima durante la partita contro l’Udinese di insulti razzisti che lo hanno portato a lasciare il campo per qualche minuto, pubblica sui suoi canali una lunga riflessione su quanto successo allo stadio friulano.
Maignan: “Chi non fa nulla è complice”
“Oggi è un intero sistema che deve assumersi le proprie responsabilità: gli autori di questi atti, perché è facile agire in gruppo nell’anonimato di un forum; gli spettatori che erano in tribuna, che hanno visto tutto, che hanno sentito tutto ma che hanno scelto di tacere, siete complici; il club dell’Udinese, che ha parlato solo di interruzione della partita, come se nulla fosse, è complice; le autorità e la Procura, con tutto quello che sta succedendo, se non fai nulla, sarai complice anche tu” scrive Maignan. “Non è stato attaccato il giocatore ma l’uomo, il padre di famiglia”. E ancora: “non sono una vittima” e “grazie del supporto, vi vedo e siamo insieme”.
La solidarietà (in ritardo) dell’Udinese
Colpevolmente in ritardo il messaggio dell’Udinese: “Udinese Calcio è profondamente dispiaciuta e condanna ogni atto di razzismo e violenza. Riaffermiamo la nostra avversione a qualsiasi forma di discriminazione ed esprimiamo la nostra profonda solidarietà al giocatore del Milan Mike Maignan alla luce del deplorevole episodio avvenuto sabato nel nostro stadio” recita una nota del club bianconero. “L’Udinese collaborerà con tutte le autorità inquirenti per garantire l’immediato chiarimento dell’accaduto, con l’obiettivo di adottare ogni misura necessaria per punire i responsabili. Come Club, continueremo a lavorare diligentemente, come abbiamo sempre fatto, per promuovere la diversità e l’integrazione di tutte le etnie, culture e lingue tra i nostri giocatori, lo staff, la città ed una tifoseria che ha sempre dimostrato correttezza”.
L’assocalciatori: “Abbiamo bisogno dello Stato e del Governo”
“Il mondo del calcio non può risolvere la piaga del razzismo da solo” dice Umberto Calcagno, presidente dell’Aic, il sindacato dei calciatori. “Sono stufo di questi continui episodi, non è più concepibile che queste cose accadano con questa frequenza. E’ una cosa mostruosa che gli insulti razzisti che ricevono i calciatori su tutti i campi abbiano superato quasi la metà degli insulti che ricevono in generale, come dimostra il report Aic presentato l’anno scorso. Se può esserci un aspetto positivo in quanto accaduto a Udine è che tra l’arbitro Maresca, il portiere Maignan ed i calciatori del Milan ci sia stata una grande collaborazione. Il messaggio che vorrei mandare è che il mondo del calcio non può da solo risolvere la questione, purtroppo – ricorda il n.1 dell’Aic – questo è lo specchio della società e gli stadi non devono diventare il luogo adatto a questo tipo di fatti. Abbiamo bisogno dello Stato e del Governo”.
Il sindaco di Udine propone la cittadinanza della città
Il Sindaco di Alberto Felice De Toni ha contattato il Milan e ha invitato Maigna in città, per delle iniziative anti discriminazione dedicate alle scuole e ai ragazzi. L’idea è di conferirgli in quell’occasione anche la cittadinanza onoraria del capoluogo friulano. “Udine non è una città razzista” ha spiegato il Sindaco, “sono rimasto profondamente ferito per quello che è accaduto ieri e proprio per questo voglio esprimere la solidarietà di Udine, dei friulani e dei tifosi dell’Udinese che non si sentono rappresentati da quello che è accaduto ieri. Voglio che Maignan torni a Udine per portare con la sua esperienza personale un messaggio fortissimo alle nuove generazioni. A Udine il 14% dei residenti è di origine straniera. Da sempre il nostro territorio di frontiera è crocevia di popoli e culture. Non c’è spazio per alcuna discriminazione. Per questo proporrò al prossimo consiglio comunale che in quell’occasione Maignan diventi cittadino onorario della città”.
Le indagini dopo 24 ore: ancora nulla di fatto
Nell’immediatezza del fatto, il questore di Udine, Alfredo D’Agostino, che stava seguendo la partita ha fatto sapere che sono già in corso le attività, da parte della Digos e dei reparti specializzati in servizio per la partita, per individuare gli autori dei cori razzisti all’indirizzo del portiere degli ospiti.
D’Agostino ha precisato che si tratterebbe di un episodio molto circoscritto ad alcuni tifosi che si trovavano immediatamente alle spalle del portiere e che non si sono uditi da parte del resto dello stadio. Le indagini sono state immediate avviate dopo la prima denuncia del portiere e gli agenti hanno raggiunto la curva nord.
Dopo queste affermazioni ci si aspettava l’identificazione immediata del gruppo di responsabili. A 24 ore dal fatto invece nulla di nuovo.
(da agenzie)

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GENOVA PER LORO

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

NEL CENTRO STORICO MOLTI RESIDENTI SE NE VANNO, CRESCONO GLI AFFITTI, GENTRIFICAZIONE E DISAGIO SI SOVRAPPONGONO, CHIUDONO NEGOZI DI PROSSIMITA’

Ogni sabato mio padre – era uno spedizioniere – mi portava a fare una passeggiata in porto, vicino alla Stazione Marittima. Ero affascinata da quel mondo scuro, vietato ai miei compagni di scuola, pieno di pozzanghere, attraversato da binari, con le gru alte fino al cielo, e ne respiravo l’odore di pesce, sale e ferro: era l’odore della mia città.
Da tempo Genova ha perso quell’aroma. Una profumeria del centro storico ne ha perfino sintetizzato la fragranza: sa vagamente di basilico e i turisti possono portarsela a casa in boccette.
Oggi la città è dipinta di colori pastello che scacciano il grigio dei miei ricordi: la luce è ancora d’argento, ma ha perso quel livore che aleggiava sulle strade. Ci sono mostre, musei, teatri e le strade sono vivaci. Il sabato e la domenica comitive di turisti affollano il centro storico, dove alcune panetterie sono diventate bakery e sono spuntate dappertutto antiche osterie, focaccerie con i tavolini di plastica e rivendite di pesto in barattoli.
La zona che è cambiata di più è proprio quella della Stazione Marittima che, sparite gru e pozzanghere, oggi è sede della facoltà di Economia e commercio dell’università e attrae imprenditori e costruttori, vicina com’è all’imbarco e allo sbarco delle migliaia di passeggeri delle navi da crociera. Il passato industriale e portuale lascia spazio a un presente sempre più votato al tempo libero che, ovunque, sparge simboli di questo passaggio: il Ponte Parodi, dopo anni di abbandono, ha accolto il Winter Park delle feste natalizie, mentre il silos granario Hennebique, ora trasformato in cantiere, ospiterà un polo multifunzionale che, fra le altre cose, offrirà servizi a chi viene e chi va.
Dando le spalle alla Stazione Marittima, lassù, in cima a una collina, i turisti appena sbarcati intravedono Forte Begato, una delle sedici fortificazioni di un sistema militare costruito fra XVIII e XIX secolo, ora riunito nel Parco delle Mura. Sul sito-vetrina Genovameravigliosa il Comune, che è proprietario di sette forti, li propone in concessione temporanea ai privati che vogliano sfruttarne le potenzialità turistiche perché tra qualche anno saranno raggiungibili anche dai crocieristi, grazie alla nuova funivia che collegherà la Stazione Marittima al Forte Begato, sorvolando il quartiere del Lagaccio.
L’impianto, realizzato da Doppelmayr Italia-Collini, sarà finanziato con fondi complementari al Piano nazionale di ripresa e resilienza del ministero della Cultura e costerà 40,5 milioni di euro, più della metà dei 70 milioni stanziati per il recupero di tutto il sistema dei forti.
Avrà tre stazioni, compresa una intermedia che dovrebbe servire alla viabilità cittadina, e si sosterrà su quattro piloni, uno dei quali da progetto è alto 72 metri e crescerà in mezzo alle case. Gli abitanti del Lagaccio e molti altri genovesi dicono che il quartiere, famoso per i biscotti e costruito negli anni Sessanta per operai e portuali, avrebbe bisogno di altro: in un’area di un chilometro quadrato abitano circa 11 mila persone che, negli anni, hanno perso punti di riferimento: il consultorio, l’ufficio postale, i laboratori di artigiani, molti negozi di alimentari.
Il comitato “No funivia – Con i piedi per terra” attende l’esito di due ricorsi al Tar. Nell’ambito della conferenza dei servizi che ha approvato l’opera (il 7 dicembre 2023), la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Genova ha fatto mettere per iscritto, oltre a varie modifiche a stazioni e piloni, anche una nota sull’impatto della presenza dei turisti sul “sistema dei Rolli”, ovvero degli antichi palazzi nobiliari del centro storico che sono patrimonio Unesco.
La nota afferma implicitamente un principio: il turismo inquina perché è un’industria che ha effetti sul territorio. E tutti ne facciamo parte appena ci muoviamo da casa; ingranaggi di un sistema che periodicamente, nel bene e nel male, pretende da noi tributi in selfie.
La tensione di interessi tra chi in un posto ci abita e chi ci passa è più visibile nelle città in fase di passaggio: non ancora soffocate dai visitatori – come Venezia o Firenze – ma vicine alla soglia che il sociologo Marco D’Eramo nel libro Il selfie del mondo spiega con la fisica: «Come per i corpi c’è una temperatura precisa in cui passano dallo stato solido a quello liquido (…), ed è la temperatura in cui avviene la transizione di fase, così si può definire una soglia precisa che separa una città turistica in senso stretto da una città che vive anche di turismo». Questa soglia è data, per esempio, dai ristoranti: al di sotto della soglia «i turisti mangiano in ristoranti che cucinano per i locali»; oltre, «i residenti dovranno mangiare in trattorie mirate al mercato turistico».
Secondo D’Eramo va benissimo vivere «anche di turismo» mentre vivere «solo di turismo» porta nel medio-lungo periodo a stravolgere le città nella loro dimensione estetica e umana.
Consideriamo Genova una città-laboratorio: per capire quanto sia vicina alla soglia, diamo un’occhiata ai numeri.
Se è vero, come scrive D’Eramo, che «le città sono turistiche quando il numero di visitatori stranieri annui supera di gran lunga quello degli abitanti», Genova è ancora lontana dall’ebollizione: secondo l’Osservatorio turistico della Regione Liguria da gennaio a settembre 2023 si sono registrati 440.703 arrivi stranieri a fronte di 560.217 residenti (dai Istat ottobre 2023). Gli arrivi sono stati 80.045 in più rispetto allo stesso periodo del 2022 (+22,19%); le presenze (cioè le notti) 922.474, 150.120 più che nel 2022 (+19,44%).
Poi però ci sono coloro che a Genova passano durante una crociera: l’unico dato fornito dal Comune per il 2023 è di 959.775 passeggeri, in aumento rispetto ai 919.381 dello stesso periodo del 2022 (anno per il quale erano stati forniti dati più puntuali).
La media è di 3.157 persone al giorno con punto massimo, come nell’ottobre del 2022, di 5.742 persone.
Ho mandato ad Alessandra Bianchi, assessora al Turismo del Comune di Genova, una serie di domande su queste cifre e su come l’amministrazione intende governare, ma non ho avuto risposta. Mi sarebbe piaciuto sapere anche se, secondo lei, esiste una correlazione fra il boom del turismo, le venti posizioni perse nella classifica del Sole 24 Ore per la qualità della
Alcune risposte alla domanda «come siamo arrivati qui?» arrivano invece da Luca Borzani, già direttore della Fondazione Palazzo Ducale e direttore del mensile La Città. Gli chiedo, in particolare, se la storia del capoluogo ligure sia simile a quella degli altri due poli del vecchio triangolo industriale: Torino e Milano.
«Genova non è mai stata una città-fabbrica», racconta Borzani, «era una città industriale, portuale e commerciale. Perfino gli operai genovesi erano diversi dai milanesi e torinesi». Di turismo qui non si parlò finché le fabbriche non iniziarono a licenziare, ovvero con la de-industrializzazione. Ma il turismo non fu visto come l’unica via di sviluppo, bensì associato ad altre due, «il porto e l’high tech».
Benché si mugugnasse «non saremo mai una città di camerieri», a Genova l’idea del turismo trovò terreno fertile e si sviluppò con i grandi eventi: le celebrazioni colombiane del 1992 e la Capitale Europea della Cultura nel 2004 (pur con la funesta parentesi del G8). La cultura diventò l’astro di una nuova identità, interna ed esterna, di una città che viveva un declino da cui non sembrava possibile sfuggire. Da qui una convinzione: «La riqualificazione del patrimonio storico-artistico doveva essere correlata a quella urbana» poi avvenuta a cominciare dal waterfront di Renzo Piano, nel sistema dei musei e in molte aree del centro storico. Fu un passaggio difficile e con tante facce, in un territorio consumato dall’industrializzazione, il cui punto d’arrivo fu, nel 2006, il riconoscimento di Genova e dei Rolli come Patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
Da quel momento in poi, per Borzani, prende il sopravvento un turismo «omologante e soprattutto predatorio» e, come in altre città, «l’attrattività diventa consumo dello spazio pubblico e perdita di qualità della vita dei cittadini». Scendo per via San Lorenzo, dove a lungo ho abitato, e per me è difficile riconoscere il mio stesso passato: negli anni i ristoranti, i box 24 ore e i negozi di servizi per turisti hanno sostituito quelli di abbigliamento e modellismo. La grazia dei marmi della cattedrale si perde negli spazi occupati dai dehors e nella loro famelica vitalità.
Accade a Genova, insomma, quello che succede in molti altri centri storici, a cominciare da Roma, Torino e Milano: chiudono i negozi di prossimità, aprono bed&breakfast e dehors. Lo spazio pubblico è privatizzato. Crescono gli affitti; gentrificazione e disagio si sovrappongono. Molti dei residenti abbandonano il centro storico per aree più periferiche: mentre certe aree diventano più costose, con ovvi vantaggi per chi ha case da vendere, altre vengono lasciate al degrado.
A Genova i confini tra le due zone si spostano continuamente, creando un profilo mutevole in cui i palazzi di via Garibaldi, presi d’assalto dai turisti e zeppi di appartamenti delle famiglie patrizie, sono a pochi passi dalle vie – per usare le parole di Fabrizio De André – frequentate anche di giorno dalle graziose.
A proposito di De André, di cui in questi giorni si ricordano i venticinque anni dalla morte, anche lui è oramai un protagonista del marketing urbano. Neanche Genova si salva dalla messa in scena che tutte le città, nel tentativo di rendersi originali, offrono di sé, avvitate a miti e retorica, con il grottesco effetto, come dice Borzani, «di rendersi invece sempre più uguali le une alle altre».
Chiedo a Marco D’Eramo al telefono se gentrificazione e turismo siano collegati. Intuisco un sorriso: «Non diamo al turismo anche le botte destinate al fratello più grosso, cioè il capitalismo. I centri storici si svuotano: dipende dalla rendita fondiaria, che è maggiore in centro».
Le prime ad andarsene sono le famiglie con figli, come succede «a Cleveland, dove ormai restano solo le banche; a Parigi, dove non si trova più un solo quartiere dentro le porte in cui gli appartamenti costino meno di 20 mila euro al metro quadro; a Londra, dove la presenza di una buona scuola elementare pubblica condiziona il mercato immobiliare».
Con il fratello minore del capitalismo, secondo D’Eramo, il problema è politico e culturale. Spesso si trascura che «il turismo è un’industria estremamente inquinante, come quella chimica, ma è centrale non solo per la nostra economia, ma per la nostra concezione della libertà: ce ne siamo accorti con la pandemia, di quanto non poterci muovere ci facesse sentire prigionieri. Il problema è che la nostra è una libertà che consuma il mondo. Non ci sono soluzioni allegre: è una contraddizione del moderno. Nessuno dice di fare a meno del turismo, ma di governarlo». Cosa che in Italia, secondo D’Eramo, non si fa adeguatamente.
L’Italia ha molti meno visitatori, per esempio, della Spagna, ma «gli enti che dovrebbero governare il turismo agiscono come pro-loco», invece di gestire i flussi.
Guardiamo le crociere: «Questo tipo di visita non porta nulla ai centri urbani; ma una media di poco più di 3.000 persone al giorno in una città di circa 561 mila abitanti potrebbe non essere un problema. La questione, ancora una volta, è di concentrazione e di governo dei flussi». A livello decisionale, i margini di intervento ci sarebbero: evitare la «monocultura turistica» e promuovere la riqualificazione urbana a beneficio dei residenti, altrimenti il rischio è che le nostre città si trasformino in costosi resort per chi ha più soldi di noi.
D’Eramo prevede che questo processo, oggi apparentemente inarrestabile, finirà quando scompariranno le cause che hanno originato il turismo: lavoro salariato e sistema pensionistico, ovvero tempo libero retribuito. Oppure imploderà con la noia: «Ci abitueremo ai viaggi e non ci daranno più emozioni».
Tra cinquanta o cento anni i bed&breakfast shabby-chic scompariranno da soli e forse ricresceranno anche i boschi squarciati dalle piste per biciclette, ma il problema per i nostri posteri sarà: cosa fare delle funivie, dei mega-alberghi e dei mega parcheggi, delle navi da duemila cabine?
(da il Post)

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“NON C’È NESSUNA PROVA CHE PRIGOZHIN SIA MORTO” – IL CAPO DELL’INTELLIGENCE MILITARE UCRAINA, KYRYLO BUDANOV, SGANCIA LA BOMBA

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

SECONDO IL “WALL STREET JOURNAL” IL “CUOCO” DI PUTIN SAREBBE STATO ASSASSINATO DALL’EX SPIA NIKOLAI PATRUSHEV, “SUGGERITORE DI PUTIN”… FATTO STA CHE DA QUANDO PRIGOZHIN È MORTO NESSUNO HA VISTO IL SUO CORPO

Le informazioni sullo scioglimento del Gruppo Wagner non sonovere e la dichiarazione sulla morte del leader del gruppo, Yevgeny Prigozhin, non può essere verificata: lo ha detto al Financial Times il capo dell’intelligence militare ucraina (Gur), Kyrylo Budanov, come riporta Unian.
“Wagner esiste”, ha affermato Budanov, respingendo le notizie secondo cui il gruppo è stato sciolto. Il numero uno dell’intelligence militare di Kiev ha poi commentato le notizie sulla morte del leader del Gruppo Wagner in un incidente aereo nell’agosto 2023. “Per quanto riguarda Prigozhin, non vorrei affrettarmi a trarre conclusioni”, ha detto. Il Cremlino nega qualsiasi coinvolgimento nell’incidente e afferma che il test del Dna ha confermato la morte di Prigozhin. Tuttavia, il suo corpo non è mai stato visto in pubblico. “Non sto dicendo che non sia morto o che sia morto”, ha precisato Budanov: “Sto dicendo che non ci sono prove che sia morto”.
(da agenzie)

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UNIVERSITA’ DI CAGLIARI CONTRO ISRAELE: “NIENTE ACCORDI CON I LORO ATENEI”

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

OLTRE 4.000 ACCADEMICI HANNO SCRITTO A TAJANI CONTRO I CRIMINI DI GUERRA DI NETANYAHU

Il rettore dell’Università di Cagliari, Francesco Mola, lascerà cadere i ponti costruiti in questi anni con le università israeliane. È ciò che da mesi chiedono gli studenti di numerose università italiane, da Bologna a Bari, da Roma a Torino, nel nome di un boicottaggio che finora, però, non aveva ancora trovato sponde nelle istituzioni universitarie.
Adesso, invece, Mola assicura ai suoi studenti che «non stipuleremo nessun nuovo accordo con atenei israeliani e non rinnoveremo gli accordi scaduti». E se qualcuno dell’ateneo manterrà dei rapporti, «lo farà a titolo personale», precisa il rettore. Insomma, per la prima volta sembra essersi aperta una breccia nel mondo universitario italiano.
Le richieste degli studenti sono più ampie e sono state presentate in una mozione che verrà discussa il 30 gennaio in una riunione del Senato accademico. Si chiede di esprimere «solidarietà alla popolazione di Gaza», di «condannare «l’apartheid e l’occupazione israeliana dei territori palestinesi» e di «impegnarsi in atti tangibili di solidarietà e partnerships con le istituzioni universitarie palestinesi». L’università – viene fatto sapere – condannerà gli atti di guerra e di violenza, ovunque avvengano, che siano commessi da Hamas o dall’esercito di Tel Aviv, ma non verrà presa una posizione netta a favore della Palestina, né a favore di Israele.
Per Mola, però, sembra essere quasi una questione formale, perché «abbiamo già preso una posizione», sostiene discutendo con gli studenti. «All’indomani del 7 ottobre – spiega – c’erano state pressioni da parte di colleghe e colleghi per prendere una posizione in favore di Israele e io ho detto di no, perché questa è una situazione particolare, difficile, con una certa complessità internazionale».
Fa di più, per mostrare sensibilità nei confronti della questione palestinese: «Non sono mai andato in vita mia in Israele. Nel mio piccolo…». E ripete, ancora una volta, che c’è stato qualcuno che ha chiesto all’università di pubblicare «un documento pro Israele, ma molti di noi – racconta Mola – si sono sollevati dicendo: “Non se ne parla proprio”».
Nessun nuovo legame con istituzioni universitarie israeliane, dunque. E l’unico accordo rimasto ancora attivo, tra l’Università di Cagliari e quella di Haifa, è ormai prossimo alla scadenza. Cancellarlo, come chiedono gli studenti con una lettera presentata al rettore, «non è così semplice», ammette Mola, eppure dall’ateneo sardo viene spiegato che quell’intesa scadrà a breve e verrà semplicemente lasciata esaurirsi, senza essere rinnovata.
«Il problema si sta ponendo un po’ in tutti gli atenei», ricorda Mola. È da mesi, infatti, che l’opinione pubblica si confronta su questo tema. Già a novembre, poche settimane dopo l’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza, oltre 4 mila accademici italiani avevano sottoscritto una lettera, indirizzata al ministro per gli Affari Esteri Antonio Tajani e alla ministra dell’Università Anna Maria Bernini, per chiedere «un cessate il fuoco immediato e il rispetto del diritto umanitario internazionale», denunciando, al tempo stesso, «un illegale regime di oppressione militare e Apartheid in Palestina» e un «chiaro intento di pulizia etnica» da parte del governo israeliano. Sono seguite, una dopo l’altra, le occupazioni degli atenei da parte degli studenti, con la richiesta di tagliare ogni ponte con le università israeliane, colpevoli, ai loro occhi, di aver supportato il governo nelle sue operazioni nella Striscia di Gaza. Proteste a cui si è risposto con una raccolta firme contro il boicottaggio delle università israeliane, sottoscritto da 7308 persone sulla piattaforma «Change.org». Si rinnova così un dibattito antico, in cui si discute se le università debbano avere anche un ruolo attivo e prendere posizione sui grandi avvenimenti della storia o se invece sia più corretto avere un atteggiamento neutrale, lasciando che la vita negli atenei rimanga impermeabile alle influenze politiche esterne. L’Università di Cagliari, intanto, muove un primo passo. E la speranza degli studenti, ora, è che questo mandi «un segnale» al mondo accademico italiano.
(da agenzie)

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IL PIANO MATTEI LO STA FACENDO PUTIN, UNA BASE MILITARE RUSSA NEL CUORE DELL’AFRICA: IL CREMLINO CERCA DI ALLARGARE LA SUA INFLUENZA NEL CONTINENTE NERO. LA STRUTTURA SARÀ COSTRUITA NELLA REPUBBLICA CENTRAFRICANA E OSPITERÀ FINO A 10MILA SOLDATI DI MOSCA

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

AUMENTATA ANCHE LA COOPERAZIONE MILITARE CON IL NIGER CHE, A NOVEMBRE, HA VOLTATO LE SPALLE A PARIGI. LA VOLONTA’ DI PUTIN DI RICATTARE L’EUROPA CON I PROFUGHI

Una base militare russa nel cuore dell’Africa. È questo uno degli ultimi obiettivi strategici di Mosca mentre cerca di allargare la sua influenza nel Continente. La struttura sarà costruita nella Repubblica Centrafricana e ospiterà fino a 10mila soldati di Mosca. « La Russia è in trattative con il governo a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, per ospitare una base militare russa – si legge nel comunicato dell’Istituto per lo studio della guerra (Isw)
Il Cremlino continua gli sforzi per espandere la sua influenza attraverso l’Africa corps (ex Wagner group nel continente) controllato dal ministero della Difesa». Secondo l’Isw, un think tank statunitense fondato da alcune società militari private durante le guerre in Iraq e Afghanistan, le operazioni degli apparati di intelligence russi stanno occupando un ruolo sempre più importante in Niger, Burkina Faso, Mali e Repubblica Centrafricana.
Dopo alcuni mesi di tensione con l’ex potenza coloniale francese, il Niger ha espulso l’ambasciatore Sylvain Itté a settembre, fatto chiudere l’ambasciata a ottobre, e annullato ogni accordo militare che aveva con Parigi (e l’Europa in generale) a novembre. Era ultimo Paese che vedeva sul proprio territorio la presenza di truppe di Parigi. Rimangono invece gli statunitensi con l’ambasciatrice, Kathleen FitzGibbon, una base militare ad Agadez, nel nord, e circa 1.100 soldati americani.
Dal 2014, Mosca ha comunque firmato nuovi contratti di cooperazione militare con «almeno 19 Stati africani». Ma la Russia non si sta muovendo in Africa solo militarmente e politicamente.
Nell’ambito del nuovo “colonialismo 2.0”, diversi contratti, alcuni pubblici altri meno, sono stati firmati con numerosi Paesi africani nel settore economico. La compagnia petrolifera nazionale del Sudafrica, Petro-SA, ha scelto la russa Gazprombank come partner per investire nel rilancio della raffineria di Mossel Bay.
L’impianto Gtl (da gas a liquido) produceva 45mila barili al giorno (bpd) ma sta attraversando un processo di manutenzione dal 2020 a causa della riduzione delle risorse nazionali di gas offshore. « Prima di scegliere la Gazprombank abbiamo controllato ogni possibile sanzione con i nostri legali », ha detto Sesakho Magadla, direttore operativo ad interim di PetroSA. L’Associazione delle banche russe e l’Associazione dei banchieri dell’Africa occidentale hanno inoltre firmato un memorandum d’intesa al 20esimo Forum bancario internazionale dello scorso settembre.
E sebbene il volume (ufficiale) del commercio tra la Russia e l’Africa ammontasse fino all’anno scorso a poco più di 18 miliardi di dollari le cose sembrano cambiare velocemente grazie a un aumento del 35 per cento del fatturato commerciale durante la prima metà del 2023. Secondo diverse fonti, i russi hanno ottenuto da mesi concessioni minerarie in vari Paesi africani tra cui Burundi per l’uranio, Mali e Burkina Faso per l’oro, Centrafrica per i diamanti e altri tipi di materie prime.
Inoltre, Mosca sta cercando di coordinarsi al meglio con i Paesi Brics (Brasile, India, Cina, Sudafrica), i quali stanno aumentando di numero, per rimpiazzare nel futuro prossimo gli scambi commerciali in dollari con le monete locali.
(da Avvenire)

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I POVERI COME ZAVORRA

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

IL CIALTRONE MILEI VUOLE CHE I RICCHI SI LIBERINO DEI POVERI, COSI’ I RICCHI NON AVRANNO PIU’ PROBLEMI

Forse perché sosia inconsapevole di Cetto Laqualunque, il caudillo argentino Milei ha pronunciato, a Davos, una delle battute del secolo. Ha detto, testualmente, che «l’Occidente è minacciato dal socialismo», nel divertito stupore dei potenti e dei ricconi colà riuniti, nessuno dei quali ha mai pensato che il socialismo, fenomeno novecentesco del quale scorrono qui e là gli ultimi rivoli quasi disseccati, possa mai costituire una minaccia.
A meno che Milei, come è abitudine della destra paranoica che governa ormai mezzo mondo, per «socialismo» non intenda welfare, ovvero l’usanza di finanziare con le tasse di tutti le necessità di tutti (sanità, scuola, infrastrutture, ordine pubblico), con qualche riguardo in più per chi è meno garantito.
Sì, forse l’anarco-liberista Milei voleva dire proprio questo, che i ricchi devono finalmente liberarsi dei poveri, zavorra inammissibile, costo insopportabile per lo Stato anzi per la Nazione, che è il nuovo/vecchio nome che la nuova/vecchia destra ha deciso di dare alle società umane.
Qualche tentativo in questo senso (fare che i poveri la smettano di attentare alla salute del business) già era stato fatto, da Thatcher in poi, con buoni risultati per i ricchi, meno brillanti per i poveri.
I quali, ad ogni buon conto, in molte parti del mondo plaudono ai Milei di turno e li votano, ritenendo che la causa dei loro mali non sia lo spropositato potere del capitale finanziario, ma sia la democrazia, l’impiccio che impedisce al Capo di turno di condurre il popolo alla vittoria.
Milei non lo ha detto, ma il suo vero nemico non è il socialismo, è la democrazia. Dopo la morte del socialismo è diventata la prima candidata al patibolo. Sarà impiccata tra gli applausi della folla.
(da La Repubblica)

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L’ESERCITO ISRAELIANO HA PROFANATO ALMENO 16 CIMITERI A GAZA

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

L’INCHIESTA DELLA CNN INCHIODA IL GOVERNO DI NETANYAHU

Sono almeno 16 i cimiteri profanati dall’esercito israeliano da quando è iniziata l’offensiva militare nella Striscia di Gaza a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Lo sostiene un’inchiesta della Cnn che sottolinea come l’Idf abbia «distrutto lapidi e, in alcuni casi, dissotterrato cadaveri».
Le rivelazioni dell’emittente statunitense arrivano dopo un lavoro di analisi delle immagini satellitari e filmati pubblicati sui social media, dopo che alcuni suoi giornalisti avevano visto coi propri occhi alcune delle zone profanate nel corso di una visita a Gaza con le stesse truppe israeliane.
Alcune delle devastazioni potrebbero configurarsi come «crimine di guerra», fa notare la Cnn.
In altri casi, sembra che l’esercito israeliano abbia utilizzato i cimiteri come avamposti militari, spiega Cnn. Le immagini e i filmati hanno infatti mostrato come i bulldozer israeliani abbiano trasformato i cimiteri in aree di sosta, radendo al suolo ampie aree e fortificando le proprie posizioni.
Come è accaduto nel quartiere Shajaiya di Gaza City, dove un tempo sorgeva il cimitero. Qui, i veicoli da guerra militari – precisa l’emittente – hanno costruito strutture difensive intorno al perimetro.
Una scena di devastazione è invece visibile al cimitero di Bani Suheila, a Est di Khan Younis, dove le immagini satellitari hanno rivelato la deliberata e progressiva demolizione del cimitero e la creazione di fortificazioni difensive nel corso di almeno due settimane tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio.
Mentre in altri luoghi di sepoltura, Al Falouja nel quartiere di Jabalya, a nord di Gaza City, nel cimitero di Al-Tuffah e in un cimitero nel quartiere di Sheikh Ijlin, diverse lapidi sono state distrutte e pesanti segni di battistrada indicavano il passaggio dei veicoli blindati o carri armati sopra le tombe.
(da agenzie)

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UN MILIONE E MEZZO DI TEDESCHI IN PIAZZA PER BANDIRE I NEONAZISTI DI AFD

Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile

DA AMBURGO AD HANNOVER, DA FRANCOFORTE A DORTMUND: MANIFESTAZIONI OCEANICHE PER APPLICARE LA COSTITUZIONE … IN ITALIA LE OPPOSIZIONI STANNO INVECE A LITIGARE TRA LORO

Sabato in moltissime città della Germania ci sono state grandi manifestazioni contro il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), per chiedere di bandirlo dal paese. Si stima che vi abbiano partecipato un milione e mezzo di persone: le proteste maggiori si sono svolte ad Amburgo, Francoforte, Hannover, Kassel, Dortmund, Wuppertal, Karlsruhe e Norimberga.
Le manifestazioni sono una reazione a un’inchiesta pubblicata a inizio gennaio dal sito tedesco di giornalismo investigativo Correctiv secondo cui a fine dicembre ci sarebbe stato un incontro tra alcuni leader di AfD e diversi membri del movimento neonazista tedesco e finanziatori del partito. L’obiettivo della riunione sarebbe stato quello di discutere un piano di espulsioni su larga scala delle persone richiedenti asilo, di immigrati con permesso di soggiorno e anche di cittadini tedeschi di origine straniera. L’operazione è stata definita “remigrazione”.
Manifestazioni del genere vanno avanti da giorni, ma quelle di sabato sono state le più partecipate: sono state sostenute anche dal cancelliere tedesco Olaf Scholz (Socialdemocratico), che aveva partecipato a una protesta domenica scorsa a Potsdam insieme alla ministra degli Esteri Annalena Baerbock. Le proteste sono state sostenute da molti altri politici, ma anche da vari allenatori e dirigenti del principale campionato di calcio tedesco (la Bundesliga), e da diversi vescovi.
AfD è stato fondato nel 2013 e oggi è il secondo partito più popolare in Germania dopo l’Unione Cristiano-Democratica (CDU, il principale partito conservatore tedesco), con un consenso a livello nazionale superiore al 21 per cento, ma che va oltre il 30 per cento nei sei länder (corrispettivo delle nostre regioni, ma con maggiore autonomia) dell’ex Germania dell’Est: in Sassonia e Turingia, dove il 1° settembre si terranno le elezioni regionali, arriva al 35 per cento.
Il partito ha negato che la “remigrazione” faccia parte del proprio programma, ma da giorni in Germania si sta comunque discutendo della possibilità di bandire l’AfD, sulla base dell’articolo 21 della costituzione tedesca.
L’articolo 21 prevede che siano «incostituzionali i partiti che, con i loro obiettivi o con il comportamento dei loro aderenti, cercano di indebolire o abolire l’ordine fondamentale democratico libero o di mettere in pericolo l’esistenza della Repubblica federale tedesca».
Non tutti sono concordi però sulla reale possibilità di mettere fuori legge l’AfD, e nemmeno sull’efficacia che potrebbe avere una tale misura. Bandire un partito in Germania è piuttosto complesso dal punto di vista legale, anche se ci sono dei precedenti: nel 1952 la Corte costituzionale tedesca bandì il Partito socialista del Reich, erede del partito nazista, e nel 1956 il Partito comunista tedesco. Ci sono però anche casi in cui la richiesta di bandire un partito è stata respinta: nel 2017 la Corte costituzionale tedesca si era opposta al bando del Partito nazionaldemocratico tedesco (NPD), considerato all’epoca da molti il partito neonazista più importante emerso nel paese dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
E poi ci sono dubbi sui risvolti politici che avrebbe una misura di questo tipo: alcuni infatti ritengono che chiedere alla Corte costituzionale di vietare l’AfD ora sarebbe particolarmente rischioso, soprattutto se la Corte dovesse poi rifiutarsi di farlo, perché potrebbe portare diversi elettori a simpatizzare con l’AfD per quello che sarebbe probabilmente visto come un tentativo di censura.
(da Il Post)

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