Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
LA MINISTRA DEL LAVORO CALDERONE, A CUI SPETTA LA NOMINA, VORREBBE VINCENZO DAMATO, IN BUONI RAPPORTI CON ARIANNA MELONI, SORELLA DELLA PREMIER
Volano dossier nelle stanze dell’Inps. Mancano solo gli ultimi
passaggi burocratici per la ratifica della nomina a presidente di Gabriele Fava, dopo l’ok di Camera e Senato incassati la scorsa settimana. Ma tutte le attenzioni della politica sono concentrate sulla figura chiave che guiderà nei prossimi anni la complessa macchina dell’Istituto di previdenza: il direttore generale.
O per meglio dire, la direttrice. Visto che la candidata in pole position è Valeria Vittimberga, capo della centrale acquisti dell’Inps, un passato nel Fronte della Gioventù. E soprattutto un’amicizia di lunga data con Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario omnibus di Palazzo Chigi e braccio destro della premier Giorgia Meloni.
Nomina che divide
Una nomina che divide, dentro e fuori dall’Istituto. Dove c’è chi prepara dossier per screditarne la figura, giudicata inadeguata per l’importante ruolo. La promozione della Vittimberga viene però considerata praticamente cosa fatta dalle parti di Palazzo Chigi. La stessa dirigente, a molti interlocutori, ripete di aver già iniziato una proficua collaborazione con il presidente designato, l’avvocato Gabriele Fava, ex commissario di Alitalia, uomo in quota Lega o meglio in quota Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia.
Un altro candidato importante in realtà c’è. Si tratta di un dirigente interno, Vincenzo Damato, esperto e stimato, lunga carriera in Inps, in buoni rapporti con Arianna Meloni, la sorella della premier e responsabile della segreteria politica di Fratelli d’Italia. Poiché la nomina del direttore generale, su proposta del Cda, spetta alla ministra del Lavoro, è probabile che Marina Calderone preferirebbe Damato a Vittimberga, più solido. Sempre se fosse costretta, come però pare, a rinunciare alla conferma dell’attuale dg Vincenzo Caridi per cui si è spesa. Finito pure lui nell’occhio dei critici per una gestione pasticciata del nuovo Reddito di cittadinanza, dall’sms in estate al blackout sui numeri di domande e pagamenti.
Ecco dunque la guerra per bande. Alla Vittimberga si rimprovera la gestione di alcuni delicatissimi dossier confluiti sui tavoli di Fazzolari a Palazzo Chigi e poi in legge di Bilancio. In particolare quello sulle pensioni con tutte le forme di anticipo penalizzate. E soprattutto con il passo falso del taglio ai medici e ad altri dipendenti pubblici che ha tenuto in ostaggio la manovra fino a Capodanno. Con la parziale soluzione di “Quota 46” dei camici bianchi, trattenuti al lavoro ad oltranza per evitare penalità. Una pezza peggiore del buco.
(da La Repubblica)
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Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“AVEVO CONCORDATO CON IL MINISTRO SANGIULIANO UN PERCORSO CONDIVISO. INVECE POI MOLLICONE”… “IMPUGNEREMO LA DELIBERA IN QUANTO ILLEGITTIMA”
Sindaco Roberto Gualtieri, la destra si è presa anche la Fondazione del Teatro di Roma.
«Sono sconcertato. È un grande atto di arroganza. Una prepotenza politica che conferma il loro deficit istituzionale».
Nel merito cosa contesta?
«Per governare una Fondazione come quella di Roma, che gestisce tre teatri, l’Argentina, l’India, villa Torlonia, e a cui si aggiungerà il Valle, serve un manager teatrale e non un regista come De Fusco».
Perché un manager?
«Perché sono teatri profondamente diversi tra loro e pertanto hanno bisogno di una progettualità distinta. De Fusco poggia la sua visione in un teatro molto tradizionale, che ha poco a che fare con la contemporaneità»
Nel metodo qual è lo scandalo?
«Nel giorno in cui il Presidente della Repubblica lancia un monito contro il pensiero unico della cultura di destra arriva un inquietante segnale che deve suonare da allarme per quelli che hanno a cuore il pluralismo e il senso delle istituzioni».
Perché sarebbe stato un blitz?
«Avevo concordato con il ministro Sangiuliano un percorso condiviso, nel metodo e nel merito. Invece poi un deputato ha fatto riunire i consiglieri delle destra in una saletta in assenza del presidente e del delegato del Comune di Roma».
Il deputato è Federico Mollicone, Fratelli d’Italia.
«Che ha organizzato questa prevaricazione in nome del suo partito, in spregio alla leale collaborazione tra le istituzioni».
Com’è stato possibile?
«Con l’esercizio strumentale delle funzioni vicarie o sostitutive del vice presidente rispetto alle prerogative proprie del presidente».
Scavalcando l’attuale presidente del Cda, Siciliano?
«Sì. Solo che non era maturata alcuna forma di assenza o impedimento da parte sua. Anzi, aveva invece esercitato le sue prerogative, differendo il consiglio d’amministrazione».
Per Mollicone è tutto legittimo.
«È una prevaricazione invece. L’ennesima. Le istituzioni hanno il dovere di collaborare di fronte a realtà culturali così importanti e i partiti non devono intromettersi».
Impugnerete la delibera?
«Assolutamente sì. È un atto improprio anche da un punto di vista formale, e mi sembra evidente che questo blitz non andrà da nessuna parte perché totalmente illegittimo. È veramente uno spettacolo penoso».
(da agenzie)
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Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
TRE CONSIGLIERI DEL CDA HANNO VOTATO UN DIRETTORE VICINO A GIANNI LETTA IN UN “INCONTRO ABUSIVO”… PROSSIMA TAPPA I DAVID DI DONATELLO
L’assalto del centrodestra alla cultura è inarrestabile e l’ultimo
oggetto di conquista è il teatro di Roma, anche a rischio di venire subissati di ricorsi.
Con un blitz, infatti, è stato nominato nuovo direttore generale il regista Luca De Fusco e la votazione è avvenuta in uno scenario surreale: in assenza del presidente del consiglio di amministrazione Francesco Siciliano e della consigliera Natalia Di Iorio che rappresentano il Comune e solo con il vicepresidente nominato dalla Regione Lazio Danilo De Gaizo, la presidente di ConLirica Daniela Traldi (anche lei di nomina della Regione) e l’attore Marco Prosperini, indicato dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. I tre, asserragliati nell’ufficio della fondazione in via Barbieri, avevano voluto fosse presente il collegio dei revisori per garantire la legittimità della seduta.
Col risultato di andare allo scontro totale e col rischio che comunque la votazione risulti illegittima.
Siciliano e Di Iorio, infatti, hanno tenuto una conferenza stampa durissima in cui hanno messo in discussione la validità del cda appena svolto in loro assenza, definendolo «una riunione privata». Infatti, la sera precedente il presidente Siciliano aveva disposto di sconvocare e rinviare la riunione di cda, secondo i poteri che gli riconosce lo statuto.
Di «incontro abusivo» ha parlato anche l’arrabbiatissimo assessore alla Cultura di Roma, Miguel Gotor, che ha definito quanto accaduto «un tentativo di occupazione da parte della destra».
L’ira del comune si spiega anche – come ricostruito da Siciliano – col fatto che i fondi a disposizione dell’ente siano per 6,5 milioni messi da Roma Capitale, che è anche proprietario dei tre teatri che la fondazione gestisce (l’Argentina, l’India e il teatro di Villa Torlonia) e solo uno dalla Regione Lazio ma, nonostante questo, esprimono un consigliere a testa. Fuori, quindi, il candidato sostenuto dal comune Ninni Cutaia, direttore generale del ministero della Cultura ed ex direttore del Mercadante. «Fusco è un artista, Cutaia è un manager e di questo noi abbiamo bisogno», è stato il ragionamento di Siciliano, che a Domani ha parlato di «violenza perpetrata e di strappo nei confronti della città e questo nessuna carta bollata potrà ricucirlo».
Regista del colpo di mano sarebbe stato il deputato romano di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, ispiratore al governatore Rocca e a Sangiuliano del nome di De Fusco, regista teatrale napoletano, e molto apprezzato anche dall’ex consigliere di Silvio Berlusconi, Gianni Letta. Tanto che lo stesso Mollicone, che formalmente nulla ha a che fare col caso, ha commentato «che non c’è stata nessuna forzatura, la riunione è assolutamente legittima, illegittimo è sconvocare un Cda soltanto aggiornato» e ancora «la nomina del direttore De Fusco è assolutamente piena e legittima».
Per tentare di risolvere in extremis il pasticcio si è mosso il sindaco Roberto Gualtieri, che ha parlato di «un teatro che non può essere bottino di una parte politica» e tra i vari tentativi ci sarebbe stato anche quello di cercare la premier Giorgia Meloni. Tuttavia, quanto accaduto a Roma è solo l’ennesimo episodio di un modus operandi ormai rodato di occupazione quasi militare di tutti i posti nel settore della cultura.
GLI ALTRI CASI
Recentemente, infatti, è andata in scena la sostituzione di Marino Sinibaldi dal Centro per il libro, di cui in 24 ore ha preso il posto l’ex caporedattore del Tg2 (quello di Sangiuliano) Adriano Monti Buzzetti. Nel corso di una risposta durante un’interrogazione alla Camera, il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi di Fratelli d’Italia ha messo il sigillo sulla scelta: «Fatevene una ragione».
Nel corso dei mesi, le nomine sono arrivate a pioggia: i due intellettuali di riferimento Pietrangelo Buttafuoco al vertice della Biennale di Venezia e Alessandro Giuli al Maxxi di Roma, ma anche l’ingresso di uno dei figli di Ignazio La Russa nel cda del Piccolo e la nomina (poi saltata) dell’ex amministratore delegato Rai, Carlo Fuortes, al San Carlo di Napoli con tanto di pasticcio giuridico e una legge su misura.
Passando per il centro sperimentale di cinematografia, con un emendamento per cambiare i vertici prima della scadenza.
In questo turbinio di sostituzioni, altre sarebbero nell’aria. Una in particolare: la possibile cacciata di Piera Detassis dalla direzione artistica dei David di Donatello, che avrebbe la colpa – risulta a Domani – di aver proposto come co-conduttrice, a fianco di Carlo Conti, Geppi Cucciari. Per il ministro della Cultura l’ipotesi è stato come un affronto: solo qualche mesa fa, infatti, è stata proprio la Cucciari ad aver preso in giro Sangiuliano al premio Strega. Scenetta che è diventata virale e che ha incrinato l’immagine del giornalista.
Per sostituire Detassis in pole c’è Tiziana Rocca, moglie dell’attore Giulio Base e organizzatrice di eventi. Sul teatro La Scala di Milano, dove attuale sovrintendente è ancora Stéphane Lissner (che ha vinto tutti i ricorsi contro la sua rimozione), si starebbe invece allungando lo sguardo di Fortunato Ortombina, direttore artistico e sovrintendente della Fenice di Venezia, dove ha l’anno scorso ha diretto alcune opere anche il direttore d’orchestra Alvise Casellati, figlio della ministra Elisabetta Che ha un sogno: applaudire al più presto il rampollo alla Scala.
(da agenzie)
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Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“UN INTERO SISTEMA DEVE ASSUMERSI LA RESPONSABILITA’”
«Non è stato il giocatore ad essere stato aggredito. E’ l’uomo. E’ il padre di famiglia. Questa non è la prima volta che mi succede. E non sono il primo a cui è successo. Abbiamo diffuso comunicati stampa, campagne pubblicitarie, protocolli e nulla è cambiato».
All’indomani dei cori razzisti alla partita Udinese-Milan contro di lui, parla Mike Maignan, portiere rossonero. «Oggi un intero sistema deve assumersi la responsabilità», spiega su X, facendo un lungo elenco. «Gli autori di questi atti, perché è facile agire in gruppo, nell’anonimato di una piattaforma. Gli spettatori che erano in tribuna, che hanno visto tutto, che hanno sentito tutto ma che hanno scelto di rimanere in silenzio, siete complici. Il club dell’Udinese, che ha parlato solo di interruzione della partita, come se nulla fosse, è complice. Le autorità e il pubblico ministero, con tutto ciò che sta accadendo. E se non fai nulla, sarai complice anche tu», spiega il giocatore.
«L’ho già detto – conclude – e se è il caso di ripeterlo lo ripeto: non sono una vittima. E voglio dire grazie al mio club AC Milan, ai miei compagni, all’arbitro, ai giocatori dell’Udinese e a tutti quelli che mi hanno mandato messaggi, che mi hanno chiamato, che mi hanno sostenuto in privato e in pubblico. Non posso rispondere a tutti ma ti vedo e siamo insieme. È una lotta difficile, che richiederà tempo e coraggio. Ma è una battaglia che vinceremo».
(da agenzie)
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Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
L’ESEMPIO DI PALERMO: NEL 2023 PER LE INTERCETTAZIONI SPESI 23 MILIONI, INCASSATI GRAZIE AI BENI SEQUESTRATI 321 MILIONI
La Procura di Palermo nel 2023 ha speso per le intercettazioni
circa 26 milioni di euro, ma da luglio 2022 a giugno 2023 ne ha “guadagnati” quasi 322 di milioni, valore totale dei beni confiscati e sequestrati anche grazie a inchieste fatte con captazioni telefoniche e ambientali. §
E che questo strumento di indagine fosse fondamentale nel perseguire reati di mafia lo aveva detto chiaramente il procuratore capo di Palermo in occasione dell’arresto di Messina Denaro.
La Procura di Milano invece nel triennio 2020-2022 ha utilizzato 25 milioni di soldi pubblici per “ascoltare” conversazioni, ma alla fine ha riportato nelle casse dello Stato circa 700 milioni, sempre tra beni confiscati e sequestrati.
Sono i numeri che smentiscono il ministro della Giustizia Carlo Nordio, pronto a ridimensionare il budget delle Procure. Chiaro che il totale di confische e sequestri non è frutto solo di indagini con captazioni telefoniche, ma la sproporzione tra quanto “investito” e quanto “guadagnato” dà la misura di quale sia stato il lavoro delle Procure.
“Non saranno mai toccate le intercettazioni nelle inchieste su mafia, terrorismo o gravi reati, ma una razionalizzazione della spesa è necessaria”, ha detto il Guardasigilli solo qualche giorno fa. Iniziativa che ha preoccupato non pochi magistrati, convinti che questo strumento sia fondamentale in indagini delicate, non solo per i reati di mafia, ma anche per corruzione e femminicidi. Proprio nel campo delle captazioni (per quel che riguarda il loro utilizzo, trascrizione e pubblicazione sulla stampa) questo governo più volte ha annunciato che cambierà molte cose.
Il procuratore Rossi “Falso dire che sono costose”
“La Procura della Repubblica – sono sempre parole di Nordio – è l’unico organo in Italia, e penso al mondo, che ha una spesa incontrollata, che non ha un tetto, né un budget, ma poi alla fine i conti non tornano…”. E subito gli ha risposto, nei giorni scorsi, il procuratore capo di Bari, Roberto Rossi: “È una bugia dire che le intercettazioni sono costose”. E ha ricordato i numeri della “sua” procura. Nel 2022 (i dati del 2023, non ancora pronti, dimostrano lo stesso trend), la Procura pugliese ha speso per intercettazioni e videosorveglianza 4,8 milioni di euro, di cui 1 milione e mezzo per intercettazioni telefoniche, 1,1 per il “noleggio delle apparecchiature per le ambientali”, 82 mila euro per intercettazioni informatiche e 2 milioni per “videosorveglianza e localizzazione dell’indagato”. Nel 2021 in totale per le captazioni sono stati spesi 4,1 milioni, nel 2020 3,7 milioni.
Queste cifre Rossi le confronta con quanto “guadagnato”, ossia quanto ricavato con sequestri e confische: nel 2022 la cifra è di 244 milioni. L’anno prima la cifra si è assestata a 149,2 milioni, nel 2020 ad altri 154,9 milioni. “La maggior parte di sequestri e confische della mia Procura sono stati possibili proprio grazie a indagini portate avanti con intercettazioni”, spiega Rossi al Fatto.
Spese tra Lazio e Lombardia
E le altre Procure quanto hanno speso per intercettazioni? Quella di Roma nel 2023 ha speso circa 10 milioni di euro. Le captazioni sono state usate in parecchie indagini, compresa quella che ha portato agli arresti domiciliari Tommaso Verdini, figlio del più noto Denis, accusato di corruzione e turbativa d’asta. Cimici e intercettazioni telefoniche sono infatti tra le “fonti di prova” citate dai pm capitolini e che hanno consentito, secondo quanto ricostruito dai magistrati, di “accertare l’esistenza di accordi corruttivi”.
A Milano invece nel triennio dal 2020 al 2022 la Procura per le intercettazioni (telefoniche, ambientali e telematiche) ha speso 25 milioni. Con un trend di spesa in aumento fino ai 10.747.677 del 2022. Cifra più o meno sovrapponibile a quella dell’ultimo anno. A fronte di questo, da luglio 2022 a giugno 2023 sono stati sequestrati, anche grazie all’uso delle intercettazioni, 700 milioni.
La cifra è spiegata dal procuratore Marcello Viola nel documento di riorganizzazione della Procura dello scorso dicembre. Il tutto, scrive, “su impulso della Procura, assicurando un’adeguata pervasività ed efficacia dei controlli di polizia, giudiziaria e tributaria, e garantendo una maggiore celerità nella definizione degli esiti sia amministrativi sia penali”. Ora di questi 700 milioni, 450 arrivano dai sequestri effettuati nell’ambito delle indagini della Dda nel settore della logistica. Le inchieste in questo settore hanno coinvolto colossi come Dhl, Gls, Esselunga, Ups e altre. Inoltre un’altra indagine dello scorso ottobre dei carabinieri e della Dda ha portato al sequestro di oltre 250 milioni. Si tratta dell’inchiesta “Hydra” sul consorzio mafioso a Milano costituito da esponenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra romana e nel quale aveva interessi anche Matteo Messina Denaro. Qui le intercettazioni sono state decisive, in particolare, per svelare l’esistenza di una spa attiva nel settore petrolifero riconducibile al consorzio e con capitale versato di oltre 300 milioni. Intercettato un manager del consorzio spiega: “È giusto che lo sai perché io rispetto a tutti gli altri, il primo che sbaglia qui prende un colpo di pistola, non ci sono chiacchiere… siamo gli unici in Italia a lavorare con 250 milioni di sospensione di Iva”.
Intercettazioni per prendere Messina Denaro
E le intercettazioni sono state fondamentali anche per l’inchiesta più importante degli ultimi anni in tema di mafia, quella che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro. “L’indagine si basa su due pilastri fondamentali: uno è quello delle intercettazioni che sono indispensabili e irrinunciabili per il contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Senza le intercettazioni non si possono fare le indagini…”, aveva detto il giorno dell’arresto del boss il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia.
E infatti grazie alle captazioni i pm siciliani sono riusciti a ricostruire anche la rete di complicità che si stringeva intorno al boss.
Ma quanto ha speso per intercettazioni una procura come quella di Palermo che porta avanti tante indagini di mafia? Nel 2023 circa 26 milioni di euro. Da luglio 2022 a giugno 2023 però risultano 66,7 milioni di euro di beni sequestrati e 255.220.000 di euro di beni confiscati. Anche grazie alle intercettazioni.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
LA STRATEGIA DELLA MELONI: VINCERE LE REGIONALI E LE EUROPEE, E POI GIOCARSI TUTTE LE CARTE SULLA “MADRE DI TUTTE LE RIFORME”, IL PREMIERATO, CHE SANCIREBBE IL PASSAGGIO DALLA DEMOCRAZIA ALLA “CAPOCRAZIA”
Alla fine, anche la Resistibile Armata di Capitan Salvini ha alzato bandiera bianca. La poderosa “Linea del Flumini Mannu” (l’improbabile Piave isolano della Lega) ha ceduto miseramente, sotto il fuoco amico della fanteria meloniana. Com’era facilmente prevedibile, la Sorella d’Italia si è presa anche la Sardegna, dove alle regionali correrà il suo fedelissimo Truzzu
Con una coalizione piegata alla sua volontà, e un’opposizione fiaccata dalle sue vacuità, la Presidente ha una strategia ormai chiara: vincere le regionali e le europee, e poi sull’onda del successo giocarsi tutte le carte sulla “madre di tutte le riforme”: il premierato, che sancirebbe finalmente il passaggio dalla democrazia alla “capocrazia”.
La chiama così Michele Ainis, nel suo saggio appena uscito dalla Nave di Teseo. E mai neologismo fu più azzeccato. L’elezione diretta del premier – il rospo uscito a sorpresa dal cilindro magico dei Fratelli d’Italia e ingoiato a forza dai parenti-serpenti forzaleghisti – è davvero una riforma che deforma. Istituzionalizza il presidenzialismo sgangherato che ci portiamo dietro da quasi vent’anni.
Cioè da quando una forzatura nel voto del 2001 – poi codificata in un’oscena legge elettorale del 2005 – consentì a Berlusconi di scrivere il suo nome sulla scheda. Da allora la costituzione materiale ha manomesso la Costituzione Formale. Dal consenso ai partiti siamo passati alla fiducia ai leader. Dai partiti personali siamo passati ai partiti presidenziali. Adesso siamo pronti all’ultima, decisiva “transizione” dal presidenzialismo di fatto al premierato di diritto.
Una ad una, la premier occupa tutte le “casematte del potere”, per usare la formula di Gramsci, appena promosso dal dadaista ministro Sangiuliano nel Pantheon dei Patrioti, al fianco di Dante e Tolkien.
L’operazione Sardegna, nel suo piccolo, è un paradigma. La prova di forza è riuscita. Ed è solo l’inizio. Dopo aver ammainato la già logora bandiera di Solinas, Salvini cercherà un altro Piave minore: magari proverà con la Linea dell’Ofanto, contendendo la Basilicata all’esausto Tajani. Una guerricciola tra poveri nel giardino di casa: per Giorgia, il massimo risultato col minimo sforzo.
D’altra parte, come darle torto? Cosa dovrebbe concedere la Sovrana, a una corte dei miracoli come Fratelli d’Italia e a un manipolo di cortigiani come Lega e Forza Italia? Il calcolo spannometrico fatto dal ministro-cognato Lollobrigida non fa una piega: a livello regionale la Lega governa 17 milioni di italiani, Forza Italia 13,5 e Fratelli d’Italia solo 8. Vi pare una fotografia che riflette i risultati del voto nazionale del 25 settembre 2022? O non è “il mondo all’incontrario”, per restare ai sacri testi del generale Vannacci? È ovvio che i rapporti di forza vanno sovvertiti.
Quindi per la Presidente il solco è tracciato: avanti spedita, fino alle elezioni di giugno e oltre.
Chi la può fermare? Gli organi di garanzia, nello schema “capocratico”, saranno regolati proprio dal futuro premierato. Il Presidente della Repubblica, Re Travicello ancora scelto dai partiti screditati, non avrà più poteri nello scioglimento delle Camere e nella nomina del premier (consacrato invece dal voto del popolo). La Consulta, con buona pace di Augusto Barbera, sarà presto “normalizzata” dai quattro nuovi giudici laici scelti in base alla “fratellanza” secondo il più classico spoil system.
La magistratura – in attesa di un bel decreto sulla separazione delle carriere che limiti “i poteri immensi dei Pm” (sic!) – viene mascariata quotidianamente dal ministro Nordio, nel nome di una giustizia che sbatte in galera i poveri cristi (basta con i ballerini di rave e gli ambientalisti di piazza!), mentre usa il guanto di velluto con i colletti bianchi (basta con l’abuso d’ufficio, i nomi dei non indagati nelle intercettazioni e la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare!).
Il Parlamento non ha bisogno di “cure”: è già di suo ridotto a bivacco di manipoli, costretto a votare a raffica solo decreti governativi e leggi delega.
(da Huffingtonpost)
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Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
IN FRANCIA E GERMANIA IL TUTELATO NON SI TOCCA
Mentre il Governo di Giorgia Meloni impone a tutti i cittadini
italiani il passaggio obbligato al libero mercato, altrove c’è chi il servizio tutelato e regolamentato dallo Stato per le forniture di energia se lo tiene stretto. E non si tratta della Cina dirigista, ma di Paesi spesso presi a metro di paragone nell’Ue come Francia e Germania. Dal 10 gennaio scorso, com’è noto, i clienti con un’utenza domestica di gas che avevano scelto di restare nella maggior tutela sono transitati in maniera coatta nel sistema in cui sono i privati a fissare prezzi e condizioni contrattuali, passando temporaneamente in un limbo di tutele graduali che poi alla fine sfocerà nel mercato. Per l’elettricità la transizione scatterà tassativamente a luglio. Non per tutti: sono rimasti fuori dall’obbligo i cosiddetti “vulnerabili”, ovvero i nuclei in condizioni svantaggiate, incluse quelle economiche. Infatti, oltre a over 75 o persone gravemente inferme o residenti in zone alluvionate o terremotate, viene annoverato nei vulnerabili chi percepisce il bonus sociale elettrico, che viene riconosciuto alle famiglie con un Isee inferiore a 9530 euro o a 20mila euro se con almeno quattro figli a carico. Un’esclusione che ammette implicitamente che tutti gli altri non vulnerabili potrebbero dover pagare di più, se non saranno costantemente attenti alle condizioni che sottoscrivono e al loro periodico rinnovo. Ragionamento controintuitivo: se col mercato libero si pagherà di meno – come affermano i suoi sostenitori – perché privare di un tale vantaggio proprio coloro che ne avrebbero maggiore necessità?
Più si avvicina per tutti il passaggio obbligato al mercato libero più aumentano gli interrogativi sulla decisione della premier Meloni di non recedere. La presidente del Consiglio ha dichiarato di aver ereditato la riforma dal precedente Governo Draghi che lo aveva inserito nei target da raggiungere per ottenere lo sblocco dei fondi del Pnrr. Tuttavia una decisione che andrà a condizionare pesantemente la vita quotidiana delle persone rischia di passare come una mera ratifica di un impegno che nessuno sa perché è stato assunto. D’altro canto, le maggiori economie dell’Ue paragonabili all’Italia non ci hanno minimamente pensato. E stiamo parlando di Francia e Germania, due Paesi per nulla tacciabili di statalismo.
Se l’Italia insomma con una contraddizione in termini si avvia a imporre la libertà del mercato per legge come per legge si avvia a escludere lo Stato dalla regolamentazione di un servizio essenziale come l’energia, altrove funziona diversamente. In Francia la società pubblica EdF infatti offre a tutti i suoi clienti la possibilità di scegliere la Tarif Bleu. Nell’ambito dell’offerta “Tariffa Blu”, si legge sul portale, i prezzi sono fissati dalle autorità pubbliche. Si tratta di un contratto unico relativo alla fornitura di energia elettrica e all’accesso e all’utilizzo della rete pubblica di distribuzione, destinato ai clienti domestici che beneficiano di prezzi di vendita regolamentati. Il cliente può scegliere solo il prezzo in base all’ora e al giorno della settimana, sulla falsariga delle fasce monoraria e bioraria italiane.
Ma resta di fondo il concetto che “i prezzi evolvono in conformità con le decisioni delle autorità pubbliche”, non quelle private. Il contratto si rinnova automaticamente di anno in anno, ma può essere disdetto in ogni momento per passare al mercato libero senza dover pagare alcuna penale. In Italia invece, chi ha un contratto a prezzo fisso e durata determinata con un operatore del mercato rischia di dover pagare sanzioni chiamate “oneri di recesso”, eventualità ora consentita dall’Arera che a partire dal 1 gennaio 2024 ha recepito la Direttiva elettrica dell’Unione Europea. Con la “tariffa blu” francese “se il cliente cambia fornitore, il contratto si risolve alla data di entrata in vigore del contratto di fornitura con il nuovo fornitore di energia. Il cliente non è tenuto a informare EdF di tale risoluzione”.
La vita dei francesi che non vogliono dedicare parte delle loro giornate a studiare incartamenti zeppi di condizioni contrattuali, richiami a leggi e direttive, parametri che compongono il prezzo finale in bolletta – e verificare ogni anno alla scadenza i piani sottoscritti e l’evoluzione tariffaria che gli operatori privati sono in grado di inventarsi – ne trae certamente giovamento. In Italia il mondo della telefonia mobile fa scuola. Piccolo esempio: con alcuni dei principali operatori telefonici se ricarichi sulla sim card 5 euro, ne ottieni 4, con l’euro di differenza che va per un servizio premium (chiamate e Giga internet illimitati per 24 ore, senza motivo, anche se l’offerta mensile in corso già ha giga e minuti) che nessuno ha richiesto, ma solo se la ricarica è effettuata in una tabaccheria, online no. Ma se si ricaricano 12 euro (dodici), allora l’importo accreditato corrisponde. Una follia per spillare più soldi a cui poi nessuno pone rimedio, o comunque non prima che una marea di consumatori si senta giustamente truffata.
Se tuttavia nel mondo della telefonia la potenziale perdita economica per “disattenzione” del consumatore si presume sarà comunque contenuta, nel caso delle forniture energetiche sbagliare può costare caro. Grazie al’implicità autoregolamentazione del mercato per effetto delle leggi della concorrenza, gli operatori offriranno al cliente lo stesso servizio di prima, ma con un aggravio: restare sempre vigili per risparmiare forse una manciata di euro e/o per evitare il rischio di rimettercene molti di più. Lo dimostra il fatto che attualmente il cliente disposto a passare al mercato libero, troverà disponibili sul portale dell’Arera un numero di offerte con prezzi stimati inferiori al servizio tutelato così esiguo da poterle contare sulle dita di una mano. Su oltre 150 o più offerte a disposizione. Mentre tutte le altre presentano costi superiori, e in alcuni casi si superano anche le centinaia di euro all’anno. Si oscilla insomma tra il risparmio di una decina d’euro a un potenziale salasso.
Una famiglia tipo spenderà minimo 1.750 euro all’anno per le forniture di gas e luce, circa 650 euro in più del prezzo più basso ottenibile sul mercato nel 2020, prima della crisi energetica, secondo quanto emerso da una rilevazione realizzata da Assium, associazione degli utility manager, e Consumerismo No Profit per l’agenzia Ansa, che tenendo conto di tutti i fattori dalla volatilità del prezzo della materia prima ai costi di trasporto, passando per tasse e oneri di sistema, in base alle offerte disponibili stima per il 2024 un range di spesa tra 1.750 e 3.900 euro annui nella peggiore delle ipotesi, ovvero più di 600 euro a bolletta bimestrale. Il cliente può tranquillamente pagare il doppio del dovuto, per lo stesso servizio.
In Francia è tutto più semplice: ieri il prezzo della tariffa regolamentata ammontava a 0,2276 euro come opzione Base (monoraria) per un contatore da poco più di tre Kw, quello standard domestico. Il prezzo non di punta è 0,1828 euro mentre il prezzo di punta è 0,2460 euro, per la fascia bioraria. Un aumento del 10% della tariffa regolamentata di EdF è previsto per febbraio 2024, anche se deve ancora essere confermato dal governo francese. Ma attualmente con un consumo annuo di 1800 kwh, una famiglia spenderebbe meno di 400 euro. Non sorprende perciò che circa il 70% dei cittadini francesi sia attualmente nel mercato regolamentato.
Certo, la Francia paga di meno perché ha il suo “nucleare”. Lecito suppore quindi che in Germania, Paese che come l’Italia è molto dipendente dal gas per la produzione di energia elettrica, i prezzi saranno così fuori controllo da aver anche lì indotto lo Stato a obbligare i suoi cittadini al risparmio coatto consegnandoli in massa al libero mercato, dove la convenienza è per antonomasia. Nient’affatto. In Germania le forniture energetiche sono considerate dei servizi base a favore della collettività, cosiddetti Grundversorgung. Esiste un fornitore di base che varia a seconda dell’area regionale, ma di norma si tratta dell’azienda fornitrice di energia che rifornisce la maggior parte dei clienti domestici in un’area della rete di fornitura generale ed è solitamente una società municipalizzata. “Le imprese fornitrici di energia elettrica devono, ai sensi dell’articolo 36 capoverso 1 della legge sull’energia, fornire energia elettrica a prezzi generali ai clienti domestici a bassa tensione nell’ambito della fornitura di base”. Lo scopo della legge è quello di fornire al grande pubblico elettricità, gas e idrogeno quanto più possibile sicuri, economici e convenienti per i consumatori. Le imprese fornitrici di energia devono comunicare pubblicamente le condizioni generali e i prezzi generali per la fornitura per le aree della rete in cui forniscono l’approvvigionamento di base ai clienti domestic, pubblicarli su Internet e rifornire ogni cliente domestico a queste condizioni e prezzi.
Questo non vuol dire che un consumatore tedesco non possa optare per una offerta del libero mercato, ma si tratta appunto di un’opzione, non di un obbligo come avverrà in Italia a partire da luglio. Come sottolinea il grande sindacato dei dipendenti pubblici tedeschi Dbb, “lo Stato ha il compito di fornire i beni e i servizi necessari per un’esistenza umana significativa, i cosiddetti servizi di base. Ciò comprende anche la fornitura di gas, acqua ed elettricità. I comuni arricchiscono la concorrenza con le loro attività imprenditoriali, ad esempio nel settore dello smaltimento dei rifiuti e delle acque reflue, ma anche nella fornitura di energia elettrica. Soprattutto nei mercati liberalizzati della fornitura di elettricità e gas sono le aziende municipalizzate a garantire che il mercato non sia nelle mani di pochi grandi imprenditori. Pertanto una preferenza unilaterale per il settore privato nel senso di una privatizzazione olistica non è né nell’interesse dei cittadini né della concorrenza”.
Così la premier Meloni sta portando il Paese in un territorio inesplorato dove l’interesse della collettività viene sacrificato in nome di non si sa che cosa. L’aspetto più sorprendente è che ad oggi nessuno ha mai spiegato perché il mercato “libero” non potesse continuare a coesistere con il servizio tutelato, come in altri Paesi, lasciando a ognuno la libertà (davvero) di decidere quale tipo di contratto attivare, a quali condizioni, e pure quanto spendere. Ma soprattutto lasciando a ognuno la libertà di disporre del proprio tempo senza dover inseguire offerte, scadenze e promozioni per ottenere un presunto risparmio. O, se va male, per non ritrovarsi più povero e passare pure per fesso, perché se ha pagato di più è colpevole di non essersi guardato intorno e aver cambiato fornitore. E’ così che nella fruizione di un servizio essenziale come l’energia domestica il Governo sovranista, assecondando la nemica di un tempo Unione Europea, decreta la più pericolosa delle metamorfosi: quella da cittadini a meri clienti. In un Paese dove la libertà non più una condizione ma un’imposizione, contraddizione in termini sancita con legge dello Stato.
(da Huffingtonpost)
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Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“E’ UN PROBLEMA TECNICO, MA NON SI RIESCE A BYPASSARE”
«La classe doveva partire il 22 gennaio per la settimana bianca, ma 3 giorni prima scopre che salta tutto». Succede in una scuola superiore di Venezia dove i docenti si sono trovati a dover annullare tutte le uscite scolastiche in programma perché la piattaforma statale online per digitalizzare i contratti pubblici non funziona. A portare alla luce l’accaduto è la consigliera comunale Cecilia Tonon con un post di denuncia su Facebook. «Dalla comunicazione del Dirigente Scolastico si evince che la causa sono difficoltà burocratiche.
A spiegarlo, l’inghippo sembra kafkiano: la piattaforma (MEPA-Consip) che deve rilasciare un codice (“CIG”) per l’affidamento del servizio dalla scuola all’agenzia, obbligatorio dall’entrata in vigore della nuova normativa sugli appalti, si blocca e non rilascia questo codice necessario», spiega Tonon. Si tratta di un problema solo tecnico, come evidenzia la consigliera, ma che «non si riesce a bypassare e risolvere diversamente, nonostante la buona volontà di tutti i soggetti coinvolti».
E così, chiosa Tonon, «la classe sta a casa, l’albergo perde la prenotazione e tutti ci chiediamo dove viviamo». La situazione denunciata dalla consigliera non sembra essere un caso isolato. Sotto al post, in queste ore, si stanno moltiplicando i commenti di altri genitori che lamentano la stessa situazione.
(da agenzie)
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Gennaio 21st, 2024 Riccardo Fucile
IL CAPPIO DI GOVERNO AI GIORNALI
Lo scontro è sotterraneo, ma vale molti soldi: 150 milioni subito
(oltre 300 in previsione) ma soprattutto il destino di molti editori.
Il governo ha in mano una serie di partite che possono tenere sotto pressione i giornali, una situazione spiacevole visto che parliamo di un settore in crisi nera e di quel che resta del dibattito pubblico in Italia.
Il campo di battaglia per ora è il decreto Milleproroghe in discussione alla Camera. Per la prima volta il governo Meloni ha deciso di non prorogare l’obbligo per le stazioni appaltanti di pubblicare gli estratti dei bandi di gara sui quotidiani (due nazionali, uno locale). È la cosiddetta “pubblicità legale”, frutto di una normativa antiquata ma anche un sussidio al settore in anni di difficoltà: nel 2023 è valsa 45 milioni, stando agli ultimi dati Fcp, cioè del 12% degli introiti pubblicitari dei quotidiani. Sistema archiviato dal nuovo Codice degli appalti che impone alle amministrazioni di pubblicare tutto nella Banca dati dei contratti pubblici gestita da Anac.
Il governo ha deciso di non prorogare la “pubblicità legale”, ma curiosamente ieri Fratelli d’Italia ha presentato un emendamento alla Camera per allungarle la vita. La mossa ricorda quella fatta da Matteo Renzi nel 2015, quando da premier minacciò i giornali di non prorogare la misura, togliendola dal decreto Milleproroghe, salvo poi farla ripristinare via emendamento parlamentare. Un segnale agli editori di poter aprire e chiudere un rubinetto che allora valeva 120 milioni (soldi che vengono rimborsati alla P.A. da chi vince le gare).
L’emendamento di FdI fa felici gli editori, ma non è il solo che riguarda il settore affidato alle manovre parlamentari. Un altro di Forza Italia infatti rinvia al 2027 l’inizio dei tagli al “Fondo per il pluralismo” decisi nel 2019 dal governo Conte-1 che in tre anni avrebbero azzerare i contributi diretti destinati a giornali editi da cooperative, enti senza fini di lucro o minoranze linguistiche (giornali di nicchia ma anche nazionali come Libero, Il Foglio, il manifesto, Italia Oggi, Avvenire, etc.). I tagli sono stati sempre rinviati ma, senza nuove proroghe, partiranno da quest’anno: il fondo valeva 115 milioni nel 2023 (comprese radio e tv).
L’emendamento li rinvia in attesa della riforma del settore, che il governo si è fatto assegnare con una delega blindata nell’ultima manovra: gli consentirà di riscrivere l’intera normativa sui finanziamenti all’editoria, tra cui il fondo straordinario di sostegno al settore (140 milioni). Partite vitali per il settore, tutte in mano al governo.
(da ilfattoquotidiano.it)
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