Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
TAJANI NON CONVINCE PIU’ MARINA BERLUSCONI, CHE LO CONSIDERA TROPPO PRONO A GIORGIA MELONI E LONTANO DA QUELL’IDEA “LIBERAL” SUI DIRITTI CIVILI: LA FAMILY DI ARCORE CERCA VOLTI “FRESCHI E SMART”
Da qualche tempo a questa parte può capitare il giovedì sera di vedere Fedele Confalonieri sul treno Frecciarossa Roma-Milano. Il fidato manager Fininvest della famiglia Berlusconi, l’unico vero di cui si fidano i figli del fondatore dell’impero, frequenta spesso la Capitale ultimamente e incontra soprattutto politici che ruotano attorno al mondo moderato, non solo di Forza Italia.
A mandarlo in avanscoperta sono anche Marina e Pier Silvio, a dimostrazione di un rinnovato interesse dei figli maggiori di Berlusconi verso la politica e chiaramente verso Forza Italia. Con un mandato preciso: capire in maniera diretta cosa si muove in Parlamento ma soprattutto pensare al futuro del partito fondato dal padre per rinnovarlo e rilanciarlo, visto anche il sostegno non solo dei cinque figli (oltre 600 mila euro versati prima delle Europee) ma anche di uomini Mediaset che hanno versato 20-30 mila euro e a che a breve compariranno negli elenchi consegnati in Parlamento.
E qui l’unico vero volto della famiglia che pare voler giocare un ruolo e quello di Pier Silvio, che a un forzista di lungo corso ha confidato di voler parlare «più di politica» dopo la pausa estiva.
Ci sarà la discesa in campo di uno dei figli o delle figlie di Silvio Berlusconi? Questa la domanda che ieri alla Camera circolava con insistenza tra gli azzurri, che non parlavano altro di questo rinnovato interesse della famiglia e del mondo Mediaset.
Marina sarebbe la più restia a un intervento diretto della famiglia, ma qualche azzurro ha parlato con Pier Silvio riscontrando «un grande interesse alla politica, un interesse che non ha mai avuto». Un primo passo potrebbe essere quella della presidenza onoraria del partito da affidare al secondogenito di Berlusconi, chissà. Che ci saranno delle novità lo ha detto anche Confalonieri.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
SCENE IMMONDE CHE SPERAVAMO RELEGATE A SECOLI LONTANI
E così tra i filari delle Langhe, uno dei luoghi più civili e aggraziati del mondo, i
braccianti clandestini vengono presi a bastonate dai caporali perché osano ribellarsi alla loro condizione di schiavi (orari e alloggi da bestie, paghe da fame).
Il tempo dell’ipocrisia è definitivamente scaduto. Avete visto le immagini diffuse dalla polizia? Una spremuta di disumanità che chiama in causa tutti, produttori e consumatori: in nome delle loro maestà il Guadagno (per i primi) e il Prezzo (per i secondi) abbiamo smesso di farci troppe domande. Ma quelle scene immonde, che speravamo relegate a secoli lontani della nostra storia, interrogano anche i formatori dell’opinione pubblica, in particolare gli ambienti di sinistra giustamente sensibili al destino dei migranti, ma solo finché rischiano la pelle in mare. Appena toccano terra, su quei disgraziati cala il sipario del disinteresse.
Chi ha urlato a squarciagola per strapparli alla morte li consegna in silenzio a una vita di sopraffazioni e di stenti.
C’è voluto il sacrificio del bracciante amputato di Latina per accendere la luce su un fenomeno che non sembra ispirare artisti e intellettuali, come se lo sfruttamento fosse materia meno letteraria rispetto al naufragio. Dickens e Victor Hugo la pensavano diversamente e forse oggi ci inviterebbero a essere un po’ meno ipocriti: per sentirsi umani non basta salvare altri esseri umani. Poi bisogna dar loro qualcosa che assomigli a un’esistenza umana.
(da il Corriere della Sera)
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Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
DIVENTIAMO UN CASO UNICO IN EUROPA: COME FAVORIRE I DELINQUENTI
Con l’euforia e la spensieratezza con cui si ordina uno spritz (Campari, va da sé, come vuole la tradizione veneta), il ministro Carlo Nordio ha celebrato la sua sedicente riforma della Giustizia diventata legge neanche fossero le tavole di Mosè. E c’è da comprenderlo nella sua vanità, a maggior ragione se dovesse rispondere al vero quello che da tempo si spiffera nei conciliaboli della maggioranza. E cioè che reso il servigio, potrebbe ora passare all’incasso della promessa della premier di issarlo su uno scranno di giudice costituzionale.
Così come c’è da comprendere l’incredulità dei colonnelli di Forza Italia e Lega che neanche nei sogni più selvaggi del ventennio berlusconiano avrebbero immaginato di svegliarsi una mattina con un codice penale ripulito dall’abuso di ufficio e dal traffico di influenze e una nuova disciplina delle ordinanze di custodia cautelare che, nella sua farraginosità e illogicità, ne renderanno, di fatto, angusto, macchinoso e depotenziato l’uso.
Oltre a far collassare definitivamente i nostri tribunali (i tre magistrati che decideranno dell’arresto o meno di un indagato non potranno prendere parte in nessun caso a nessuna delle fasi successive del procedimento). Sublime, in questo senso, l’enfasi retorica toccata dall’avvocato Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, che scomoda, nientemeno, l’immagine di un “new deal” della Giustizia penale. Pari forse solo al richiamo di Antonio Tajani a Cesare Beccaria quale mentore di questa sciagurata legge.
Del resto, intestata come è alla memoria di Silvio Berlusconi, la sedicente “riforma” vale ben più di un aeroporto. Perché, in attesa di una prossima e annunciata stretta sull’uso e la durata delle intercettazioni, porta a compimento il progetto di una giustizia di classe disarmata con i forti e implacabile con i deboli, che è stato e resta il segno distintivo, nella sua declinazione giudiziaria, della lunga stagione berlusconiana e della nuova avventura della destra al governo. Indagare, perseguire e punire le responsabilità dei colletti bianchi, distinguere tra la sacrosanta discrezionalità dell’amministratore e del funzionario pubblico o del politico e i suoi abusi sarà semplicemente impossibile. Perché, per legge, irrilevante. Emanciparsi dal familismo patologico e interstiziale che soffoca e manipola il mercato e avvelena le libere scelte degli amministratori non sarà più affare del giudice penale. E se qualcuno farà traffico di influenze promettendo in cambio denaro o interessi privatissimi di pilotare le decisioni di una pubblica amministrazione in forza della sua rete di relazioni, del suo cognome, dell’appartenenza di partito, buon per lui e di chi ne sarà beneficiato. Con buona pace dei gonzi che credono alla libertà e trasparenza del mercato o all’imparzialità della pubblica amministrazione.
E tuttavia, su un punto conviene dare ragione al coro entusiasta di chi oggi celebra l’ennesimo scasso della nostra giustizia penale. Questo “new deal” ci rende davvero speciali. Un caso unico in Europa. Da studiare. O, magari, da cui guardarsi. Perché in nessun’altra democrazia occidentale si è con più impegno, ossessione e costanza lavorato per grippare la macchina giudiziaria. A dispetto della ricerca della sua efficienza e del principio di uguaglianza che dovrebbe guidarla. In nessun altro Paese dell’Unione si è avuta l’impudenza di comunicare che si era deciso di violare i nostri obblighi internazionali in materia di lotta alla corruzione introducendo poi clandestinamente in un provvedimento di tutt’altra natura (il “decreto svuota carceri”) una toppa a colori (la riforma del peculato per distrazione) con cui potersi giustificare nelle sedi opportune e lontani dai riflettori della propaganda domestica. In nessun altro Paese il governo che annuncia una “riforma epocale” la chiosa con una nota in cui si legge testualmente: “Resta la possibilità di valutare in futuro specifici interventi per sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in caso di eventuali indicazioni Ue, ancora oggetto di elaborazione”.
Avanti così, dunque. E benvenuti nel Paese dove le tasse sono “pizzo di Stato”, il “redditometro” uno strumento degno della Stasi, l’abuso di ufficio e il traffico di influenze un insopportabile e ingiusto giogo su chi lavora per il bene del Paese, le intercettazioni uno strumento da comunisti. Ma dove, viva Iddio, la tolleranza è zero per i frequentatori di rave e chi si impicca in carcere (normalmente cittadini di serie B) è un incidente statistico. Il Paese di Beccaria, appunto.
(da repubblica.it)
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Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
LO SHOW IN MASSERIA
Nel 1997 un giovane di Ancona – si disse – uscì dal coma ascoltando
ininterrottamente una cassetta con la voce di Silvio Berlusconi. Non garantiamo nulla, ma chi vuole può avventurarsi a scoprire quali effetti possano invece produrre i 13 minuti di video del ministro Carlo Nordio, ripreso più o meno di nascosto l’altra sera mentre straparlava di giustizia attovagliato alla masseria di Bruno Vespa, circondato da una dose non trascurabile di vino in un’atmosfera da fine matrimonio, quando gli ospiti hanno già la cravatta in testa a mo’ di pirata ma lo zio dello sposo pretende di lanciarsi in un ultimo discorso di auguri.
Il contesto è dunque questo. Nordio improvvisa una specie di duetto con Vespa, il padrone di casa, mentre di fronte siede il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. A chiarire il tasso alcolemico del momento è lo stesso Guardasigilli appena prende il microfono: “Di vino abbiamo usato e abusato, questo potrebbe costituire un buon alibi per le eventuali sciocchezze che potessi dire (sic)”.
Attenzione però, perché qui non si tratta di volgare sbevazzata: “Del resto – assicura Nordio – uno dei miei miti è Churchill, che beveva e fumava”. Trattasi quindi di degustazione enogastronomica dalle forti ispirazioni politiche e perciò il ministro si scatena proponendo il meglio del repertorio, spalleggiato da un Vespa entusiasta che gli dà del tu (Petrecca ne deve mangiare di pastasciutta) neanche fosse Chico Forti: “Vuoi imbavagliarmi?”, scherza il giornalista sbeffeggiando chi critica la stretta sulle intercettazioni.
Nordio gradisce e gongola per l’approvazione della legge che abolisce l’abuso d’ufficio: “È un reato evanescente che serve solo a intimidire i pubblici amministratori. E dopo aver rovinato la vita a questi poveretti, l’avviso di garanzia diventa strumento politico per eliminare gli avversari che non si riesce a eliminare attraverso la competizione elettorale”.
Poi, per criticare le ambiguità del Pd in merito, torna dall’amato Churchill: “Diceva che ci sono persone che abbandonano il proprio partito per amore dei propri principi e persone che abbandonano i propri principi per amore del partito”. Ma più che lo statista inglese (occhio: Nordio ne sta “scrivendo una biografia”), il vero riferimento del ministro sembra piuttosto il filosofo Massimo Cacciari, di cui è nota la propensione a ricordare a tutti di “dire da 30 anni” quel che dice – in effetti – da 30 anni. Con lo stesso stile retorico, a ogni sorso di vino Nordio ribadisce invece di “aver fatto il magistrato per 40 anni”, neanche fosse il militare a Cuneo. In tredici minuti di video – pubblicato per la prima volta dalla Gazzetta del Mezzogiorno – il ministro lo ripete tre volte, tipo intercalare, l’ultima delle quali suona come un salvataggio in corner dopo qualche parola di troppo in libertà: “Siamo tutti intercettabili e probabilmente intercettati!”. Risate generali. Vespa prova a intervenire, Piantedosi – non inquadrato – probabilmente sbianca. E Nordio riprende: “Ho qui davanti il ministro dell’Interno…va be’, siamo a cena! Io ho fatto per 40 anni il pubblico ministero…”.
Ce n’è abbastanza per arrivare al gran finale. Un po’ come Elvis chiudeva i suoi concerti con Can’t Help Falling in Love, Nordio accompagna l’ultima sbicchierata con un grande classico, un capolavoro che evidentemente si rivende tanto in Cdm quanto alle cene di Natale: “Voi credete davvero che il grande mafioso parli al telefonino? Ma no, il vero delinquente usa sistemi di comunicazione satellitari di difficilissima intercettazione, un vero mafioso parte dal presupposto di essere intercettato”. Bah: mancava poco che Matteo Messina Denaro stesse pure su Tinder, altro che telefonate. Ma forse non è un “vero mafioso” oppure Nordio, per realizzare, deve passare ai super alcolici. Sempre che Churchill gradisse.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
DALLA FOTO SUL MOTORINO CON LA SUA AMANTE AI NUOVI COMIZI CONTRO LA “FINANZA”: POTREBBE ESSERE IL PREMIER DEL NUOVO GOVERNO
Qual è la eredità di un uomo politico come Francois Hollande? Le roventi polemiche, forse, o il ricordo di una forte intelligenza a cui purtroppo non si accompagnava un sufficiente coraggio morale, dettaglio che sfortunatamente azzoppa molti presunti talenti? No. La sua eredità politica è un motorino, anzi un Piaggio a tre ruote, anno di costruzione 2009, oltre centomila onesti chilometri sul groppone. Il socialista Hollande si è installato nella Storia di Francia issato su questa specie di motocarro, strumento di presidenziali viaggi adulterini alla maison di tal charmante Julie Gayet, se ben ricordo di professione attrice. E anche qui affoghiamo in un copione squallidamente banale: un altro socialista, ma di ben altro metallo, Mitterrand era allegramente bigamo ma l’adultera almeno dirigeva gli affari del Louvre. Suvvia: anche nell’adulterio ci vuole un po’ di grandeur…
Lo hanno da poco venduto all’asta il reperto presidenziale, dopo vari passaggi di mano: venticinquemila euro quando sulle riviste specializzate dell’usato si vieta di spendere per un rudere di quel tipo non più di 1200 euro. Già, ma il motorino su cui Hollande, con in mano un gustoso, croccante “pain au raisin”, andava a risvegliare all’alba l’amata, è diventato un feticcio pop per cui si sono dati battaglia molti appassionati del genere. Nella stessa asta era disponibile anche una copia in grandezza naturale del trono con cui Bokassa, socio un po’ cannibale di un altro Presidente Giscard d’Estaing, si fece incornare imperatore: nessuno vi ha prestato la minima attenzione. La storia di Francia è zeppa di simboli deambulatori, Vizir l’arabo con cui Napoleone cavalcò dal sole di Austerliz ai nebbioni piovigginosi di Waterloo; la Ds del generale de Gaulle… Sarebbe stato temerario pensare che l’oggettistica di una nullità politica come Hollande potesse andare oltre a un motorino per trasporti amorosi clandestini.
Semmai la sua storia pare confermare la articolata teoria, di provenienza evoluzionistica, secondo cui il successo politico ha come conseguenze quello di fornire ai detentori un potere sessuale; che, a esser maligni, è l’unico obbiettivo di questa screditata attività. In Francia poi. Il potere sessuopolitico vi è adiposo di spunti. Dal presidente fulminato da infarto tra le fragranti lenzuola dell’Eliseo mentre era impegnato in attività incautamente festose con una amante, a Sarkozy che su disamori e luccicanti casting per aspiranti Première Dame ha costruito l’unico copione di una presidenza davvero dimenticabile. Insomma a Parigi ci vuol niente per cadere nel licenzioso.
Come ha fatto un tipo così ovvio grigio inutile superfluo, ectoplasma privo di qualsiasi qualità, a diventare presidente della quinta, sesta, ottava potenza del mondo o giù di lì? Tanta gente in Francia se lo chiede ancora oggi tutti i giorni. Come ha fatto partendo da quella irrilevanza, dalle promesse campate in aria, dal tran tran del dire una cosa per farne un’altra, ma non per astuzia per incapacità e ignavia, a scalare, dalla sua dimensione politica che è il congresso dipartimentale del Ps, la vetta del potere? Cerchi di definirlo Hollande: un tattico astuto… uno statista… un ideologo? Sempre qualcosa di meno… un po’ più sotto… rami secondari… sottomarche… dintorni… più o meno… non del tutto… quasi… all’incirca. Hollande è fatto così. Un pressapoco.
Per quale magia, dopo aver annientato in appena cinque anni di presidenza il Partito socialista, si riparla di lui come possibile candidato di mediazione alla carica di primo ministro per tenere in piedi le frattaglie di un altro mediocre, Macron? A guardare le rare fotografie di questi anni di retraite sentivi perfino a distanza un odore di stantio, di casa vecchia, di polvere antica che pizzicava la gola. Non si è ricandidato nel 2017 ma non per discrezione del potere, semplicemente perché non lo avrebbero votato, con un partito glorioso e venerabile che aveva ridotto a una cripta dalle ombre fitte, con dentro nessuno. Chi l’avrebbe detto? Il miracolo delle desistenze e dei ritiri lo ha riportato all’Assemblea nazionale dal suo vecchio feudo, si fa per dire, della Corrèze. Avete visto come gli fanno festa i neo eletti della resurrezione gauchista, affascinati dal moto delle sue mani grassocce che, se non fosse laicissimo, diresti allenate al rosario? La memoria umana soprattutto in tema di spiacevolezze è davvero labile e ritrosa. La resurrezione gli ha dato coraggio, ascoltate come stronca le pretese di Mélenchon di avere il premierato: stai zitto! Olà! Non lo riconosciamo più.
Le frasi lapidarie da mettere dopo un’ora sotto il tappeto erano una sua caratteristica. Nel 2012 fu eletto senza molta gloria, pur di togliersi dal tiggì serale Sarkozy, Carlà, la suocera e compagnia, i francesi avrebbero votato il cavallo di Caligola. C’era lui sulla scheda, allonsanfàn! Comizio a Bourget. Scandisce tra il delirio popolare una frase da lapide: «Il mio vero avversario è il mondo della finanza!». Parole grosse. I druidi socialisti strabuzzano gli occhi, si spellano le mani: abbiamo trovato un capo, un altro Jaurès. Adesso Ségolène Royal, che ne fu compagna e non solo di partito, sostiene che l’aveva copiata da qualcun altro. Ma no ma no… Erano soltanto quelle che lui chiamava formulette elettorali. Come lo slogan che aveva scelto per la campagna: cambiare, è ora. Icastico, efficace. Ma privo di contenuti. Come la promessa di una tassa del settantacinque per cento sui grandi patrimoni o di invertire nel giro di un anno il corso della disoccupazione… Piccoli calcoli per tirare avanti neghittosamente giorno per giorno, la politica come deposito di bric-à-brac, di astuzie, bugie anche con i ministri più vicini, alcuni di qualità ma sciupati con minuzioso accanimento catastale.
Dalle transazioni permanenti, dalle indifferenze cercarono di tirarlo fuori nel 2015 i jihadisti confezionando un Undici Settembre in pieno centro della capitale. Era un momento eroico addirittura, suo malgrado. La foto ricordo di quei giorni tremendi lo inquadra mentre cammina nella marcia contro il terrorismo avvinghiato ad alcune delle peggiori canaglie della FrançAfrique.
(da lastampa.it)
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Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
UN REATO DI OPINIONE PUNITO COME UN OMICIDIO, ROBA DA REGIMI MILITARI
Chi protesta in modo “acceso” contro le grandi opere come il ponte sullo Stretto di
Messina rischierà (sulla carta) oltre 25 anni di carcere. È l’effetto di un emendamento approvato ieri al cosiddetto “pacchetto sicurezza“ – il Ddl governativo in discussione nelle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera – firmato dal deputato leghista Igor Iezzi e sottoscritto anche dagli altri partiti di maggioranza. La norma introduce una nuova aggravante del reato di resistenza a pubblico ufficiale: la pena “è aumentata” se la resistenza “è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica“.
Si tratta di un’aggravante generica, che quindi consente di innalzare la pena fino a un terzo. E va ad aggiungersi alle altre aggravanti già previste, in base alle quali – ad esempio – la pena va da tre a 15 anni se la violenza o minaccia è commessa “da più di dieci persone“, ed è aumentata fino a un terzo se il fatto è compiuto “nel corso di manifestazioni in luogo pubblico” oppure “con scritto anonimo, o in modo simbolico“.
Tirando le somme, quindi, un attivista che si oppone al cantiere di una grande opera, in un gruppo di più di dieci persone, distribuendo volantini non firmati o prendendo parte a un flash mob, potrà essere punito con un massimo di quindici anni di carcere, più un terzo, più un altro terzo. Totale: quasi 27 anni.
Nella seduta congiunta delle commissioni, l’opposizione si è scagliata contro l’emendamento. Con questa norma “state dicendo che i manifestanti contro le grandi opere saranno puniti più gravemente perché esprimono un certo tipo di opinione”, ha attaccato Valentina D’Orso, capogruppo M5S in Commissione Giustizia.
“L’obiettivo è spaventare i manifestanti, anche quelli che vogliono protestare in maniera pacifica”, sottolinea Devis Dori di Alleanza Verdi e Sinistra. Durissimo anche Riccardo Magi di +Europa: “Stiamo introducendo il processo alle intenzioni nel codice penale. State perdendo la faccia, ma rischiate di farla perdere al Parlamento”, ha detto rivolgendosi alla maggioranza. Pochi minuti dopo le commissioni hanno dato il via libera a un altro emendamento leghista che consentirà di anticipare le spese legali agli “ufficiali o agenti di pubblica sicurezza indagati o imputati per fatti inerenti al servizio“, cioè spesso per reati di violenza, raddoppiando anche il tetto di spesa: da cinquemila a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
E AFG FONDA UN ALTRO GRUPPO UE DI ESTREMA DESTRA
Non c’è due senza tre. Dopo i Conservatori e riformisti europei – gruppo guidato dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni – e i nuovi “Patrioti per l’Europa” in cui siedono i nazional-populisti di Lega, Rassemblement National, Fidesz e altri Paesi europei, nasce oggi al Parlamento europeo un nuovo gruppo politico di destra, se possibile ancor più radicale. Si chiamerà “Europa delle nazioni sovrane” e sarà guidato principalmente, come da anticipazioni degli ultimi giorni, dai tedeschi nostalgici dell’AfD. Il gruppo è stato formato ufficialmente oggi con la riunione costitutiva al Parlamento europeo: il presidente della nuova formazione sarà l’eurodeputato tedesco dell’AfD René Aust. Che questo gruppo, così come quello ispirato da Viktor Orbàn nell’ultima settimana, resteranno fuori dal perimetro della nuova maggioranza europea, non c’è dubbio.
Il “cordone sanitario” anti-estremisti è già pronto. Il problema, per Ursula von der Leyen ma pure per Giorgia Meloni, è che diverse altre formazioni della futuribile maggioranza premono con forze perché fuori dai giochi resti pure l’Ecr guidato dalla premier italiana. Dopo i socialisti e democratici, lo hanno ribadito con chiarezza oggi alla presidente-ricandidata alla guida della Commissione Ue sia i liberali di Renew sia i Verdi, dei cui voti von der Leyen ha bisogno per assicurarsi la rielezione.
Di fronte a tale forcing su di lei e sul Ppe per escludere dal perimetro della maggioranza i Conservatori (ancor più di FdI sono considerati “impresentabili” soprattutto i polacchi di Diritto e Giustizia), oggi l’ex ministra di Merkel si è dovuta sbottonare in termini inediti: «Con il gruppo Ecr non ci sarà una cooperazione strutturale», ha assicurato von der Leyen nell’incontro con la delegazione di Renew, protrattasi per oltre due ore.
Il gioco delle stampelle: Ecr fuori, Verdi dentro?
Il che, tuttavia, non esclude ovviamente accordi ad hoc soprattutto con Meloni e la sua pattuglia, né tanto meno che confluiscano su di lei i voti di FdI. Sempre che la premier, a questo punto, consideri conveniente prestarsi a tale gioco, dopo essersi ritrovata ai margini degli equilibri politici già in sede di nomine dei top jobs da parte dei capi di Stato e di governo. Di certo c’è che sull’altro versante a fare da ulteriore stampella alla maggioranza restano invece pronti i Verdi, che valuteranno però con attenzione il programma che von der Leyen presenterà in Aula la prossima settimana. Soprattutto per capire quali impegni ha in animo di confermare sul fronte della transizione ecologica, oltre che della giustizia sociale. «Non c’è ancora una conclusione, vedremo cosa presenterà nelle sue linee guida in plenaria. In quell’occasione parlerà a tutti e sarà lì che vedremo dove siamo. Abbiamo ancora bisogno di negoziati, di un’altra settimana», hanno detto la termine dell’incontro con la leader tedesca i co-presidenhti dei Verdi Ue, Bas Eickhout e Terry Reintke, dopo la riunione con Ursula von der Leyen. Ma la rotta appare tracciata, a meno di sorprese: «Il Ppe nel corso della campagna ha mandato un messaggio chiaro sul dialogo con i partiti pro-Ucraina, pro-Ue e pro-Stato di diritto. Non vediamo altre opzioni che non l’unione di questi quattro partiti Ue», hanno chiaro Reintke e Eickhout.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
“L’ELEZIONE E’ FRUTTO DI UN ANNUNCIO UNILATERALE DELLA LEGA”
Il generale Roberto Vannacci non piace al Rassemblement National di Marine Le
Pen. Pur trovandosi nel gruppo dei Patrioti per l’Europa insieme alla Lega, Rn contesta la vicepresidenza affidata al militare recordman di preferenze alle elezioni europee. Lo fa con Jean-Philippe Tanguy, vicecoordinatore della campagna elettorale di Le Pen alle Presidenziali del 2022. Che chiede al partito di Matteo Salvini di nominare un altro vicepresidente: «L’elezione è frutto di un annuncio unilaterale della Lega. Ci opponiamo all’incarico. Questa è la nostra posizione». Evidentemente la destra di Le Pen, reduce dalla sconfitta alle elezioni legislative, ora fa autocritica sugli errori nella campagna. E Vannacci comincia a essere troppo anche per i sovranisti d’Oltralpe.
Tanto che in un’intervista a La Stampa anche Laurent Jacobelli, già portavoce del Rn e oggi deputato, si schiera contro il generale. «Non conosco personalmente Vannacci ma da quello che ho letto ha fatto delle dichiarazioni che non corrispondono ai valori del Rassemblement National. Per essere chiari, penso che questo signore non sarà vicepresidente. Mi sembra impossibile», dice Jacobelli ricordando che anche Jordan Bardella ha criticato le posizioni del generale.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2024 Riccardo Fucile
“SI E’ MOSSO DA AMMINISTRATORE DI UNA SOCIETA’ PRIVATA, COME PRESIDENTE POTREBBE FAVORIRE NEGLI APPALTI CHI LO FINANZIO'”
Ancora niente libertà: il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti resta ai domiciliari nella villa di Ameglia. Questa mattina il tribunale del Riesame ha depositato il suo verdetto, molto atteso dalla sua parte politica ma anche dall’opposizione e dal mondo imprenditoriale.
Un verdetto che mantiene lo stallo della politica ligure che dura ormai da più di due mesi. Ma anche un’ordinanza molto attesa dalla stessa Procura, il cui lavoro per la prima volta è finito al vaglio di magistrati che non si erano mai occupati finora dell’indagine.
Toti è stato arrestato lo scorso 7 maggio, accusato di corruzione e voto di scambio. Contestazioni che potrebbero aggravarsi nelle prossime settimane.
Sul fronte politico la decisione potrebbe avere pesanti ripercussioni e spingere a una riflessione da parte degli alleati del centro destra circa l’opportunità o meno di presentare delle dimissioni.
Le parole dei giudici
I giudici inchiodano Toti al suo comportamento: «Con Spinelli e Moncada (Esselunga, ndr) si è mosso non già come la figura ideale di pubblico amministratore che ha voluto delineare nella sua memoria ma quasi come l’amministratore di una società privata che concordi con taluni azionisti di riferimento le linee strategiche della propria azione gestionale».
E ancora: «Non era Toti a delineare i propri piani e a discuterli mediando con i vari operatori del settore, ma era Spinelli a discutere i propri piani d’impresa con il Presidente nel mentre questi gli sollecitava finanziamenti per il proprio movimento politico».
Il Tribunale del Riesame concentra la sua attenzione sull’interrogatorio reso da Toti : «Vi si coglie è indubbio lo sforzo dell’indagato di apparire trasparente… ma alla resa dei conti sono le parole pronunciate e non l’atteggiamento interiore del dichiarante quelle con le quali occorre confrontarsi….Il lungo verbale è infarcito di non ricordo….un inciso che non brilla per chiarezza e trasparenza. La scelta di farsi interrogare non è un beau geste…».
E poi la stoccata: «C’era molto poco da ammettere di fronte a captazioni che restituiscono il quadro di un pubblico amministratore di rango apicale che , nel sollecitare costantemente finanziamenti per il proprio comitato elettorale conversa amabilmente con gli stessi finanziatori di pratiche amministrative di loro interesse per le quali si impegna ad intervenire presso le sedi competenti».
“Può favorire chi lo ha finanziato”
Quanto ai motivi che spingono i giudici a non revocare i domiciliari il pericolo di reiterazione del reato è quello ritenuto più urgente. Ecco perchè: «Se è stato necessario per l’indagato farsi spiegare dagli inquirenti che è vietato scambiare la promessa o l’accettazione di utilità di qualsiasi tipo con favori elargiti nell’esercizio della propria funzione pubblica… continua indubbiamente a sussistere il concreto e attuale pericolo che egli commetta altri fatti di analoga indole nella convinzione di operare legittimamente anche a prescindere da imminenti consultazioni elettorali. Ad esempio inducendo taluno a dargli o promettergli nuove utilità per finanziare il proprio movimento politico, adoperandosi per favorire un proprio grande elettore che partecipi ad una gara ad evidenza pubblica pubblica per l’aggiudicazione di un appalto per opere pubbliche e così via…».
Difeso dall’avvocato Stefano Savi, il presidente della Regione si è subito avvalso della facoltà di non rispondere di fronte alla giudice per le indagini preliminari Paola Faggioni, che nei suoi confronti ha disposto i domiciliari come disposto dalla Procura guidata da Nicola Piacente.
Toti però ha chiesto e ottenuto dai pm Federico Manotti e Luca Monteverde, insieme all’aggiunto Vittorio Ranieri Miniati, di farsi interrogare relativamente presto.
E il 23 maggio, nella caserma della Gdf dentro l’area portuale (inaccessibile a giornalisti e curiosi) ha risposto alle oltre 150 domande preparate dagli inquirenti: “Tutti i finanziamenti che ho ricevuto sono tracciati, non mi sono mai messo in tasca niente, ho sempre agito per il bene pubblico”, la linea difensiva portata avanti fin dall’inizio.
Dopo l’interrogatorio e passate le elezioni europee, il governatore che ha sempre escluso l’ipotesi dimissioni ha chiesto alla giudice la revoca o, in subordine, l’attenuazione dei domiciliari. Ma il 14 giugno è arrivato un secco no: “C’è ancora il pericolo di reiterazione di reato e di inquinamento probatorio”.
Da qui la decisione di fare appello al tribunale del Riesame: non sul merito dell’inchiesta che fra gli altri coinvolge anche l’imprenditore Aldo Spinelli (ai domiciliari) e l’ex presidente dell’Autorità portuale Paolo Signorini (in carcere), ma esclusivamente sulla sussistenza delle esigenze cautelari. La discussione in aula, un’ora e mezza in cui ha parlato l’avvocato Savi senza che Toti si presentasse, è avvenuta lunedì scorso.
Nell’ambito di queste mosse, due passi fondamentali. Il primo, l’ammissione di non “chiedere più finanziamenti nelle modalità” contestate dalla Procura. Il secondo, la dichiarazione, sempre tramite avvocato, di non presentarsi alle prossime regionali del 2025 per un terzo mandato, che seppur contrario a quanto stabilito dal Parlamento è sempre stato un cavallo di battaglia di Toti prima del deflagrare dell’inchiesta.
Per quanto riguarda l’attività politica del presidente, nelle scorse settimane si è verificato un qualcosa di mai visto in inchieste di questo tipo: Procura e gip hanno autorizzato Toti a incontrare politici in diverse riprese: quattro appuntamenti fra membri della giunta, leader politici locali e nazionali.
Mosse che però non sono bastate per convincere i giudici del tribunale del Riesame a cancellare, o quantomeno ad attenuare, la misura cautelare nei confronti del presidente.
(da agenzie)
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