PERCHE’ I DAZI SUI FARMACI DI TRUMP SONO UNA MINACCIA ALLA SALUTE GLOBALE
UNA BARRIERA ODIOSA E CRUDELE NEI CONFRONTI DI CHI NON SE LI PUO’ PERMETTERE
Un farmaco non è uguale a un paio di scarpe, una bottiglia di vino o un’automobile,
dove puoi sempre scegliere il prodotto che costa meno. Se sei malato e ti serve quel farmaco specifico, o lo
compri, o non ti curi. I dazi sui farmaci sono una barriera
particolarmente odiosa e crudele perché possono creare costi umani ed economici ben maggiori dei benefici protezionistici. Per questo nel 1995, con l’accordo sulle regole mondiali del commercio Stati Uniti, Unione Europea, Macao, Giappone, Canada, Svizzera e Norvegia si impegnano ad azzerare i dazi sui farmaci. Un accordo che per trent’anni ha mantenuto le medicine duty-free nelle relazioni transatlantiche.
Oggi Trump si tira indietro e dà la colpa all’Europa: «I sistemi sanitari pubblici della Ue ottengono prezzi bassi dalle case farmaceutiche grazie agli alti margini che fanno sul mercato americano, stiamo sussidiando il socialismo altrui e quindi bisogna applicare dazi punitivi».
Usa-Ue prezzi a confronto
Le multinazionali farmaceutiche sono sia europee sia americane e producono in entrambi i territori, ma gli stessi farmaci, quando li vendono sul mercato americano, costano fino al 422% in più rispetto ai Paesi avanzati (fonte: RAND).
Esempio simbolo, l’immunoterapico oncologico Keytruda prodotto dall’americana Merck in Irlanda: oggi negli Usa un trattamento annuale costa circa 191.000 dollari a paziente, in Francia circa 91.000 euro, in Italia fra gli 80 e i 90.000 euro.
Insulina: farmaco salvavita sintetizzato dall’americana Eli Lilly, dalla danese Novo Nordisk e dalla francese Sanofi. Fino al 2023 il prezzo di listino era 300 $.
Da un paio di anni il prezzo è sceso a 66 $. In Italia e Ue fra i 10–20 euro.
Il 90% delle prescrizioni negli Usa è per i generici, quasi tutti
importati dall’estero. In media i generici hanno prezzi del 33% più bassi rispetto ai Paesi Ue, ma poi al banco il paziente americano paga molto di più. Prendiamo l’Atorvastatina (cura del colesterolo) 30 capsule: dai 60 ai 120 dollari. La stessa confezione in Italia costa meno di 8 euro. Il Pantoprazolo (cura la gastrite) terapia da un mese: 174 dollari prezzo di listino, in Italia 11 euro. Il Metoprololo (beta-bloccante) 15/35 dollari e non è sempre reperibile ovunque, In Italia 2,95 euro.
Perché questa differenza?
In Europa sono le agenzie governative a negoziare i prezzi, e i farmaci di fascia A sono in larga parte a carico dei Servizi Sanitari Nazionali. Negli Usa invece sono i produttori a fissare i listini, e la catena di fornitura è gestita dagli intermediari (PBM), che negoziano prezzi e condizioni per conto delle assicurazioni, gestiscono i formulari, le richieste di rimborso e creano reti di farmacie.
Di fatto, secondo l’indagine della Federal Trade Commission, gonfiano i prezzi lungo la filiera. I 3 maggiori gestori (OptumRX, Express Scripts e Caremark) nel 2024 hanno fatturato per i loro servizi attorno ai 560 miliardi di dollari, con un margine operativo medio del 5%, cioè 28 miliardi. E alla fine il cittadino quanto paga? Dipende dal tipo di assicurazione che ha stipulato. E chi non è assicurato paga per intero.
Nell’agosto 2022 Biden ha varato l’Inflation Reduction Act (IRA): la legge che dà al governo federale il potere di negoziare con Big Pharma il prezzo dei farmaci che rientrano nel programma sanitario per anziani e disabili Medicare. Per esempio quello di limitare a 35 $ al mese il costo dell’insulina.
Però diversi produttori hanno intentato cause legali per bloccare questo meccanismo perché, sostengono, equivale a un controllo pubblico dei prezzi. Il problema dunque non è dell’Europa, ma interno al sistema sanitario americano.
I dispositivi
Anche per i dispostivi medici i prezzi sono molto diversi: i produttori di pacemaker, impianti cardiaci, sistema robotico, Tac o Risonanze magnetiche sono sia americani (Medtronic, Abbott, Intuitive Surgical) che europei (Philips, Siemens ecc.), ma gli ospedali americani pagano più caro rispetto a quelli europei, che invece passano per le gare pubbliche d’acquisto. In sostanza, come per i farmaci, quando le aziende vendono nei due mercati si adeguano ai rispettivi sistemi sanitari. E se negli Stati Uniti le aziende fanno profitti immensi proprio perché manca il controllo pubblico, sul mercato europeo non ci perdono: ogni anno realizzano utili a doppia cifra. Per il Presidente Trump sarebbe utile riflettere su un dato: l’aspettativa di vita negli Usa è di 78,4 anni, la media europea è di 81,5 anni, in Italia 83,4. Invece, dal suo punto di vista, una raddrizzata al sistema sanitario passa prima di tutto dai dazi.
Ordine esecutivo e minacce
A maggio 2025 la Casa Bianca con un ordine esecutivo rilancia l’idea del prezzo «nazione più favorita», in sostanza chiede che negli Usa il prezzo dei farmaci sia ancorato al prezzo più basso praticato nei Paesi Ocse comparabili. Non si specifica quali farmaci, come verrà determinato questo prezzo, e quali Paesi saranno considerati «comparabili». A fine luglio ha inviato lettere ufficiali ai Ceo di 17 multinazionali farmaceutiche:
trasferite la produzione negli Usa per evitare i dazi, collaborate con il governo affinché in Europa i prezzi aumentino per compensare riduzioni drastiche negli Stati Uniti, e sui nuovi farmaci non offrite prezzi migliori ad altri Paesi rispetto agli Usa. Vediamo intanto dove produce Big Pharma.
Chi produce cosa
Multinazionali statunitensi come Pfizer, Johnson & Johnson, Eli Lilly, Merck, Bristol-Myers Squibb e AbbVie da anni hanno impianti anche in Europa (Irlanda, Belgio, Germania, Spagna e Italia). La britannica-svedese AstraZeneca ha 11 siti di produzione negli Stati Uniti, tanto che la maggior parte dei farmaci AZ venduti sul mercato americano è già prodotta direttamente sul suolo statunitense. La francese Sanofi ha stabilimenti negli Usa, come pure le svizzere Novartis e Roche. Pfizer Italia produce antibiotici a Catania e ad Ascoli Piceno farmaci antivirali, antinfiammatori e oncologici poi esportati in tutto il mondo (Usa inclusi). Eli Lilly gestisce a Sesto Fiorentino uno dei più grandi impianti biotech per la produzione di insulina: il 98% esportato nel mondo, compresi gli Usa. L’Italia è tra i top esportatori Ue di prodotti farmaceutici. Nel 2024 i farmaci sono stati la prima voce dell’export Ue verso gli Usa, per un totale di 127 miliardi di dollari, di cui oltre 10 prodotti da stabilimenti italiani. Mentre l’import dagli Usa pesa per 45,9 miliardi.
Le eccellenze
Secondo l’industria, i farmaci coperti da brevetto tendono a essere prodotti in pochi siti globali (Europa o Usa) poiché replicare gli impianti su due continenti sarebbe inefficiente. Il vaccino anti-Covid di BioNTech/Pfizer fu inizialmente prodotto
a Puurs (Belgio) ed esportato negli Usa nel 2020, prima che Pfizer attivasse impianti anche in America. Il farmaco contro la fibrosi cistica Alyftrek è prodotto negli Usa da Vertex, ma il principio attivo è stato sviluppato in Europa. L’immunoterapico Keytruda lo produce Merck in Irlanda. La dalurotamide (trattamento del tumore alla prostata) lo produce la tedesca Bayer in Germania insieme alla finlandese Orion. La tedesca Siemens Healthineers produce interamente in Europa i sistemi di diagnostica per immagini (risonanza magnetica, TAC), e il 40% li vende sul mercato americano. Gli Stati Uniti invece guidano nelle terapie geniche e nei dispositivi medico chirurgici ad alta tecnologia.
Arrivano i dazi
Ad agosto l’accordo Usa-Ue fissa un tetto del 15% sui dazi per i farmaci di marca e dispositivi esportati negli Stati Uniti. Un’analisi di Jefferies stima per l’industria farmaceutica costi annui aggiuntivi tra 13 e 19 miliardi di dollari che in parte saranno ammortizzati grazie agli alti margini sul mercato Usa, e in parte scaricati sui consumatori americani. L’entrata a regime di questo 15% dipenderà dall’esito dell’indagine della «Sezione 232» Usa su farmaci e componenti. Quindi una data certa non c’è. Nel frattempo Trump ha ventilato barriere molto più alte (fino al 250%) se nei prossimi 12/18 mesi le aziende non presenteranno piani per trasferire la produzione sul territorio americano. Molti gruppi hanno già annunciato piani d’investimento: Roche per 50 miliardi, Novartis per 23 miliardi di dollari, Sanofiha in programma ampliamenti per 20 miliardi, Merck un piano da 1 miliardo per aprire nel Delaware. A seguire Eli Lilly e Johnson & Johnson.
Il vero obiettivo
A fronte di investimenti ingenti e costi del lavoro più alti rispetto all’Europa, venderanno poi a prezzi più bassi? Gli addetti ai lavori rispondono «no». Un dirigente dell’industria ha dichiarato che per rilocalizzare un impianto, servono miliardi di dollari e almeno 5 anni per costruire e validare una nuova fabbrica. Quindi nel breve-medio termine le aziende cercheranno eventualmente di ottimizzare: produrre negli Usa per gli Usa, in Europa per l’Europa. Un altro dirigente sostiene che presentare piani serve ad allontanare i dazi, ma che prima di spostarsi effettivamente le aziende ci penseranno bene, perché la sicurezza giuridica negli Usa non esiste più. Il tema dei prezzi sarebbe invece solo fumo: il vero obiettivo di Trump sarebbe quello di spostare posti di lavoro e gettito fiscale dalla Ue agli Stati Uniti.
Chi paga il conto?
Qualora le aziende decidessero di trasferire linee di produzione dagli stabilimenti Ue negli Stati Uniti, i prezzi dei farmaci per i pazienti europei cambierebbero? No, e per due ragioni:
1) nella Ue i prezzi sono fissati da regole e negoziazioni nazionali (AIFA in Italia, CEPS in Francia, BfArM in Germania ecc), e i Servizi Sanitari Nazionali rifiutano aumenti non giustificati dal valore terapeutico;
2) Bruxelles ha deciso di non applicare barriere ritorsive sui medicinali importati dagli Usa proprio per non impattare sul sistema pubblico. Con i dazi sui farmaci l’amministrazione Trump si discosta dagli accordi internazionali, e la Commissione Ue, la Svizzera o le multinazionali che operano sotto la
protezione del Wto potrebbero avviare azioni legali, ma i ricorsi non andrebbero da nessuna parte, perché proprio Trump, nel 2019, ha bloccato la nomina dei giudici dell’organo d’appello. Alla fine l’onere ricade dunque sui pazienti americani, che si troveranno polizze più care, o minor accesso alle cure. Ma sono a rischio anche le catene di fornitura globali. Quindi tutti noi.
Effetti sulla filiera
Un’istruttoria Usa della Sezione 232 sta considerando dazi sui principi attivi (che sono i componenti principali dei medicinali) prodotti da Cina e India, da cui Europa e Usa dipendono largamente. Per dire: l’India è il maggiore produttore mondiale di paracetamolo, l’antipiretico più utilizzato al mondo. Le associazioni di settore americane (PhRMA), la federazione europea EFPIA e analisti indipendenti avvertono: tariffe doganali estese porterebbero lungo tutta la filiera inevitabili ritardi, carenze e maggiori costi per terapie essenziali, oncologiche incluse. In caso di nuove epidemie, ogni settimana di ritardo nella disponibilità di un farmaco può fare la differenza tra contenere un focolaio o lasciare che diventi una crisi mondiale. Per dirla con le parole di Douglas Irwin, lo stimato professore di economia del Dartmouth College: «Abbiamo un Presidente del XX secolo in un’economia del XXI secolo che vuole riportarci al XIX secolo».
Milena Gabanelli
(da corriere.it)
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