Destra di Popolo.net

“MI HANNO FATTO PAGARE 1,5O EURO PER I POMODORINI TOLTI DALLA PIZZA”

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

LA DENUNCIA DELLA NUOTATRICE ELENA DI LIDDO:”E’ VERGOGNOSO E VERAMENTE TRISTE”… IL FATTO E’ AVVENUTO A BISCEGLIE, IN PUGLIA

La campionessa di nuoto Elena Di Liddo, quattro ori tra Giochi del Mediterraneo e Universiadi, ha acceso una polemica sui social dopo aver ricevuto uno scontrino spiacevole in una pizzeria di Bisceglie, in Puglia.
Tra le voci del conto, una in particolare ha indignato l’atleta: «No pomodorini», ovvero la semplice richiesta di rimuovere un ingrediente dalla pizza, tariffata 1,50 euro in più.
In una storia Instagram, Di Liddo ha pubblicato la foto dello scontrino. «Da Napoli in su se prendi un caffè al bar e ti fanno pagare il bicchiere d’acqua, il meridionale rimane un attimo scosso da un gesto che per noi è quasi scontato, e stiamo parlando di acqua», ha commentato l’atleta.
«Triste e vergognoso»
«Ma sedermi in un una pizzeria a Bisceglie e pagare 1,50 euro per una cosa che non ho neanche mangiato, in questo caso dei pomodorini tolti dalla pizza, è veramente triste e vergognoso. Al limite del legale?», ha aggiunto la nuotatrice Di Liddo.
Non è il primo caso di scontrini “anomali” che finiscono in rete e scatenano polemiche. Negli ultimi anni, si sono moltiplicati i casi di clienti che hanno denunciato costi extra per richieste particolari, dal taglio di un toast a metà al supplemento per un cucchiaino in più di gelato. Solo nei giorni scorsi, era diventato
virale lo scontrino di un cliente di Bari dove risultavano 50 centesimi in più per una spolverata di pepe sulla pizza.

(da agenzie)

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ATTIVISTI ISRAELIANI INTERROMPONO LA DIRETTA DEL “GRANDE FRATELLO”: “BASTA FAR FINTA DI NULLA”

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

BLITZ A SORPRESA NEGLI STUDI DEL REALITY SOW IN ISRAELE DAVANTI A MILIONI DI TELESPETTATORI

Blitz a sorpresa durante la diretta televisiva del reality show «Grande Fratello» in Israele. Un gruppo di attivisti del movimento pacifista israeliano Standing Together, infiltrato tra il pubblico, è salito improvvisamente sul palco durante la trasmissione in prima serata per lanciare un appello a favore di un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Le immagini, diventate
virali sui social, mostrano i manifestanti seduti a terra che indossano magliette con la scritta “Usciamo da Gaza”, mentre intonano slogan contro l’occupazione israeliana e chiedono la fine delle operazioni militari nell’enclave palestinese.
Al centro della protesta anche un’altra richiesta: che il governo Netanyahu intensifichi gli sforzi per il rilascio degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas.
«Non si può andare avanti come se niente fosse»
Il blitz non violento è durato pochi minuti, ma è stato ripreso da milioni di telespettatori. Il gruppo ha poi lasciato il palco dopo l’intervento delle forze di sicurezza. Standing Together, nota per le sue posizioni contro la discriminazione e a favore della coesistenza tra israeliani e palestinesi, ha rivendicato l’azione definendola un «atto di disobbedienza civile per riportare l’attenzione sull’urgenza della pace». «Sì, l’avete visto in diretta durante il Grande Fratello su Canale 13 – scrivono gli attivisti su X – siamo salite sul palco indossando magliette con la scritta “Usciamo da Gaza”, pronunciando un discorso davanti alle telecamere contro la prosecuzione della guerra e contro l’occupazione di Gaza, che rischia di uccidere gli ostaggi, i palestinesi di Gaza e i soldati. Il nostro messaggio è chiaro: non c’è normalità, non si può andare avanti come se niente fosse», si legge nel post.

(da agenzie)

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ORA I LADRI SI APPELLANO ANCHE ALLA PRIVACY

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

GLI RUBANO LA BICI ELETTRICA NEL CORTILE DI CASA E METTE IL VIDEO SUI SOCIAL, IL LADRO IDENTIFICATO LO VIENE A SAPERE E LO VUOLE DENUNCIARE PER AVER DIFFUSO IL VIDEO CHE LO RIGUARDA

Ladro magari sì, ma comunque attento alla privacy. A Caerano di San Marco, in provincia di Treviso, il furto di una bici elettrica si è trasformato in un caso giudiziario con una denuncia per diffamazione. E il diffamato sarebbe il ladro. Il derubato . Cristian, ha visto sparire la sua e-bike elettrica dal cortile di casa, ripresa interamente dalle telecamere di sorveglianza. Come racconta il Gazzettino, il furto è avvenuto di pomeriggio intorno alle 16:02, mentre in casa si trovavano la moglie e i figli della vittima. Secondo Cristian non si è trattato di un caso: «Quella bicicletta non resta mai fuori, sapeva di trovarla lì». Il ladro ha approfittato del cancello aperto, è entrato nel cortile e si è allontanato con l’e-bike, una Lancia Genio del valore di oltre 1.500 euro.
La pubblicazione sui social per identificare il responsabile
Dopo aver denunciato il furto ai carabinieri di Montebelluna, Cristian ha pubblicato il video sui social per chiedere aiuto ai suoi amici nell’identificazione del ladro. Nel post descriveva il modello della bici e forniva dettagli fisici dell’uomo, compreso un tatuaggio sul polso sinistro, specificando che era stato visto poco prima in un bar della zona. Il video è stato condiviso centinaia di volte, scatenando commenti e segnalazioni. Tra reazioni indignate e messaggi di solidarietà, il filmato è arrivato anche al ladro, che ha visto la sua faccia rimbalzare da un profilo all’altro di conoscenti e residenti della zona.
Il confronto e le scuse (inutili) del ladro
Venuto a sapere dove si trovava il responsabile del furto, Cristian ha anche deciso di affrontarlo di persona. L’uomo ha ammesso di aver rubato la bici e ha provato a chiedere scusa. A Cristian ha raccontato di aver abbandonato la bici da qualche parte a Caerano, dopo aver visto il video circolare sui social. La bicicletta, però, non è mai stata ritrovata.
Il colpo di scena: le minacce di querela del ladro
Alla sera, quando la sua immagine era ormai diffusa in diversi gruppi online, il ladro ha reagito minacciando di denunciare per diffamazione chi continuava a condividere il filmato. Secondo quanto raccontato dalla vittima, anche la famiglia dell’autore del furto avrebbe chiesto di rimuovere almeno il cognome dai post. Ora la procura di Treviso dovrà valutare sia il reato di furto sia le eventuali conseguenze legate alla diffusione delle immagini. Al Gazzettino Cristian ribadisce di non essersi pentito: «È venuto a casa mia e ha spaventato la mia famiglia. E la bici non l’ho più rivista».
(da agenzie)

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L’ESERCITO ISRAELIANO E IL PIANO A CUI NON CREDE: ”ABBIAMO LASCIATO GAZA NEL 2005, ERA INSOSTENIBILE. COS’E’ CAMBIATO ORA?”

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

SOLO IL 35-40% DEI RISERVISTI SI ‘E PRESENTATO, DILAGA IL DISSENSO DALLA POLITICA CRIMINALE DI NETANYAHU

Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, l’afflusso emotivo aveva spinto le risposte alla chiamata militare oltre il 100%, ma ai recenti richiami solo il 35-40% dei riservisti si è presentato, e meno della metà si dice pronta a un secondo turno a Gaza
«Stanno caricando i nostri soldati d’un compito impossibile. Li espongono a minacce quotidiane. Li mettono al centro d’una crisi umanitaria irrisolvibile. Ci siamo già passati, per queste cose. Abbiamo lasciato Gaza nel 2005 proprio perché era insostenibile. Che cos’è cambiato, adesso, per rendere praticabile un’occupazione militare del genere?». La domanda, pesante come un macigno, arriva dal tenente colonnello Peter Lerner, per 25 anni portavoce delle forze di difesa israeliane (Idf). Lerner non è il solo ad esprimere scetticismo: nelle ultime settimane, l’ipotesi di una rioccupazione totale della Striscia di Gaza sta generando crescenti perplessità anche ai vertici militari.
I numeri che servirebbero per controllare la Striscia di Gaza
Secondo le stime interne, servirebbero almeno 250mila soldati per controllare militarmente l’intera Striscia: sessantamila da impiegare subito nell’assedio di Gaza City, gli altri nei mesi successivi. Una prospettiva che appare irrealistica a molti
ufficiali. «E dove andiamo a prenderli?», ha chiesto in tono provocatorio un alto grado, commentando la notizia che il Capo di Stato Maggiore, Eyal Zamir, presenterà il piano tra due settimane. Lerner teme che dietro la formula “controllo della sicurezza di Gaza” si nasconda molto di più: «Temo sia solo un eufemismo per eseguire una rioccupazione e forse anche un reinsediamento di coloni. Questo controllo significa una presenza militare permanente all’interno di Gaza, con l’Idf costretta a fare da responsabile della legge, dell’ordine e perfino dell’amministrazione civile».
I riservisti sempre meno disposti a presentarsi ai richiami
Oggi, dopo decenni di occupazione in Cisgiordania e quasi due anni di guerra ininterrotta, l’Idf appare stanca e logorata. Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, l’afflusso emotivo aveva spinto le risposte alla chiamata militare oltre il 100%, ma ai recenti richiami solo il 35-40% dei riservisti si è presentato, e meno della metà si dice pronta a un secondo turno a Gaza. I motivi sono concreti: dei 295mila soldati richiamati finora, quasi uno su due ha famiglia, uno su venti ha perso il lavoro, e 75mila imprese hanno chiuso. Molti militari hanno divorziato, perso risparmi, abbandonato gli studi. La dimensione psicologica è drammatica: nel 2024 i suicidi fra i soldati sono stati 21 — più che nei dieci anni precedenti — e le richieste d’aiuto alle ong specializzate sono esplose, con un aumento del 145% delle tendenze suicidarie.
Il costo umano e politico del controllo di Gaza
Mantenere il controllo di Gaza significherebbe, spiega Lerner,
«sorvegliare ogni vicolo, amministrare ogni centrale elettrica, finanziare ogni scuola e ospedale». Un impegno che richiederebbe decine di migliaia di soldati in rotazione per anni, con costi di decine di miliardi di dollari l’anno, oltre alla ricostruzione e agli aiuti umanitari. Sul piano strategico, la trappola è evidente: «Hamas continuerà la sua guerra de guerrilla, verrà rafforzata. Noi saremo sempre più invischiati e le nostre azioni saranno sempre meno legittime. Questa non è sicurezza. Non riporterà a casa gli ostaggi. È solo una trappola».
(da agenzie)

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LA TRATTATIVA TRA PUTIN E TRUMP SENZA ZELENSKY, IL “TESORO” MILIARDARIO DI KIEV SUL TAVOLO

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

CHE COSA RISCHIA DI PERDERE L’UCRAINA, LE RISORSE PREZIOSE NELLE REGIONI OCCUPATE DA MOSCA

La presenza di Volodymyr Zelensky al vertice del 15 agosto in Alaska tra Putin e Trump rimane un’incognita. Secondo fonti della Casa Bianca citate da Nbc, non è da escludere che il presidente ucraino possa essere presente, anche se è improbabile che partecipi direttamente al faccia a faccia con Vladimir Putin. Trump potrebbe usare Zelensky per portare avanti un tavolo parallelo con l’Ucraina, ricorda il Messaggero, che in questo momento si sente esclusa e teme che senza Kiev al tavolo Putin possa ottenere una vittoria unilaterale mascherata da accordo di pace. L’ambasciatore americano alla Nato Matthew Whitaker ha definito «possibile» la presenza di Zelensky, anche se il presidente ucraino non ha ancora ricevuto un invito formale.
La posta in gioco: miliardi di dollari in risorse naturali
Quando Trump parla di possibile «scambio di territori» per raggiungere un accordo, dietro ci sono risorse dal potenziale valore di miliardi di dollari. Come ricorda il Corriere della Sera,
il Donbass ospita la più grande riserva europea di manganese e titanio, oltre a uranio, grafite e caolino – tutti metalli e terre rare fondamentali per l’industria hi-tech e la green economy. Perdere la regione di Cherson significherebbe rinunciare a una quota importante del granaio ucraino e soprattutto perdere la «guerra dell’acqua». Cherson, con la foce del Dnipro, rappresenta il bacino idroelettico più importante del Paese. Il collasso della centrale di Kakhovka nel 2024 ha lasciato senza acqua il 94% dei sistemi di irrigazione della regione.
Che cosa vuole Putin per fermare l’invasione in Ucraina
Washington continua a credere che prima di un incontro con l’Ucraina sia necessario che Trump veda Putin. Il consigliere del Cremlino Juri Ushakov ha chiarito che l’inviato speciale Steve Witkoff aveva menzionato l’opzione di un incontro trilaterale, ma Mosca preferisce concentrarsi sul bilaterale. Il vicepresidente JD Vance ha dichiarato che «probabilmente sia i russi sia gli ucraini alla fine rimarranno scontenti», cercando una situazione in cui «possano convivere in relativa pace». Putin vuole che l’Ucraina ceda Donetsk e Crimea, mentre Kiev e l’Europa hanno respinto il piano con una controproposta che punterebbe a tutelare gli interessi di sicurezza ucraini ed europei.
Le risorse strategiche che l’Ucraina rischia di perdere
Per quanto riguarda il Donbass, la ragione dal punto di vista di Kiev è, nell’ordine, politica, militare ed economica. Mosca e Kiev combattono per questo territorio da 11 anni e migliaia di giovani ucraini sono morti per la difesa dell’Est. «Anche qualora Zelensky desse l’ordine di ritirarsi, è tutto da vedere che i
militari obbediscano», commenta Tatarigami UA, ex ufficiale ucraino diventato analista militare. Russofono e culla dell’ortodossia fedele a Mosca, per i nazionalisti di Kiev il Donetsk rappresenta il bastione della rivoluzione di Maidan, la porta dell’Europa e il vero fianco Est della NATO. Quello che nel 2014 fece gola a Washington quando decise di investire sulla formazione degli apparati militari e di intelligence ucraini.
Perdere il Donbass: dalle linee fortificate alle risorse minerarie
Cedere il Donbass significherebbe perdere centinaia di chilometri di trincee e linee fortificate, rendendo molto facile per Putin portare a termine ciò che proclama da tempo: finire il lavoro ed entrare nella regione di Dnipropetrovsk. La linea ferroviaria che collega Pokrovsk, Kramatorsk, Kostyantynivka diventerebbe il trampolino di lancio perfetto per spostare uomini e mezzi e lanciare l’assalto a Dnipro, sede del potere finanziario ucraino. Il Donbass, con il suo bacino minerario, continua Marta Serafini sul Corriere, è la più grande riserva in Europa di manganese e di titanio, uranio, grafite, caolino. Gli stessi metalli e terre rare che sono alla base dell’industria del futuro, dell’hi-tech e della green economy. Le stesse leve che sono servite a Kiev per tenere Washington al suo fianco anche quando la Casa Bianca vacillava.
Perdere la regione di Cherson significherebbe chiudersi definitivamente alle spalle la porta della Crimea e rinunciare a una buona quota del granaio che da sempre ha costituito la forza economica del sud ucraino. Con un’aggravante: perdere la guerra dell’acqua. Se il Donbass è il bacino minerario per antonomasia,
Cherson con la foce del Dnipro è il bacino idroeletrico più importante del Paese. Il collasso della centrale idroelettrica di Kakhovka nel 2024 ha di fatto lasciato senza acqua il 94% dei sistemi di irrigazione a Cherson, il 74% a Zaporizhzhia e il 30% nella regione di Dnipropetrovsk.
Il nodo della centrale nucleare di Zaporizhzhia
Come fa notare Henry Sokolski, direttore esecutivo del Nonproliferation Policy Education Center, in tutte le proposte di pace emerge sempre un elemento: la riapertura della centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, danneggiata e dotata di sei reattori, ora sotto controllo russo. Prima della guerra l’impianto contribuiva ad alimentare la rete elettrica ucraina ed esportava energia in eccesso in Europa. Ora le linee di trasmissione devono essere ricostruite e l’impianto sminato. Ma chi pagherà tutto questo lavoro? I beni russi sequestrati o i fondi della Banca europea per la Ricostruzione? Come sottolinea l’analista militare, ex ufficiale ucraino, noto come Tatarigami UA su X: «Dal 1991, la Russia ha venduto pezzi ai suoi vicini come un macellaio: la Transnistria alla Moldavia nel ’92, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud alla Georgia nel 2008, il Donbass e la Crimea all’Ucraina nel 2014, e poi di nuovo nel 2022. Ma questa volta sarà diverso».
(da agenzie)

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PIU’ POVERTA’ E PIU’ SFRUTTAMENTO: L’OCCUPAZIONE MODELLO MELONI

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

IL LAVORATORE DEV’ESSERE RICATTABILE PER ACCETTARE PRECARIETA’, MENO TUTELE E STIPENDI DA FAME

Il governo Meloni rivendica un trionfo occupazionale. Ma dietro i numeri del lavoro si nasconde un’operazione chirurgica – e crudele – sul mercato del lavoro: non un’espansione virtuosa dell’occupazione, ma un record di lavoro povero e un’espulsione silenziosa delle tutele. Un’operazione che è partita da un
momento preciso: lo smantellamento del Reddito di Cittadinanza, la misura che aveva finalmente introdotto un minimo sindacale di dignità nelle dinamiche tra chi offre lavoro e chi è costretto a cercarlo.
La logica è quella della teoria del salario di riserva: se esiste un sussidio che garantisce un tenore di vita (per quanto minimo) alternativo allo sfruttamento, il lavoratore ha potere contrattuale. Le imprese – almeno quelle meno inclini a rispettare diritti e contratti – devono offrire di più. La risposta del governo è stata semplice: togliere l’alternativa.
Con la soppressione dell’RdC e l’introduzione dell’Assegno di Inclusione (Adi) e del Supporto per la Formazione e il Lavoro (Sfl), l’esecutivo ha ristrutturato il sistema di welfare in senso fortemente selettivo. I numeri forniti dal rapporto Inps 2024 parlano chiaro: dei 418.000 nuclei familiari che avrebbero potuto accedere alle nuove misure, meno della metà ha effettivamente presentato domanda. Circa 212.000 nuclei non hanno ricevuto nulla. Il risultato? Un drastico ridimensionamento della platea dei beneficiari e una ridistribuzione della povertà, non un suo contrasto.
Le nuove misure colpiscono soprattutto chi ha minori, disabili o anziani a carico. Secondo il rapporto, il 60% delle domande di Adi per nuclei fragili è stato respinto. A essere esclusi sono anche gli stranieri (solo il 7% dei percettori di Sfl è comunitario o extracomunitario), le donne con carichi di cura e chi ha un Isee appena sopra la soglia. L’Adi, con appena 52.700 domande effettivamente accolte, e il Sfl, con solo 17.600 persone effettivamente inserite in percorsi attivi, coprono una frazione minima di quanto copriva l’RdC.
Ma non è solo un problema quantitativo: l’accesso al Supporto per la Formazione e il Lavoro richiede competenze digitali non banali, diventando così una misura tecnocratica e classista, che punisce gli esclusi due volte: prima per povertà, poi per ignoranza digitale.
Questa selezione feroce ha prodotto un effetto immediato sul mercato del lavoro: un improvviso aumento della forza lavoro disponibile, soprattutto nella fascia bassa della scala salariale. Senza misure che garantissero una crescita della domanda, lo squilibrio ha provocato ciò che l’economia definisce uno shock di offerta: quando tanti cercano lavoro, ma pochi lo offrono, i
salari crollano.
L’effetto? Più persone hanno un impiego, ma a condizioni peggiori. Secondo dati e testimonianze raccolte da associazioni e sindacati, si moltiplicano i contratti di poche ore, i part-time forzati, le paghe sotto la soglia della sopravvivenza. Persone in condizioni economiche modeste, cioè con valori bassi di Isee, vivono il ricatto di dover accettare qualsiasi contratto, anche se devono lavorare 30 ore a settimana per meno di mille euro al mese. Se poi vivi in una grande città devi scegliere se fare la spesa o pagare l’affitto. E chi non accetta queste condizioni, spesso, finisce nel lavoro nero. Ma per l’Istat questo è “inattivo”, e così la disoccupazione cala artificialmente.
In base agli ultimi dati Istat, relativi al 2023, la povertà assoluta in Italia colpisce l’8,5% delle famiglie e il 9,8% degli individui, per un totale di 2 milioni 235 mila famiglie e 5 milioni 752 mila individui. Negli ultimi 10 anni, l’incidenza della povertà assoluta a livello familiare è salita dal 6,2 all’8,5%, e quella individuale dal 6,9 al 9,8%.
È utile anche l’ultimo Rapporto Caritas per capire meglio. Non solo è aumentata la povertà di chi non ha lavoro, ma anche di chi
ce l’ha: il 48% di chi cerca aiuto ha infatti un’occupazione formale, spesso anche a tempo pieno. Fra le testimonianze raccolte dalla Caritas troviamo Valeria, 36 anni, commessa part-time a Milano: “Lavoro 30 ore a settimana e a fine mese non arrivo comunque a 900 euro. Devo scegliere se pagare le bollette o fare la spesa”. Il Reddito di cittadinanza avrebbe almeno integrato il suo reddito familiare fino a 1.300.
E anche il rapporto Istat 2025 su condizioni di vita e reddito delle famiglie – riferito al 2024 – registra un aumento: il 23,1 % della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale (in aumento dal 22,8 % del 2023).
Nel frattempo il governo ha allentato le maglie dei controlli sui contributi: oggi un’azienda può trattenere i versamenti previdenziali dei dipendenti per tre mesi senza subire conseguenze immediate. Un credito a costo zero, pagato con i diritti dei lavoratori. Inoltre, sono tornati (peggiorati) i voucher, che non coprono più nemmeno le finzioni contrattuali del passato. Il rischio, concreto, è quello di una regolarizzazione del precariato sotto forma di “opportunità” e “flessibilità”.
Giorgia Meloni ha creato occupazione senza dignità e ha
intrappolato forza lavoro in una trappola: povera, precaria, frammentata, invisibile. Ha ristretto le tutele ai “meritevoli”, dividendo i poveri in serie A, B e C. Ha trasformato il mercato del lavoro in un’arena in cui chi è disperato lavora per sopravvivere, non per vivere.
È un modello di Paese che non premia il lavoro, ma il ricatto. E che si regge su un’equazione disumana: se hai fame, accetti tutto. Anche l’ingiustizia.
Pasquale Tridico e Lorenzo Cresti
(da ilfattoquotidiano.it)

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IL COSTITUZIONALISTA MICHELE AINIS: “IL PONTE DETURPERA’ LO STRETTO DI MESSINA: SERVIVA UN REFERENDUM”

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

“AVEVANO FRETTA DI SVENTOLARE UNA BANDIERINA, MA IL PATRIMONIO PAESAGGISTICO VA DIFESO”

Ieri il ministro Matteo Salvini celebrava il Ponte sullo Stretto con una lunga intervista al Corriere, denigrando i contrari all’opera come promotori di “un no ideologico” per andare “contro la Lega”. Ma sabato, al corteo di Messina contro l’opera, c’era anche il professore Michele Ainis, costituzionalista tra i più noti, messinese, non certo imputabile di portare avanti interessi
di partito: “Sarà un grattacielo nel deserto – dice al Fatto il professore – uno stupido mastodonte per cui sarebbe stato necessario un referendum”.
Professor Ainis, prima obiezione: è vero, al Sud mancano infrastrutture, ma da qualche parte si deve iniziare.
Se sto a digiuno tutto il giorno e poi vado a cena fuori, non inizio dal gelato. Ho passato una settimana a Messina e ho ritrovato una città con ancora moltissimi problemi, si rischia di fare qualcosa di completamente fuori contesto.
Però non riconosce un’utilità all’opera?
Il Ponte lo si fa con la promessa di migliorare la viabilità, giusto? È di certo un interesse pubblico, tanto è vero che la Costituzione tutela la libertà di spostamento. Ma i valori costituzionali non sono tutti uguali, esiste una gerarchia. E il valore della protezione del patrimonio culturale e paesaggistico deve prevalere. Vuole un esempio?
Prego.
Facciamo un bel viadotto sopra al Colosseo, così attraversiamo la piazza in maniera più comoda.
Lei dunque sostiene ci sia anche un problema di patrimonio
naturale da preservare?
Questo tratto di mare è segnato da memorie storiche e letterarie. Da Omero in poi ci sono pagine e pagine di cultura sullo Stretto, tra gli ultimi penso a Stefano D’Arrigo. È un unicuum paesaggistico, se ci realizzi questo stupido mastodonte immediatamente crei una cicatrice nera che lo deturpa.
Che spirito ha trovato nella sua Messina?
C’è un segmento di opinione pubblica, composta soprattutto da architetti, avvocati e altri professionisti, che è favorevole, perché probabilmente si aspetta di avere occasioni di lavoro. E lo stesso vale nei ceti più poveri, perché il Sud come al solito subisce il ricatto del lavoro. Probabilmente l’opinione pubblica è divisa a metà. Io in corteo ho trovato persone che non si sono rassegnate, nonostante una prova muscolare con cui il governo ha calato questa decisione dall’alto, dopo che aveva provveduto a punire il dissenso.
È mancato un confronto vero?
Sì, ha vinto la voglia di sventolare una bandierina politica e di farlo in fretta. Mi ha colpito l’assenza di dibattito pubblico, non è stata neanche valutata la possibilità di indire un referendum
anche non vincolante, almeno nei territori interessati.
(da agenzie)

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A PALERMO ANCHE L’ACCESSO AL MARE È UN LUSSO: A MONDELLO LA GUARDIA DI FINANZA STA INDAGANDO SUI TORNELLI CHE REGOLANO L’INGRESSO DEI BAGNANTI SULLE AREE DATE IN CONCESSIONE ALLA SOCIETÀ ITALO BELGA CHE HA REALIZZATO ALCUNI LIDI SUL LITORALE

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

DA OLTRE UN SECOLO LA SPIAGGIA È PRATICAMENTE IN MANO A QUESTA SOCIETÀ CHE, DOPO IL COVID, HA ELIMINATO LE STORICHE “CABINE” PER FAR SPAZIO A UNA DISTESA DI OMBRELLONI A PREZZI FOLLI PER LE TASCHE DEI PALERMITANI RELEGATI SULLA BATTIGIA

La battaglia per il mare libero sulla spiaggia di Mondello, a pochi chilometri da Palermo, passa anche dai tornelli che regolano l’ingresso dei bagnanti sulle aree date in concessione alla società Italo Belga che ha realizzato alcuni lidi sul litorale. Una relazione della guardia di finanza, attesa nelle prossime ore, deciderà sulla loro legittimità e, quindi, sulla futura fruizione del mare palermitano.
Se, dunque, possano esserci ostacoli, ossia i tornelli, per chiunque voglia raggiungere la battigia libera che si trova in corrispondenza delle aree date in concessione. Al momento, chi non vuole pagare nulla deve cercare un varco libero, raro e mal segnalato.
Tutto è partito nei primi giorni di agosto con una lettera inviata al demanio marittimo dal deputato regionale Ismaele La Vardera e dal presidente di +Europa Matteo Hallissey per denunciare la spiaggia negata a Mondello.
I finanzieri hanno filmato e fotografato tutti i varchi di accesso al mare, liberi e non, in attesa di ricevere dalla Regione copia di tutte le concessioni balneari di Mondello per analizzarle una per una.
Documentazione alla mano, hanno messo in cantiere la relazione che arriverà presto sul tavolo della Regione per chiarire, appunto, se lungo il litorale palermitano possano essere utilizzati sistemi di “selezione” per l’accesso dei bagnanti.
A pochi giorni dal Ferragosto, i lidi di Mondello come quelli di altre parti della Sicilia, sono semivuoti, malgrado la differenziazione dei prezzi che propone la società Italo Belga: dai 6 euro a persona soltanto per un fazzoletto di sabbia, il porta ombrellone e la possibilità di utilizzare i bagni e le docce, fino a 33 euro al giorno per una postazione con ombrellone e due lettini.
L’Isola che quest’anno ha registrato il più alto incremento dei prezzi di ombrelloni, sdraio, lettini e pedalò, resta comunque quella con i costi più contenuti del Paese. I bagnanti, però, reclamano più spazi liberi: «Se non si ha la possibilità di spendere non resta che una piccola striscia di sabbia. Non è giusto. L’estate non dovrebbe essere un lusso per pochi».
(da La Repubblica)

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BOLIVAR E’ VIVO E LOTTA IN BRASILE

Agosto 11th, 2025 Riccardo Fucile

GLI ULTIMI SUPERDAZI CONTRO IL GOVERNO LULA SONO L’ENNESIMO ASSALTO DELL’OCCIDENTE CONTRO I LEADER SOCIALISTI IN SUDAMERICA

Donald Trump ha appioppato al Brasile di Ignazio Lula da Silva, l’ex sindacalista tornato al potere dopo anni di assenza per un’accusa di corruzione, risultata poi infondata, un superdazio, del 50%, di gran lunga il più pesante di quelli che The Donald sta disseminando in giro per il mondo.
Lula è colpevole, agli occhi del tycoon, di aver mandato sotto processo il suo predecessore Jair Bolsonaro. Bolsonaro aveva la responsabilità di stare deforestizzando la foresta pluviale amazzonica, favorendo, coprendo e trafficando con loro, i cercatori d’oro, i cosiddetti garimpeiros. Ora, la foresta
amazzonica restituisce il 20% dell’ossigeno mondiale. Secondo altre stime (ah gli statistici non riescono mai a dare risposte univoche, lo vediamo anche in Italia su quasi ogni argomento, dal PIL all’aumento o alla diminuzione dei lavoratori attivi) è solo il 6%, comunque sia è certo che la foresta pluviale amazzonica è il più importante polmone del mondo. Copre non solo il Brasile ma altri Stati sudamericani, Perù, Colombia, Ecuador, Guyana, Suriname, Guyana francese, Bolivia, Venezuela dove c’è un distretto chiamato appunto “Amazzonia” che dà il nome all’intero subcontinente.
La questione della foresta amazzonica non riguarda quindi solo i Paesi che copre, ma il mondo intero.
Ma agli occhi degli yankee il Brasile di Lula e il Venezuela prima di Chavez e oggi di Maduro sono colpevoli di seguire la linea di pensiero del “socialismo bolivariano” cioè di Simon Bolivar, il Libertador, che a metà dell’Ottocento aveva immaginato di riunire vari Paesi sudamericani (la “Grande Columbia”) all’insegna, appunto, del socialismo.
Lula, appena tornato al potere, oltre a tagliare le unghie ai garimpeiros ha preso altre decisioni importanti, come quella di
istituire un ministero per gli indigeni guidato da una donna. Perché la questione della foresta riguarda anche la biodiversità, umana, animale, vegetale.
Ma il socialismo non gode dei favori della cosiddetta comunità internazionale e dei media reggicoda. Si preferisce di gran lunga l’iperliberismo del presidente dell’Argentina Javier Milei, che ha dichiarato letteralmente che “il socialismo è un cancro mondiale”. E Giorgia Meloni, quando è stata da quelle parti per non mi ricordo più quale convegno, a Lula ha riservato una fredda stretta di mano per poi volare subito da Milei che l’ha ricambiata con un costoso dono che non si sa in quali tasche sia finito. Del resto ce lo dice il linguaggio. Quando si parla di Maduro lo si definisce immancabilmente come “il dittatore Maduro”. Gli Stati Uniti qualche anno fa hanno tentato un colpo di Stato in Venezuela guidato, forse lo ricorderete, dal “giovane e bell’ingegnere”, così lo si definiva, Juan Guaidó. In qualsiasi Paese del mondo, anche superdemocratico, chi ha tentato un colpo di Stato finisce in galera. Nella democraticissima Spagna sette indipendentisti catalani sono stati sbattuti immediatamente in gattabuia, mentre il loro leader Carles Puigdemont è tuttora in
esilio. Constatato che Guaidó non aveva nessun seguito, costui, rimasto a piede libero, se ne è fuggito in Nicaragua nelle braccia del dittatore Daniel Ortega.
Ma con il Venezuela gli americani hanno seguito anche altri metodi, i soliti: l’hanno coperto di sanzioni economiche per incoraggiare la rivolta della popolazione. È ciò che hanno fatto, e stanno facendo, anche con l’Iran khomeinista.
Insomma il socialismo deve essere espunto dal mondo. Ora lo si sta facendo con il Brasile di Lula e il Venezuela di Maduro (e di Chavez prima di lui, che aveva un grandissimo seguito popolare). In passato con la Serbia di Slobodan Milosevic, il solo Paese rimasto socialista in Europa, nel 1999, quindi prima dell’11 settembre, che è stato pretesto per gli americani di ogni sorta di violazione del diritto internazionale. Milosevic, pur firmatario della “pace di Dayton”, è stato spedito davanti al Tribunale internazionale dell’Aia per crimini di guerra. Il processo cominciò con grandi strombazzamenti ma poiché Milosevic, avvocato, aveva buone carte per difendersi, il processo finì nel nulla. O meglio: finì con una dubbia morte per infarto dello stesso Milosevic che aveva poco più di
sessant’anni.
Insomma, trionfa l’ipercapitalismo alla Milei o, per salire qualche gradino, alla Trump. Sono capitalisti alcuni Paesi che si dicono comunisti come la Cina di Xi o la Russia di Putin. Capitalismo di Stato, ma pur sempre capitalismo. Resiste la Cuba degli eredi di Fidel. Mi hanno indignato alcuni articoli di giornali italiani che definiscono Cuba “un universo concentrazionario”. Si dimentica cosa c’era prima del castrismo. Quel Paese era nelle mani del dittatore Battista che aveva fatto dell’isola un resort (tipo quello che Netanyahu e Trump vogliono creare a Gaza) per i piaceri dei ricchi americani che andavano a Cuba non solo per praticare il gioco d’azzardo ma per fare i loro sporchi affari. Del resto a Cuba, anch’essa sanzionata mille volte, pur tra mille difficoltà la sanità e l’istruzione sono gratuite. E la loro generosità i cubani la dimostrarono durante il Covid inviando in Italia una cinquantina di medici, spie naturalmente per i quotidiani italiani. Certo non c’è più Che Guevara che lasciò Cuba proprio perché il castrismo stava virando in una dittatura. E il medico argentino Che Guevara, dopo essere andato a combattere in un Paese non suo, Cuba appunto, tentò di
ripetersi andando a combattere in un altro Paese non suo, la Bolivia, un’impresa disperata in cui ci lascerà la pelle. Ma gli eroi romantici alla Guevara non esistono più.
Ci sono sì, Putin, Milei, e altri sporcaccioni che dominano il mondo. Ma noi che fummo anarchici e socialisti libertari in gioventù, e lo rimaniamo, diciamo “hasta la vista, hasta siempre, comandante Che Guevara”
Massimo Fini
(da il Fatto Quotidiano)

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