Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
“L’EUROPA DEVE DIMOSTRARE DI VOLER DANNEGGIARE LA RUSSIA. IL MODO MIGLIORE SAREBBE CONFISCARE I 200 MILIARDI DI EURO DI RISERVE DELLA BANCA CENTRALE RUSSA, CONGELATI NEI CONTI BANCARI DELL’UE, E CONSEGNARLI ALL’UCRAINA”… LA GERMANIA POTREBBE RIFORNIRE L’UCRAINA CON I MISSILI TAURUS A LUNGA GITTATA, SUBENTRANDO ALL’AMERICA CHE NON INVIA PIÙ ARMI. TUTTI QUANTI POTREBBERO MANDARE MISSILI A CORTO RAGGIO”
Il vertice in Alaska è stato un enorme successo per Vladimir Putin e per l’amore per la teatralità di Donald Trump, ma un potenziale disastro per l’Ucraina e l’Europa. La conseguenza più ovvia è che la Russia non ha preso l’impegno di un cessate il fuoco
Quella più importante è che l’America non ha esercitato alcuna pressione sulla Russia per porre fine alla guerra, malgrado Trump avesse promesso all’Europa che l’avrebbe fatto.
È vero, sono emersi pochi dettagli su quello che è stato discusso, tanto meno concordato, tra il dittatore russo e il presidente americano. Senza dubbio, domani emergeranno ulteriori informazioni, quando il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky volerà a Washington per incontrare Trump e si saprà di più delle conversazioni che entrambi avranno avuto con i leader europei.
Nel frattempo, tuttavia, dovremmo riflettere attentamente e con serietà su due episodi rivelatori e preoccupanti del summit.
Il primo è stato l’arrivo su suolo americano del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, che indossava una felpa sulla quale spiccava la scritta in cirillico “Cccp”, la sigla dell’Unione Sovietica.
Si è trattato di uno spudorato espediente televisivo per affermare che la Russia intende ricostruire l’impero andato perduto quando l’Unione Sovietica collassò nel 1991. La Russia è imperturbabile, compatta e imbaldanzita da questo simbolico momento di trionfo in Alaska, l’ex territorio imperiale russo.
Il secondo si è verificato nel corso di un’intervista che Trump ha rilasciato dopo il summit a Sean Hannity, suo amico leccapiedi di Fox News. In quell’intervista, Trump ha fatto ricadere sull’Ucraina l’onere della ricerca di una via per la pace e ha esposto la sua opinione sincera sul conflitto, sottolineando una volta di più che l’Ucraina è un Paese piccolo alle prese con
quella che ha definito la «macchina da guerra» russa.
Il sottinteso è che Zelensky farebbe bene ad arrendersi adesso, e che l’America non farà niente di concreto per aiutarlo.
Questi episodi rivelano anche che Putin e Trump condividono una medesima visione del mondo, secondo loro costituito da molti Paesi deboli e tre superpotenze per le quali valgono leggi diverse.
È il mondo descritto oltre duemila anni fa dallo storico greco Tucidide, il mondo nel quale «i forti fanno quello che possono, i deboli subiscono quello che devono».
Se questo tipo di realpolitik non è mai scomparso, il punto fondamentale della Carta delle Nazioni Unite del 1945, il corpus del diritto internazionale che ne è nato con gli sforzi collettivi dell’Occidente, è impedire il ricorso alla forza militare e proteggere i Paesi più piccoli da quelli più grandi. Per Trump, l’Occidente è morto.
L’Ucraina, come altri Paesi agli avamposti dell’Europa come la Polonia, gli Stati baltici e la Finlandia, era già consapevole delle ambizioni imperiali russe e della sprezzante visione di Trump riguardo ai Paesi più piccoli.
In ogni caso, per gli altri due gruppi ancora in grado di esercitare pressioni su Trump e sulla guerra in Ucraina, il vertice in Alaska potrebbe rivelarsi un efficace campanello d’allarme.
I due gruppi a cui mi riferisco sono i sostenitori repubblicani di Trump al Congresso degli Stati Uniti e i leader dei Paesi europei più potenti, Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna.
Per un misto di lealtà e paura, i repubblicani al Congresso interessati alle sorti dell’Ucraina finora hanno concesso a Trump il beneficio del dubbio. Adesso dovranno scegliere se alzare la voce o restare in silenzio.
A Washington, la reazione iniziale dei repubblicani alla notizie provenienti dall’Alaska è stata abbastanza negativa.
Tuttavia, il deprimente comportamento che hanno tenuto finora nei sette mesi alla presidenza di Trump fa capire che ben presto si azzittiranno.
Le più grandi speranze sono riposte, come sempre, nell’Europa. Da mesi, ormai, la strategia principale degli europei è consistita nel cercare di persuadere Trump a esercitare pressioni su Putin, mentre i militari pianificavano in che modo dare all’Ucraina garanzie per la sicurezza per rafforzare il cessate il fuoco una volta concordato.
Hanno adottato questa strategia per la loro debolezza militare e hanno pagato un prezzo assai salato accettando docilmente i dazi doganali imposti da Trump all’Unione europea e al Regno Unito, invece di cercare di reagire minacciando ritorsioni commerciali.
Adesso, però, gli europei dovranno decidere se questa strategia è definitivamente fallita. L’opzione codarda, ma politicamente più allettante, sarebbe quella di dire che è indispensabile concedere più tempo alla loro strategia.
È arrivato davvero il momento per gli europei di assumere un ruolo di primo piano nel rafforzare la posizione contrattuale dell’Ucraina e costringere la Russia a porre fine a questa guerra. Farlo sarà davvero difficile, perché la debolezza degli europei purtroppo è reale. Gli europei, comunque, hanno a disposizion
gli strumenti per farlo, se solo trovassero il coraggio politico di usarli.
Prima di ogni altra cosa, l’Europa deve dimostrare di voler danneggiare la Russia. Il modo migliore per riuscirci sarebbe procedere alla confisca dei 200 miliardi di euro di riserve della Banca centrale russa, che si stimano essere congelati da tre anni nei conti bancari dell’Ue, e nel consegnare quei fondi all’Ucraina. Questo sì che attirerebbe l’attenzione di Putin e potrebbe perfino fare colpo su Trump, che tanto ama le transazioni.
Contemporaneamente, la Germania potrebbe iniziare a rifornire l’Ucraina con il suo vasto arsenale di missili Taurus a lunga gittata, subentrando così di fatto all’America che non invia più armi. Tutti quanti, inoltre, potrebbero mandare più sistemi missilistici difensivi e missili a corto raggio, anche a costo di restarne privi loro stessi sul breve periodo.
La volontà di assumersi tali rischi e di mettere in luce il bluff degli avversari è una delle cose che contraddistinguono un Paese forte da uno debole, e un leader politico che ha valori da uno che non ne ha. Per l’amor del cielo, Europa, alzati in piedi una buona volta, prima che sia troppo tardi
Bill Emmott
per “La Stampa”
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Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
DOPO L’INCONTRO DEL TYCOON CON PUTIN, LA PREMIER ITALIANA HA SUBITO RICICCIATO L’IDEA DELL’ESTENSIONE DELL’ARTICOLO 5 DELLA NATO A KIEV COME GARANZIA DI SICUREZZA PER L’UCRAINA (SU CUI CI SONO MOLTI DUBBI PRATICI, A PARTIRE DALL’INSERIMENTO NEI TRATTATI, CHE PREVEDEREBBE L’UNANIMITÀ DEGLI STATI DELL’ALLEANZA ATLANTICA)
Decideranno oggi, al termine del vertice dei volenterosi convocato da Emmanuel
Macron e Keir Starmer.
Ma già ieri Giorgia Meloni ha dato disponibilità a volare a Washington per il vertice di domani tra il tycoon e Zelensky .
Ieri la leader si è tenuta lontana dalla sede dell’esecutivo, mentre oggi potrebbe tornare nel palazzo per la conference call con gli europei, prevista alle 15. E a quel tavolo si scontreranno due visioni.
Meloni rivendica infatti l’idea, rilanciata ieri da Trump, di varare garanzie di sicurezza per l’Ucraina che ricalchino l’articolo cinque della Nato, mentre Macron e Starmer spingono per concentrarsi sul progetto dei “volenterosi”, con un impegno di truppe continentali sul terreno.
Una distanza che già ieri ha alimentato sospetti tra partner. E qualche scintilla.
Quando in Italia è ancora buio, Trump chiama i leader europei.
Li avverte che ha trattato con Putin, che lo zar pretende nuove cessioni territoriali, promettendo in cambio che mai più attaccherà Kiev e l’Europa.
È uno schema che provoca brividi nelle cancellerie europee, perché rievoca altri celebri impegni per la pace poi disattesi.
Gli alleati, allarmati, reagiscono con un comunicato durissimo. Lo firma anche Meloni. Accompagnando il via libera, però, a una nota in cui mette l’accento sulle garanzie di sicurezza promesse da Washington.
Sono poche righe, buttate giù al volo e rese pubbliche subito prima dello statement degli europei ,«Si apre finalmente uno spiraglio per discutere di pace in Ucraina – detta alle agenzie, in una prima brevissima dichiarazione – L’Italia sta facendo la sua parte insieme ai suoi alleati occidentali».
Poco dopo, sviluppa con un secondo comunicato il concetto: «Trump ha oggi ripreso l’idea italiana di garanzie di sicurezza
che si ispirino all’articolo 5 della Nato».
Certo, aggiunge, «l’accordo è ancora complicato, ma finalmente possibile». Ma «il punto cruciale» è il meccanismo capace di «scongiurare nuove invasioni russe. Ed è questo l’aspetto su cui si sono registrate ad Anchorage le novità più interessanti. Solo robuste e credibili garanzie potranno prevenire nuove guerre ed aggressioni».
Quali? «Una clausola di sicurezza collettiva che permetta all’Ucraina di beneficiare del sostegno di tutti i suoi partner, Usa compresi, pronti ad attivarsi nel caso sia attaccata di nuovo».
Il progetto anglo-francese è più ampio e prevede anche un impegno diretto di militari sul terreno. La differenza di strategia emerge con chiarezza nella seconda videochiamata, riservata ai soli europei. Meloni, riferiscono, invita Macron e Starmer – e ribadirà oggi la richiesta – a «cogliere» l’apertura americana, senza «lasciarla cadere».
Il presidente francese – sostenuto dal britannico – le ricorda che gi europei «lavorano da mesi al progetto dei volenterosi» e non c’è ragione di «cambiare adesso direzione: perché non continuare sulla nostra linea?». Perché, spiega la premier, il passo in avanti americano è su una sorta di articolo cinque, non sull’impegno di truppe continentali in Ucraina.
Se ne riparlerà nella video call di oggi. Meloni chiederà uno sforzo di «pragmatismo» [ . Che significa : proviamo a chiudere su una proposta da sottoporre a Trump.
Di contro, da Parigi e Londra trapela in queste ore un sentimento di diffidenza verso l’atteggiamento dell’Italia. A Roma viene imputato un eccesso di solerzia nel gioco di sponda con Washington. A danno dell’unità europea.
(da agenzie)
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Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE UCRAINO È CONVINTO CHE PUTIN STIA BLUFFANDO E PRENDA TEMPO PER CONQUISTARE PIÙ TERRENO SUL CAMPO
I problemi, per Volodymyr Zelensky, non finiscono mai. Come evitare lo scontro con Trump, tenere uniti i partner europei, convincere gli ucraini che non svenderà a Putin la terra difesa col sangue in cambio di una pace in cui nel suo Paese stremato dalla guerra credono in pochissimi e allo stesso tempo continuare ad assicurarsi le armi e i mezzi per combattere?
I dilemmi del presidente ucraino sono quelli di un leader giovane che ha dovuto maturare a tappe forzate tra angoscianti pericoli ed errori continui, ma ancora restano forieri di minacce mortali per lui e per la nazione.
In vista del prossimo incontro domani a Washington con il presidente americano resta la scelta evidente di evitare a tutti i costi il ripetersi dello scontro frontale, che lo scorso 28 febbraio costò il blocco degli aiuti militari Usa per quasi due mesi, con la
conseguenza diretta della ritirata ucraina dalla regione russa di Kursk e l’indebolimento generale del sistema militare nazionale ancora largamente dipendente dall’intelligence del Pentagono.
Vero che ormai gran parte degli aiuti militari arrivano dall’Europa, ma ieri Zelensky ha mostrato la stessa flessibilità che aveva garantito la sua riappacificazione con Trump in Vaticano durante i funerali di papa Francesco.
«Le nostre posizioni restano chiare. Dobbiamo raggiungere una pace autentica, che sia durevole e non soltanto una pausa in vista della prossima invasione russa», ha detto pubblicamente Zelensky dopo la telefonata durata oltre un’ora e mezza con Trump, come sottolineano dal suo ufficio, per enfatizzare che comunque Kiev e Washington restano molto vicini.
Zelensky continuerà ad assecondare il presidente Usa per tornare a dimostrare, come già aveva fatto nei colloqui della primavera, che il vero responsabile della guerra è sempre stato e resta il presidente russo. Zelensky fa dunque buon viso a cattivo gioco, non si sofferma troppo sul fatto che Trump abbia «sdoganato» Putin rinunciando alla precondizione del cessate il fuoco.
Ma insiste sulla necessità che gli europei siano parte attiva del negoziato e restino al suo fianco, cosa che del resto Trump concede, visto che invita anche loro al summit di Washington.
C’è però un dato nuovo e abbastanza concreto, che sembra costringerà Zelensky a prendere decisioni difficili. Pare infatti che adesso Putin sia disposto a parlare di un eventuale accordo d
pace, inclusa la promessa che non attaccherà altri Paesi europei.
Ne raccontano fonti della Casa Bianca, accennando a un piano che comporta il ritiro ucraino dall’intero Donbass, ovvero circa il 25 per cento della regione ancora controllato dai soldati di Kiev. La novità sarebbe che adesso Putin potrebbe essere disposto a rinunciare ai territori non ancora suoi delle altre due province.
Sino a poco fa le voleva prendere interamente. Parliamo di Zaporizhzhia, che i soldati ucraini controllano ancora per oltre il 20 per cento compreso il capoluogo, e di Kherson, che le truppe russe occupano per il 70 per cento a est del fiume Dnipro. Alla Crimea non si accenna neppure: Putin l’ha occupata e annessa manu militari nel 2014 e da allora la considera sua […].
L’ennesimo bluff di Putin? Zelensky ne è certo, compreso il fatto che Mosca continui a negare la legittimità dell’indipendenza ucraina: si tratta di farlo capire a Trump. Per esempio non si parla delle consuete pretese russe che l’Ucraina disarmi.
Zelensky ribadisce l’intenzione di non rinunciare al Donbass, ma nel recente passato ha lasciato capire a momenti di poter essere più flessibile e tanto dipende dalle garanzie di sicurezza offerte dagli alleati. La sua popolarità era scesa al 58 per cento a metà luglio, dopo lo scandalo del suo tentativo di imbavagliare le commissioni che indagano contro la corruzione interna.
Eppure, nei momenti più difficili il Paese è sempre stato con lui e oggi più che mai cercherà il consenso interno
(da agenzie)
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Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
L’EPISODIO GROTTESCO A LAIVES: L’IMBARAZZO DEL COMUNE DI FRONTE AI PARENTI CHE HANNO DOVUTO CALARE IL DEFUNTO NELLA FOSSA DA SOLI… E ORA DOVRANNO PURE PAGARE 200 EURO DI “TUMULAZIONE” INESISTENTE
Una giornata di dolore si è trasformata in un incubo per una famiglia di Laives, in
provincia di Bolzano. I parenti di un uomo di 96 anni, deceduto pochi giorni prima all’ospedale del capoluogo, si sono trovati da soli davanti alla bara nel cimitero locale. Nessuno, infatti, era presente per occuparsi della tumulazione. Il funerale si era svolto regolarmente nella chiesa del paese, con amici e familiari riuniti per l’ultimo saluto. Ma arrivati al cimitero, la famiglia ha scoperto che la ditta incaricata dal Comune non si era presentata. Le cause non sono ancora chiarite: potrebbe trattarsi di un errore di comunicazione o di un disguido organizzativo.
Il doppio trauma
«Abbiamo atteso per un’ora e mezza sotto il sole – racconta la figlia, intervistata dal Corriere dell’Alto Adige –. Era mezzogiorno, si moriva di caldo. Un momento già doloroso di per sé è diventato un incubo. Senza strumenti adeguati, con la paura che la bara potesse cadere, siamo stati costretti a fare tutto da soli». Dopo aver contattato il Comune, sono arrivati due dipendenti, ma senza esperienza di tumulazioni. «Alla fine alcuni parenti hanno afferrato delle corde rosse e hanno calato il feretro a mano, legandolo davanti e dietro per cercare di tenerlo stabile. Tremava, oscillava, e noi avevamo paura che finisse a terra. È stato terribile».
Le scuse dell’assessore
Giovedì 14 agosto, la figlia ha ricevuto una telefonata dall’assessore ai servizi cimiteriali, Antonio Cantoro, che ha voluto scusarsi personalmente. «Mi ha detto che è da poco in carica, che ci sono tanti fogli Excel da compilare, un nuovo programma da gestire, e che ha capito che il problema cimiteriale va affrontato in maniera radicale. Poi, però, ha aggiunto che si sarebbe potuto risolvere tutto spostando la tumulazione di 24 ore. A quel punto sono scattata: e dove avremmo dovuto portare la bara? A casa nostra? Non è accettabile».
Le spese per la tumulazione (fai da te)
La vicenda ha scatenato indignazione anche per un aspetto burocratico: la famiglia riceverà tra qualche mese il pagamento PagoPA per le spese di tumulazione, circa 200 euro. «Dopo
quello che è successo, è una beffa», commenta la donna. Cantoro ha espresso «profondo cordoglio alla famiglia del caro defunto» e ha definito l’episodio «un episodio che non può e non deve succedere di nuovo». Ha annunciato l’avvio di «un’indagine conoscitiva per individuare le varie responsabilità» e ringraziato «chi, in un momento di difficoltà, ha agito di iniziativa per sistemare la situazione».
Le promesse del Comune e la delusione
L’assessore ha anche ricordato che da circa sei mesi è in corso un progetto per creare «un sistema gestionale cimiteriale più efficiente e dinamico», e che entro fine anno tornerà la figura del gestore del cimitero, eliminata dalla precedente amministrazione. «Si tratta di una figura molto importante – ha sottolineato – che permetterà di evitare simili disservizi e di garantire una gestione più ordinata e rispettosa». Per la famiglia, resta l’amarezza di aver affrontato un momento doloroso senza il supporto previsto. «Quello che è successo a noi non deve capitare a nessun altro – conclude la signora –. Il dolore per la perdita di una persona cara non dovrebbe mai essere aggravato da disorganizzazione e mancanza di rispetto».
(da agenzie)
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Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
“I BALNEARI? ACCETTINO LE MIE SEI REGOLE”
Il geologo rilancia la polemica che aveva sollevato lui stesso sulle poche spiagge libere e pulite in Italia. Cosa risponde a chi gli fa notare che fuori dagli stabilimenti ci sono tanti rifiuti. La sua proposta per avere almeno la metà dell’accesso al mare gratis
Più sulla valanga di insulti, Mario Tozzi preferisce concentrarsi
sugli apprezzamenti piovuti dopo l’ultimo post polemico sulle poche spiagge libere in Italia. Da quella greca di Naxos, sua preferita ormai da anni, il geologo era tornato all’attacco contro l’eccessiva occupazione dei litorali italiani da parte dei gestori degli stabilimenti balneari.
Quelli che lo insultano sono solo «minus habens – dice a Repubblica – Ho avuto 20 mila like, non mi metto a guardare gli insulti di pochi». E non contento del polverone sollevato col primo post, Tozzi ne ha pubblicato un altro in cui si rivolge proprio ai balneari.
Il sistema italiano di gestione delle spiagge per Tozzi è semplicemente ingiusto e andrebbe rivoluzionato: «Lo scrivo con tutta la simpatia per gli amici balneari che stanno inondandoci le orecchie di lamenti: il sistema italiano di sfruttamento delle spiagge di pregio è ingiusto, ambientalmente dannoso e non funziona».
La proposta di Tozzi ai balneari è di firmare un documento in cui accettino di ridurre drasticamente la loro presenza sulle coste. Le condizioni proposte da Tozzi sono:
comune per comune, spiaggia per spiaggia, il 50% deve essere sempre libero, ma non sul totale nazionale, scarichi e impianti industriali sul mare compresi (eh, furbacchioni!);
del restante 50%, il 20% deve essere attrezzato dai comuni a prezzi calmierati, il 30% può andare a bando;
i prezzi delle concessioni devono essere riadeguati;
sulle spiagge non deve rimanere alcuna struttura fra ottobre e aprile;
tutte le strutture devono essere comunque rimovibili;
le concessioni non possono superare i 10 anni, poi vanno di nuovo a bando.
Solo in questo modo, spiega Tozzi, «tuteliamo un bene e i diritti di tutti. Come accade in tutti i Paesi del Mediterraneo». In Italia invece «esistono comuni che hanno il 98% delle spiagge in concessione – spiega a Repubblica – Anche a Naxos, dove mi trovo, sono spuntati quest’anno stabilimenti con lettini che in prima fila arrivano a 25 euro, ma nel complesso la Grecia regge. Nessun altro paese del mondo raggiunge i livelli dell’Italia».
C’è chi però sostiene che la spiaggia libera è sempre sporca. Tozzi tira dritto: «Non mi risulta. Chi lo scrive confonde i balneari con degli spazzini. Attorno a me non vedo traccia di sporco, e non ci sono neanche i cestini. Chi trascorre la giornata al mare sa che deve riportarsi via i rifiuti. Anche da presidente del Parco dell’Appia Antica avevo deciso di toglierli, per non attirare topi e gabbiani. Della pulizia si occupa il Comune, come per il resto delle aree pubbliche. Chi vuol farci credere che le spiagge libere siano piene di siringhe o di potenziali stupratori semplicemente afferma il falso. Guardate Copacabana, ci saranno trenta chilometri di spiaggia senza uno stabilimento né rifiuti».
(da agenzie)
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Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
GRANDI MOVIMENTI IN VISTA DELLE URNE CON I RAS CHE MIGRANO DA UNA COALIZIONE ALL’ALTRA
Per capire che si avvicinano le elezioni regionali c’è una cartina di tornasole
infallibile: se inizia la campagna acquisti di cacicchi e campioni di preferenze, allora ci siamo.
In questi casi di solito l’affare è doppio: il consigliere (o il suo sponsor) va col migliore offerente ricevendo rassicurazioni sul
futuro, il nuovo partito mette le mani su un bel bottino di preferenze, sperando che il potere millantato dal ras di turno non sia sbiadito.
Particolarmente attivi in questi mesi sono i partiti di centrodestra, anche a costo di furti e sgambetti reciproci. In Puglia il bazar è aperto 24 ore su 24. A inizio agosto la Lega si è assicurata l’arrivo di Massimo Cassano, ex sottosegretario con Renzi e Gentiloni il cui primo incarico in politica, a Bari, risale al 1983. Cassano è stato più volte consigliere regionale, tanto col centrodestra quanto col centrosinistra, è stato senatore con Berlusconi prima e con Alfano poi, e infine ha tentato anche l’avventura centristra con Calenda, prima di accordarsi con la Lega.
Pochi giorni prima, sempre in Puglia Forza Italia aveva invece accolto il consigliere regionale Massimiliano Stellato, altro recordman di preferenze passato da Udc, Udeur, Pd, Italia Viva e compagnia. Lui, a dispetto dei tanti cambi di casacca, non fa una piega: “Sono sempre stato democristiano”.
La sfida al Pd è aperta e FdI non vuole essere da meno. Di qualche mese fa l’annuncio che il consigliere pugliese Paolo Pagliaro, a lungo dirigente di Forza Italia, in vista delle regionali avrebbe sciolto il suo Movimento Regione Salento, facendolo confluire nel partito di Giorgia Meloni.
La lotta per le preferenze sarà agguerrita. La Lega si è infatti garantita anche Napoleone Cera, consigliere uscente eletto la
prima volta a sostegno di Michele Emiliano e la seconda contro. Il padre Angelo è stato a sua volta tre volte consigliere regionale e due volte deputato. Cera cercherà la riconferma insieme al centrista Antonio Paolo Scalera, pure lui appena approdato in Lega. Come nel calciomercato, si aspetta invece l’ufficialità per Anita Maurodinoia in Noi Moderati, ex Pd indagata per corruzione elettorale.
L’altro grande laboratorio politico è la Campania. Quando sarà definita la trattativa tra il Pd e Vincenzo De Luca sarà anche più chiara la strategia elettorale dei fedelissimi del governatore, sia quelli rimasti nel Pd sia quelli sparsi nelle civiche. Per il momento, non è da sottovalutare il cambio di nominativo del gruppo consiliare “De Luca presidente”, diventato “A testa alta con De Luca”, con tanto di simbolo perfetto per una lista. Si vedrà.
Intanto pure qui la Lega ha piazzato un paio di colpi, come l’ex europarlamentare Lucia Vuolo, rimasta senza seggio in FI, e il consigliere Massimo Grimaldi, strappato ai meloniani. Un anno fa era arrivata Michela Rostan, ex deputata il cui curriculum, solo negli ultimi 8 anni, recita: Pd, Articolo 1, Italia Viva, Forza Italia e ora Lega.
In questo quadro non stanno a guardare FI e FdI. I berlusconiani hanno annunciato l’ingresso del consigliere regionale Livio Petitto, mentre a fine 2024 Raffaele Pisacane ha lasciato la maggioranza di De Luca per traslocare in FdI. Ma in Campania
troviamo impronte digitali nobili in questo suk. Sono quelle di Armando Cesaro, figlio del decano forzista Luigi e oggi riferimento campano di Italia Viva. Cesaro ha convinto al trasferimento la consigliera Maria Grazia Di Scala, ritrovandola dopo gli anni di militanza comune in FI. Nel frattempo, Di Scala aveva trascorso gli ultimi anni in FdI, dunque all’opposizione di De Luca.
E nelle altre Regioni al voto? In Calabria le dimissioni a sorpresa di Roberto Occhiuto hanno spiazzato tutti, trovando impreparati gli emissari del mercato, costretti ad anticipare le mosse rispetto alla scadenza naturale della legislatura.
In compenso, la Lega si era portata avanti già dallo scorso anno, quando si era assicurata Katya Gentile da FI. Molto più di una semplice consigliera regionale. Katya è infatti figlia di Pino Gentile, plurieletto per trent’anni in Regione e fratello dell’ex ministro Tonino (il cui figlio Andrea è deputato FI). Dopo decenni, la famiglia si è dunque separata.
Un aneddoto spiega bene il peso di Katya e del padre. Quando l’allora commissario regionale leghista Giacomo Saccomanno presentò Katya Gentile in conferenza stampa, ammise di aver “elaborato un dettagliato report sull’influenza elettorale della famiglia di Pino e Katya Gentile” e di averlo “consegnato direttamente a Matteo Salvini”: “Questo documento – disse Saccomanno – sottolinea l’importante ruolo che la famiglia Gentile ha giocato e continua a giocare nel contesto politico
locale cosentino, regionale e nazionale”. Segno di quanto sarà sentita la competizione interna alla coalizione di Occhiuto.
Da qui alle elezioni è lecito aspettarsi rimescolamenti, come dimostra la fuga di massa da FI in provincia di Crotone provocata, a inizio settimana, dall’addio al partito da parte dell’ex deputato Sergio Torromino, da ben otto anni segretario provinciale dei forzisti. Trattative in corso.
In Toscana le regionali sono invece piuttosto scontate, ma proprio per questo il travaso di qualche migliaio di preferenze da un partito di destra all’altro può essere decisivo per strappare un seggio in più. La Lega ha appena perso due consiglieri: Marco Casucci, il più votato ad Arezzo e vicepresidente del Consiglio regionale, è passato a Noi Moderati; mentre Marco Landi, dopo 10 anni trascorsi anche con importanti ruoli nel partito regionale, è finito in FdI.
I meloniani sono operativi anche in Veneto, in attesa di capire come finirà la decisione sul dopo-Zaia. Due arrivi dalla Lega: Silvia Rizzotto (per la verità eletta con la lista Zaia, con ben 7.300 preferenze a Treviso) e il veronese Marco Andreoli. Da tempo per FI si dà da fare l’ex leghista Flavio Tosi, che sta convincendo molti ex padani a mollare Matteo Salvini. Il caso più recente è l’ex assessore alla Sanità Luca Coletto, che fu anche sottosegretario alla Salute.
E poi le Marche. Forza Italia è scatenata. A ridosso delle elezioni, il partito ha arruolato la consigliera regionale Monica
Acciarri (già ex Pd, poi Lega) e il collega Mirko Bilò, pure lui ex Carroccio. L’ultimo arrivo ufficiale è quello dell’assessora leghista Chiara Biondi. Nel brindare al lieto evento, la neo-forzista ha parlato di “una scelta nel segno della continuità nel centrodestra”. La tipica continuità di chi cambia partito.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
LA FOTO EMBLEMATICA: PUTIN IMPASSIBILE ALLO SHOW DI TRUMP …TRA APPLAUSI, TAPPETI ROSSI E STRAPPI AL PROTOCOLLO
Protagonista indiscussa dell’incontro tra Trump e Putin è la stretta di mano. Più volte ripetuta, prima nella foto appena scesi dall’aereo, poi di nuovo per i fotografi, poi nel corso della conferenza stampa. Una stretta lunga – quella sulla pista d’atterraggio – e protratta, quasi a voler sottolineare con forza che si tratta del sigillo di un’alleanza, non di un semplice saluto, in cui la mano sinistra di Trump poggia sulle loro due mani intrecciate, come in una carezza. Viene da pensare al commento di Alan Friedman: «È più forte di lui, lo adora, è innamorato di Putin».
Se Trump adora Putin, però, dalle foto non sembra che Putin lo ricambi. Nella foto in cui i due leader parlano con l’interprete sullo sfondo, Trump sembra spiegare, chiedere, quasi supplicare Putin che lo ascolta impassibile. È evidente che il presidente degli Stati Uniti non otterrà dallo zar della Russia ciò che gli chiede. Trump allarga le braccia, con insistenza, Putin lo guarda con ironia.
Nella foto della conferenza stampa Putin e Trump sono ciascuno dietro il proprio leggio per parlare ai giornalisti, senza però che questi possano fare domande, in perfetto stile sovietico. A parlare per primo è Putin, uno strappo al cerimoniale dato che a parlare per primo avrebbe dovuto essere il presidente del Paese ospitante, ma forse Trump crede che l’Alaska sia ancora in Russia. E poi c’è il tappeto rosso, segno tradizionale di onore e rispetto, anche se ormai ne approfittano un po’ tutti. E
l’applauso, incongruo segno di approvazione che Trump rivolge a Putin quando questi scende la scaletta dell’aereo, non previsto da nessun cerimoniale. Si è mai visto un presidente che applaude uno zar? E la limousine di Trump, in cui il presidente trascina un Putin fra stupito e riluttante, quasi a volergli parlare senza testimoni.
I volti, gli atteggiamenti, ben visibili in tutte le foto e particolarmente in queste: Trump è esitante, non sembra molto sicuro di sé, tranne che nella foto dietro il leggio, in cui sembra riacquistare compostezza, allargando le braccia, con la sua tipica smorfia sul volto. Putin ha le mani dietro il leggio, nascoste, il volto interlocutorio, si vede che i giornalisti non gli piacciono e in Alaska non può farci niente, ma sta al gioco. Anche a Trump non piacciono, ma è pur sempre in una democrazia. Putin inviterà Trump a Mosca per un prossimo giro di trattative. Trump sembra spiazzato, incerto, ma perché no?
Insomma, sempre per citare Alan Friedman, «imbarazzante». Per Trump, evidentemente. Putin è un criminale di guerra, colpito da un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale per “crimini di guerra, deportazione illegale e trasferimento illegale di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia”. Nessuno si aspettava che venisse arrestato, dal momento che gli Stati Uniti, come del resto la Russia, non riconoscono il Trattato di Roma del 1998. Ma addirittura applausi e tappeto rosso!
Ancora più sgradevole per Trump è il fatto che le immagini ci restituiscono un presidente degli Stati Uniti totalmente dipendente da Putin. Che un personaggio come lui possa non essere all’altezza di un Putin, che ha un passato, sotto l’Urss, di tenente colonnello del Kgb, e che quindi non può essere uno sprovveduto, non è stupefacente. Più preoccupante è il fatto che questa vera e propria rappresentazione teatrale dell’incontro di Anchorage non solo non abbia portato a nessuna pace, ma abbia invece ristabilito il prestigio internazionale di Putin. Ce lo potevamo aspettare, ma vederlo impresso nelle foto, nei volti, nei gesti, visibile a tutti, senza pietà, questo è davvero imbarazzante. Finisce che Trump ci farà pena, anche se non se lo merita.
(da lastampa.it)
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Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
A RITROVARLI SONO STATI DEGLI OSPITI DELL’HOTEL CAPTAIN COOK DI ANCHORAGE, DOVE HA ALLOGGIATO LO STAFF DELL’AMMINISTRAZIONE USA… NEI FILE, OLTRE A RIVELAZIONI SUL REGALO DI TRUMP A PUTIN (LA STATUA DI UN’AQUILA) C’ERANO DATI SENSIBILI, COME NOMI E NUMERI DI TELEFONO DI MEMBRI DELLA DELEGAZIONE, E IL MENU DEL PRANZO (CHE POI È SALTATO)
Una serie di documenti con la carta intestata del dipartimento di Stato americano,
rinvenuti venerdì mattina nel centro commerciale di un hotel in Alaska, rivelano dettagli precedentemente riservati e potenzialmente sensibili sul vertice di Ferragosto tra Donald Trump e Vladimir Putin ad Anchorage.
Lo riporta Npr, che riferisce di “otto pagine, che sembrano ess state prodotte da personale statunitense e dimenticate accidentalmente”, nelle quali venivano riportati “luoghi e orari precisi del vertice e numeri di telefono di dipendenti del governo Usa”.
I documenti sono stati rinvenuti verso le 9 di venerdì da tre ospiti
dell’hotel Captain Cook, un albergo a quattro stelle situato a 20 minuti dalla base congiunta Elmendorf-Richardson di Anchorage, dove si riunivano i leader di Stati Uniti e Russia. I fogli erano stati dimenticati in una delle stampanti pubbliche dell’hotel. Npr ha esaminato le foto dei documenti scattate da uno degli ospiti.
La prima pagina del documento stampato rivela la sequenza degli incontri del 15 agosto, inclusi i nomi specifici delle stanze all’interno della base di Anchorage in cui si sarebbero svolti. Rivelava anche che Trump intendeva fare a Putin un regalo cerimoniale. “POTUS al Presidente Putin”, si legge nel documento, “Statua da scrivania raffigurante un’aquila calva americana”.
Le pagine da 2 a 5 elencano i nomi e i numeri di telefono di tre membri dello staff statunitense, nonché i nomi di 13 membri delle delegazioni governative statunitensi e russe. Le pagine 6 e 7 descrivono come sarebbe stato servito il pranzo al summit e a chi. Un menù incluso nei documenti indicava che il pranzo si sarebbe tenuto “in onore di Sua Eccellenza Vladimir Putin”. Una mappa dei posti a sedere mostra che Putin e Trump avrebbero dovuto sedersi uno di fronte all’altro durante il pranzo. La Casa Bianca e il dipartimento di Stato non hanno rilasciato commenti sulla vicenda.
(da agenzie)
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Agosto 17th, 2025 Riccardo Fucile
E ADESSO COSA POTRÀ SUCCEDERE LUNEDÌ PROSSIMO NELLA SALA OVALE DOVE È ATTESO L’INCONTRO TRA TRUMP E ZELENSKY? LA PAURA CHE IL LEADER UCRAINO SI PRENDA UN’ALTRA DOSE DI SCHIAFFI E SBERLEFFI DAL TROMBONE A STELLE E STRISCE INCOLPANDOLO DI ESSERE IL RESPONSABILE DEL FALLIMENTO DELLA SUA TRATTATIVA CON MOSCA, HA SPINTO MACRON A CONVOCARE I ”VOLENTEROSI”. OBIETTIVO: PREPARARE ZELENSKY AL SECONDO ROUND CON IL TEPPISTA DELLA CASA BIANCA
Il fatto che Putin sia ritornato a Mosca con l’alloro del vincitore, la dice lunga di come sia andato l’incontro con Trump. L’obiettivo di convincere la Russia ad una “tregua aerea” era il minimo sindacale che l’affarista bancarottiere diventato per la seconda volta presidente degli Stati Uniti voleva portare a casa. Invece il teppista in chief della Casa Bianca se n’è tornato a Washington con un pugno di mosche in mano.
Del resto, sottolineano gli analisti di geopolitica, l’esito fallimentare di Trump era nell’ordine delle cose: come puoi confrontarti con gli esperti e scaltri diplomatici russi (Sergei Lavrov, ministro degli Esteri, e Yuri Ushakov, consigliere e
assistente di Putin per la politica estera, diplomatico di lunghissima esperienza, già ambasciatore russo negli Usa dal 1998 al 2008), affiancato da un segretario di Stato come Marco Rubio, notoriamente a digiuno di politica estera, e da un venditore di appartamenti come Steve Witkoff, promosso da Trump a inviato in modalità ‘’Mister Wolf’’, quello che risolve tutti i problemi. Purtroppo, non siamo in un film di Tarantino
Il Trombone di “America First”, davanti a Putin, è subito partito male garantendo che l’Ucraina non entrerà mai nella Nato, aggiungendo il riconoscimento della Crimea allo stato russo. Due segni, diciamo così, di buona volontà davanti ai quali l’autocrate di Mosca ha sbadigliato, considerandoli già del tutto per scontati.
Di scavallare l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, estendendo a Kiev solo l’Articolo 5 del Patto Atlantico, che afferma che un attacco armato contro uno o più paesi membri dell’alleanza in Europa o in Nord America sarà considerato un attacco contro tutti i membri, non è nemmeno entrato nella discussione.
Anche perché una tale modifica del Patto comporterebbe un voto all’unanimità, cosa ad oggi irrealizzabile. Solo il camaleonte Giorgia Meloni fa orecchie da mercante e lo ripropone come un tormentone per pura propaganda.
Da parte sua, Putin ha continuato, sornione, a portare avanti la sua politica di dividere il fronte avverso. Nel corso dell’anno Mad Vlad ha provato ad allontanare Starmer da Macron, Starmer da Merz, seminando zizzania anche in casa Meloni (vi ricardate la beffa telefonica in cui cadde la Ducetta con i due comici
russi?) e nell’incontro tra i ghiacci dell’Alaska ha cercato di convincere Trump di tagliare i lacci e lacciuoli che in cui resta impelagata la sua azione di governo stando appresso ai leader europei.
Missione del resto non ostica visto gli innumerevoli “vaffa” lanciati dalla Washington trumpiana dall’inizio della sua amministrazione ai rapporti che dal dopoguerra, e per 80 anni, hanno cementato l’azione dei due continenti, ultimo dei quali la guerra dei dazi.
Tra vari motivi che mantengono accesa una relazione del Caligola della Casa Bianca con l’Europa, fa capolino anche l’ego-smania di essere incoronato, come Obama, con il Nobel della Pace. Onorificenza che purtroppo per King Donald viene presa a Stoccolma e non a Mar-A-Lago.
E adesso cosa potrà succedere lunedì prossimo nella Sala Ovale dove è atteso l’incontro tra Trump e Zelensky? La paura che il leader ucraina si prenda un’altra dose di schiaffi e sberleffi, con il Fuhrer a stelle e strisce che lo sbatte alle corde incolpandolo di essere il responsabile del fallimento della sua trattativa con Mosca, ha spinto il galletto Macron a convocare il gruppetto dei Volenterosi (Germania, Polonia, Finlandia, etc.). Obiettivo: preparare Zelensky al secondo round con il Teppista della Casa Bianca.
(da Dagoreport)
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