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FEDERICO ALDOVRANDI, LA RABBIA DEL PADRE: “CHI L’HA UCCISO ORA HA ANCORA LA DIVISA. PENSAVO GLI AVREBBERO DATO L’ERGASTOLO”

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

IL GIOVANE 18ENNE VENNE UCCISO BRUTALMENTE A CALCI E MANGANELLATE NEL 2005, MA ALLA FAMIGLIA NON VENNE DETTA LA VERITA’… I QUATTRO AGENTI CONDANNATI SONO STATI REINTEGRATI NELLA POLIZIA, L’ENNESIMA VERGOGNA

Un posto di blocco, due manganelli spaccati a furia di botte, un giovane bloccato a terra sull’asfalto, ammanettato e soffocato. È la notte del 25 settembre 2005 quando, in provincia di Ferrara, il 18enne Federico Aldrovandi viene massacrato e ucciso da quattro agenti.
«Avevano detto che si era sentito male, ma addosso aveva 54 lesioni, la distruzione dello scroto. Eppure la procura sosteneva che aveva fatto tutto da solo, che era un drogato», racconta alla Stampa il padre Lino Aldrovandi, ex ispettore di polizia municipale. «Ora tutti e quattro sono stati reintegrati in servizio, con incarichi amministrativi. Credo che siano di nuovo in giro, in altre città».
Il ricordo di Lino Aldrovandi e gli ultimi attimi con Federico
Se lo ricorda con le cuffie in testa, mentre sta portando fuori il canne per una passeggiata. E poi vestito da calcetto, pronto a uscire con i suoi amici per una partitella prima di un concerto a Bologna: «È stata l’ultima volta che l’ho visto», racconta Lindo Aldrovandi. «Alle cinque e mezza di domenica mattina ho visto il suo letto intatto e ho cominciato a preoccuparmi: quando faceva così tardi avvertiva sempre mia moglie, così l’ho svegliata, ma lei non aveva avuto nessun messaggio».
Lui al telefono non rispondeva, polizia e ospedali non avevano notizie. La mattina dopo un agente della Digos, suo amico, è arrivato a casa sua: «Con una faccia… mi ha guardato scuotendo la testa, faticava a trattenere l’emozione. Gli ho detto “è morto?” e lui ha annuito. Sono entrato in un mondo quasi da impazzire, come se mi fosse venuto addosso un treno».
Le condanne dei poliziotti e il reintegro: «Pensavo gli dessero l’ergastolo»
Molte cose non tornavano, per questo Lino Aldrovandi e la moglie Patrizia Moretti hanno aperto un blog per raccontare la storia del figlio: «Avevamo la sensazione di essere stati lasciati soli. Hanno iniziato a interessasi i giornalisti, il programma Chi l’ha visto?, anche per chiamare a raccolta i testimoni». Tra il 2019 e il 2012 si arriva a una sentenza in giudicato: tre anni e sei mesi per i quattro agenti per omicidio colposo con eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi.
Dopo aver scontato sei mesi, però, è arrivato l’indulto: «Il procuratore generale della Cassazione li definì “schegge impazzite in preda al delirio”. Da genitore ho pensato “benissimo, gli daranno l’ergastolo”, contando che il portare una divisa secondo me è un’aggravante», scuote la testa Lino Aldrovandi. «E invece la divisa gliel’hanno ridata…».
Lino Aldrovandi e il divorzio: «Il dolore ha scavato una voragine tra me e mia moglie»
Sono ormai passati quasi vent’anni da quel dolore immenso, ma le cose non sono cambiate. Anzi sono peggiorate: «Con la nuova legge sulle manifestazioni, sembra sia data mano libera alla polizia. Se ricapitasse oggi non so come andrebbe, anche perché la giustizia ha costi legali pesanti che un poveraccio non potrebbe permettersi». Ma è una tragedia che ha segnato indelebilmente la vita dei genitori di Federico: «Ora io e mia moglie siamo divorziati, la sua morte ha creato una voragine fra noi. Forse è stato il dolore, dolore contro dolore ha finito per acuirlo. Avrei continuato ma le persone vanno rispettate, ora vivo nella mia solitudine».

(da agenzie)

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CI VOLEVANO I MEDICI ITALIANI PER SMENTIRE I CIALTRONI DI ISRAELE: MARAH ABU ZURI, LA 19ENNE PALESTINESE ARRIVATA DA GAZA E MORTA A PISA, NON È DECEDUTA PER LEUCEMIA, COME SOSTENEVANO DA TEL AVIV, MA AVEVA UN “PROFONDO DEPERIMENTO ORGANICO

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

DALLE ANALISI NON È EMERSA ALCUNA TRACCIA DELLA MALATTIA, COME INVECE AVEVA RIFERITO IL COGAT, L’ENTE ISRAELIANO PER IL COORDINAMENTO DELLE QUESTIONI UMANITARIE NELLA STRISCIA – IL RACCONTO DELLA MADRE: “DA CINQUE MESI MARAH MANGIAVA SOLO TÈ E QUALCHE BISCOTTO”. IN POCO TEMPO LA RAGAZZA HA PERSO VENTI CHILI ARRIVANDO A PESARNE 35

«Da cinque mesi Marah mangiava ogni giorno solo tè e qualche biscotto. Abbiamo perso tutto. La nostra casa distrutta. La mia famiglia vive in una tenda davanti al mare». È un racconto di silenzi e patimento quello che Nibila, la madre di Marah Abu Zuri, la ragazza palestinese di 19 anni morta giovedì a Pisa, ha fatto in questi giorni a chi l’ha incontrata. Assieme alla figlia era arrivata mercoledì sera con un volo umanitario del governo italiano dalla Striscia di Gaza, sperando di trovare in Italia cure e sostegno all’ospedale Cisanello. Ma le condizioni della ragazza erano ormai irreversibili. E adesso sul decesso adesso scoppia il caso
«Soffriva di leucemia» afferma il Cogat, l’ente israeliano per il coordinamento delle questioni umanitarie nella Striscia, nonché unità del ministero della Difesa.
In Italia i referti hanno dato esito negativo. «Le analisi che abbiamo svolto fino ad ora hanno escluso la leucemia, ma non sono state rilevate neppure altre cause» ha spiegato Sara Galimberti, direttrice dell’Unità operativa di ematologia dell’Aou Pisana che aveva in cura la giovane. Non si sa se Marah avesse un’altra malattia. Per scoprirlo servirebbe l’autopsia, che però la madre ha chiesto di non svolgere per motivi religiosi.
La ragazza aveva però un «profondo deperimento organico», ha spiegato l’azienda sanitaria. Una fragilità che quantomeno «potrebbe essere stata concausa del decesso» ha detto Galimberti
Secondo la madre, Marah era sempre stata bene prima della guerra.
Poi ha perso circa venti chili in pochi mesi, arrivando a pesare attorno ai 35. «Frequentava l’ultimo anno di liceo classico. La sua scuola è stata distrutta e ha dovuto smettere […] » ha raccontato Nabila in questi giorni. Marah era la sua figlia più piccola. Il padre, le sei sorelle e il fratello «sono ancora accampati sulla Striscia. Siamo partiti perché lei era quella in condizioni più gravi. In Italia speravo di salvarla. Abbiamo dovuto camminare per giorni, da mattina a sera». Dopo che Marah sarà seppellita, «voglio tornare dalla mia famiglia e riabbracciarli» ha detto Nabila. Il padre gestiva un distributore di benzina, la madre un negozio di vestiti.
Poi tutto è stato raso al suolo.
Il Cogat scrive su X: «Le autorità italiane contattarono Israele chiedendo l’evacuazione di Marah a causa della sua malattia, e Israele acconsentì. L’evacuazione sarebbe potuta avvenire prima, poiché Israele aveva proposto diverse possibili date per il trasferimento». Poi l’ente si difende e accusa: «Israele facilita il trasferimento medico dei pazienti, con particolare attenzione ai bambini, e incoraggia i Paesi di tutto il mondo a presentare richieste di questo tipo».
Ma la storia di Marah racconta una realtà diversa.

(da agenzie)

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FONTI DEL CREMLINO: “PUTIN NON LASCERA’ LE ZONE CHE CONSIDERA RUSSE”

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

“PROPONE UN RITIRO DA AREE MINIME IN CAMBIO DI TUTTE LE CONDIZIONI”…IL POLITOLOGO GALEOTTI: “TRUMP DEVE SAPER DIRE DIRE DI NON ALLE RICHIESTE MASSIMALISTE DELLO ZAR”

Vladimir Putin potrebbe accettare un ritiro delle sue forze armate da alcune minime aree che hanno occupato in Ucraina, in cambio dell’ok alle condizioni russe in un accordo di pace che preveda il cessate il fuoco. Lo riferisce a Fanpage.it una persona al corrente delle posizioni del Cremlino. Non basta per un accordo ma potrebbe essere uno spiraglio: il primo passo per un confronto decente su una soluzione politica del conflitto. Ammesso che Trump, dopo il loro incontro in Alaska, riesca a limitare le ambizioni del presidente russo.
L’osceno baratto
“Non consideriamo i lembi di territorio che controlliamo nelle oblast di Sumi, Dnepropetrovsk e Kharkiv come parti della Russia”, ha detto la fonte. “È credibile che la nostra leadership rinunci a queste piccole sacche a fronte del completo ritiro ucraino dal Donbass”.
Il nostro interlocutore non ha ancora ricevuto un briefing ufficiale sul summit di Anchorage ma conosce già l’orientamento del suo governo. Gli garantiamo l’anonimato per evitargli eventuali problemi, vista la delicatezza della questione. Le sue parole confermano da Mosca quanto battuto l’agenzia Reuters, che cita fonti occidentali.
Se l’occupazione russa di Dachnoye e Maliivka nel Dnipropetrovsk è contestata da Kiev, è certa quella di circa 440 chilometri quadrati nelle regioni di Sumy e Kharkiv.
In cambio del ritiro degli invasori, gli ucraini dovrebbero ritirarsi da 6.600 chilometri quadrati che ancora controllano nelle oblast di Donetsk e Luhansk.
Il 70 per cento della prima e il 99 per cento della seconda sono già sotto i russi. Il quadro del “territory swap” comprende il
congelamento delle attuali linee del fronte nelle regioni di Zaporizhzhia e di Kherson, anch’esse occupate per circa il 70 per cento dalle truppe di Putin ma già annesse e inserite nella Costituzione come “territori della Federazione Russa” insieme a Donetsk e Luhansk.
Il baratto — secondo Reuters— prevede anche il riconoscimento dell’annessione della Crimea, avvenuta nel 2014. Non si capisce se solo da parte degli Stati Uniti o anche di Paesi europei e Ucraina. Nessuna conferma né ufficiale né confidenziale da Mosca. La comunità internazionale, sulla base della Carta dell’Onu e di altre norme giuridiche, considera illegali le cinque annessioni.
“Garanzie stile Art. 5? Non ci contate”
“La Russia non si ritirerà mai da alcuna terra che considera russa”, chiarisce la nostra fonte moscovita. Secondo cui le questioni territoriali sono tutt’altro che marginali, per il Cremlino. Ma non sono la priorità. Che resta quella di un accordo di pace prima del cessate il fuoco. Col riconoscimento delle condizioni massimaliste più volte elencate: demilitarizzazione, neutralità e ingerenza russa nella legislazione ucraina. Il tutto, nell’ambito di un sistema di sicurezza che garantisca Mosca, più che Kiev.
Il negoziatore americano Steve Witkoff ha detto alla Cnn che sulla sicurezza si è trovato un accordo: “Stati Uniti e altri Paesi europei potrebbero offrire garanzie con formule simili a quelle dell’Articolo 5 del trattato Nato”. La persona al corrente delle posizioni del Cremlino, però, smorza subito gli entusiasmi: “Si tratta di speculazioni poco credibili”, commenta al telefono dalla capitale russa. Secondo Witkoff, “la Russia ha dichiarato che si
impegnerà a livello legislativo a non rivendicare ulteriori territori in Ucraina”. Il vecchio amico del presidente ha poi spiegato che Trump non insiste più su un cessate il fuoco immediato. Motivo: “Sono stati raggiunti molti progressi, i russi hanno iniziato a mostrare una certa moderazione e sono state trattate quasi tutte le questioni necessarie”. Nessun particolare in merito. Evidentemente, Trump si è convinto che un accordo generale sia la prima cosa da fare. Proprio come hanno sempre voluto i russi.
Uno spiraglio, forse
“Non è stata raggiunta alcuna intesa accettabile”, afferma Mark Galeotti, tra i principali esperti internazionali di politica russa e sicurezza. “La demilitarizzazione dell’Ucraina è semplicemente impossibile, e minimi arretramenti russi sul fronte non sono sufficienti per arrivare a un accordo. Ma possono essere il prologo di discussioni oneste e realistiche”.
Prima di ogni altra mossa, “al Cremlino aspettano di vedere che succede nell’incontro di Trump con Zelensky e i leader Europei nello Studio Ovale” in programma per oggi, spiega a Fanpage.it Galeotti.
Alla vigilia del vertice di Washington, l’Europa ha già messo in guardia la Casa Bianca sullo scambio di territori, considerato un osceno regalo a Putin. Zelensky “non vorrà né potrà ordinare ai suoi soldati di ritirarsi dalla parte del Donbass rimasta ancora ucraina”, nota Galeotti. Il “territory swap” con una ritirata solo minima delle forze russe “non addolcirebbe in alcun modo l’abbandono di territori così vasti da parte di Kiev”.
Le difese ucraine si sono dimostrate finora insuperabili, in punti chiave delle linee in Donbass. A costo di gravi perdite. Ma quelle della lenta avanzata russa sono addirittura immani. La nuova guerra, la guerra dei droni, dà un vantaggio fisiologico ai difensori. Che sono stremati e hanno sempre maggiori problemi nel mobilitare nuovi combattenti. Però non sono sconfitti.
“La pace non si svende”
Se gli accordi si faranno sulla loro pelle, con l’accoglimento di tutte le richieste di Putin, Kiev potrà gridare al tradimento da parte di America ed Europa — che si dimostrerebbe così incapace di difendere nei fatti le posizioni sempre ribadite a parole. E l’eventuale fine del conflitto così come lo conosciamo coinciderebbe probabilmente con l’inizio della guerriglia contro gli invasori.
Se invece Trump riuscisse a convincere Putin ad accettare vere garanzie di sicurezza degli Usa all’Ucraina, stile articolo 5, “allora sarebbe un passo verso la pace”, sostiene Mark Galeotti. “Ma i russi non offriranno alcuna concessione finché non saranno certi di doverlo proprio fare”, aggiunge.
Non significa che sia necessario l’avvio di nuove sanzioni. Anche dazi al 500 per cento per i Paesi che comprano gli idrocarburi russi — minaccia che Putin è riuscito abilmente ad allontanare proprio offendo il summit in Alaska — avrebbero un’efficacia dubbia: le motivazioni dello zar sono più “alte” rispetto a ogni futuro guaio finanziario ed economico per il Paese.
Lo scontro con l’Occidente liberale e il ripristino di glorie passate vere o presunte hanno la precedenza. L’ideologia e il desiderio di passare alla Storia come l’uomo che fece di nuovo grande la Russia ormai prevalgono su quello che un tempo era il proverbiale pragmatismo del capo del Cremlino.
“Ogni ulteriore pressione sarebbe inutile”, conclude Galeotti. “Piuttosto, serve dimostrare chiaramente la volontà di resistere a richieste eccessive”. Trump deve imparare a dire di no, quando parla con Putin.

(da Fanpage)

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“LA PROPOSTA DI GIORGIA MELONI? È UN’INIZIATIVA FARLOCCA”.I CONSIGLIERI DI ZELENSKY SONO SCETTICI SULL’IPOTESI DI ESTENDERE ALL’UCRAINA L’ARTICOLO 5 DELLA NATO: “NON CI ASSICURA ALCUNA PROTEZIONE. GIÀ ADESSO GLI ALLEATI OCCIDENTALI POTREBBERO INVIARE TRUPPE PER AIUTARCI A CONTRASTARE LE UNITÀ NORDCOREANE CHE COMBATTONO ASSIEME AI RUSSI. MA NESSUNO FA NULLA”

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

ANCHE MACRON E STARMER DUBITANO MOLTO DELL’IDEA, CHE NON DISPIACEREBBE A TRUMP (E ANCHE PUTIN AVREBBE DATO L’OK): I “VOLENTEROSI” PROMUOVONO UN ROBUSTO CONTINGENTE MILITARE DA SCHIERARE IN UCRAINA, PER GARANTIRE UN EVENTUALE ACCORDO DI CESSATE IL FUOCO

È dal tempo dei falliti negoziati di Istanbul nel marzo-aprile 2022 che Kiev chiede precise garanzie di sicurezza e difesa agli alleati occidentali.
Se è ormai assodato che l’Ucraina non potrà entrare nella Nato, diventa più che mai necessario ottenere altre formule di difesa militare.
I consiglieri del presidente si dicono per esempio molto scettici sull’idea di Giorgia Meloni di adattare l’articolo 5 della Nato all’Ucraina senza che diventi membro a pieno titolo dell’Alleanza.
«Si tratta di un’iniziativa farlocca. Non ci assicura alcuna protezione. Già adesso gli alleati occidentali potrebbero inviare truppe per aiutarci a contrastare le unità nordcoreane che combattono assieme ai russi.
Ma nessuno fa nulla», scriveva ieri mattina Serhiy Sternenko, un militare volontario che gestisce un sito molto popolare. Non è chiaro tra l’altro che fine abbiano fatto le richieste avanzate da Putin sul disarmo ucraino e sulla rimozione di Zelensky: due condizioni assolutamente inaccettabili sia da Kiev che dai
partner europei.
È però indicativo che sia i media che i social locali insistano sui relativi successi delle controffensive ucraine degli ultimi giorni nella zona del Donbass. A contrastare la propaganda di Mosca, che appena prima del summit Trump-Putin in Alaska aveva enfatizzato le avanzate delle truppe russe, i comandi ucraini sostengono adesso che il fronte sostanzialmente tiene e in molto casi i nemici sono stati «eliminati o ricacciati indietro».
Ancora Sternenko osserva che la ritirata dal Donbass, come esige Putin, significherebbe per gli ucraini lo smantellamento di un complicato e costoso sistema di bunker, postazioni e difese militari costruito lentamente sin dal 2014. «Trump premerà Zelensky a capitolare alle condizioni capestro di Putin — scrive il blogger —. Un modo per disarmarci in vista del prossimo attacco».

(da agenzie)

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GIAMPIERO MASSOLO: “PERDERE L’UCRAINA SAREBBE UNA SCONFITTA PER TRUMP, HA BISOGNO DEL SOSTEGNO EUROPEO PER VINCERE IL NOBEL. A LUI IMPORTA LA FINE DEL CONFLITTO, INCASSARE UN SUCCESSO. POCO CONTA CHI DEVE PAGARE IL PREZZO”

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

“IL BLUFF DI PUTIN: GOVERNA UN PAESE SOSTANZIALMENTE FALLITO. E LO SA. NON A CASO SI RASSEGNA AD ESSERE SUBALTERNO A XI E A FARSI AIUTARE DA KIM. IN UCRAINA HA FALLITO: NON HA DEBELLATO KIEV, AVANZA MA CON GRANDE LENTEZZA

Putin: mestiere e bluff. L’arte di giocare al meglio le proprie carte. Mestiere. Condurre una politica anti occidentale di rivalsa e potenza (Georgia, Ucraina), con il pretesto di difendersi dall’espansionismo atlantico e tutelare le minoranze russe.
Abile nell’appropriarsi delle cose come se le stesse concedendo, nel trasformare in successi gli esiti incerti: la personificazione della tecnica diplomatica. […] Questo è il Putin che Trump ha incontrato ad Anchorage: in un mondo di «grandi potenze» non poteva andare diversamente.
Bluff. Putin governa un Paese sostanzialmente fallito. E lo sa. Un apparato industriale obsoleto, una dipendenza eccessiva dalle
esportazioni energetiche, un’economia di guerra, le sanzioni che lo escludono dai flussi commerciali e tecnologici.
Non a caso si rassegna ad essere subalterno a Xi e a farsi aiutare da Kim. Mentre guarda con interesse ad un reset con Trump. In Ucraina ha fallito: non ha debellato Kiev, non ha sostituito Zelensky, avanza ma con grande lentezza.
Il bluff consiste nel fare finta di nulla, aspettare, scommettere che le divergenze tra Stati Uniti ed Europa aumenteranno, che la fatica delle opinioni pubbliche europee metterà in difficoltà i governi.
Che insomma otterrà nei fatti ciò che non ha ottenuto con le armi. In Alaska non aveva altri obiettivi: guadagnare tempo e legittimazione.

Giampiero Massolo
per il “Corriere della Sera”

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“IL VERTICE SULL’UCRAINA ALLA CASA BIANCA È UN REFERENDUM SULL’ORDINE EUROPEO”: L’AMBASCIATORE ETTORE SEQUI SPIEGA QUAL È LA POSTA IN GIOCO NELL’INCONTRO DI OGGI TRA TRUMP, ZELENKY E LA DELEGAZIONE EUROPEA

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

“PER PRIMO OCCORRE IMPEDIRE CHE IL FUTURO DELL’UCRAINA SIA DECISO SOLO DA WASHINGTON E MOSCA, RIDUCENDO L’EUROPA A SPETTATORE DI UNA NUOVA YALTA. SECONDO: VINCOLARE TRUMP A GARANZIE DI SICUREZZA PER KIEV. TERZO: RIAFFERMARE CHE SOVRANITÀ E CONFINI INTANGIBILI NON SONO NEGOZIABILI CON PUTIN

Il vertice di oggi sull’Ucraina alla Casa Bianca è un referendum sull’ordine europeo. Non riguarda solo Kiev, ma il principio che i confini non si cambiano con la forza e che la sovranità non è merce di scambio.
La posta è triplice. Primo: impedire che il futuro dell’Ucraina sia deciso solo da Washington e Mosca, riducendo l’Europa a spettatore di una nuova Yalta.
Secondo: vincolare Trump a garanzie di sicurezza per Kiev che diano continuità alla difesa europea. Terzo: riaffermare che sovranità e confini intangibili non sono negoziabili con Putin.
Gli europei arrivano a Washington non come semplici accompagnatori di Zelensky, ma come potenziale contrappeso a due rischi concreti: il bullismo negoziale di Trump e la sua tentazione di piegarsi alla logica di Mosca. L’Ucraina è solo una parte — e forse non la più importante — del più generale rapporto tra Mosca e Washington.
La presenza europea serve a tentare di blindare il presidente ucraino e probabilmente torna utile anche a Trump, come carta da spendere con l’opinione pubblica interna: dimostrare che non
agisce in solitaria, ma dentro un quadro condiviso. In questo senso, la compattezza dei “Volenterosi” è decisiva, pur con differenze interne: Francia e Regno Unito spingono per un approccio più muscolare, mentre Italia e Germania restano più caute.
I nodi critici sono due: aspetti territoriali e garanzie di sicurezza all’Ucraina. Ad Anchorage Putin ha preteso che Kiev si ritiri da Donetsk e Lugansk, offrendo in cambio un congelamento del fronte e qualche lembo di territorio a Sumy e Kharkiv.
Una formula che darebbe a Mosca profondità tattica, basi di fuoco e nodi logistici, accorciando le distanze da Kharkiv e dal Dnipro: un vantaggio operativo permanente mascherato da compromesso.
Accettare amputazioni significative equivarrebbe a piegarsi alla logica della forza, legittimando un precedente che andrebbe oltre l’Ucraina. Una pace che legalizza la forza è un manuale per la prossima guerra.
Proprio perché rischia amputazioni territoriali, per Kiev il tema delle garanzie diventa decisivo. Se l’Ucraina fosse costretta a gravi sacrifici, adeguate garanzie sarebbero la condizione politica per rendere accettabili le rinunce mentre lo strumento militare sarebbe cruciale per evitare nuove aggressioni.
Trump ha rilanciato il messaggio russo senza chiarire se lo facesse proprio, aggiungendo però la preferenza per un accordo immediato, senza la fase intermedia del cessate il fuoco. È il riflesso di un approccio transazionale: chiudere il dossier come fosse un affare, senza costruire una cornice di sicurezza
collettiva.
Se gli americani chiedessero a Zelensky rinunce territoriali, il vero banco di prova sarebbero le garanzie. Sono state evocate formule “tipo-Nato”: non l’ingresso formale, ma impegni di difesa che replichino, per quanto possibile, la logica dell’Articolo 5 dell’Organizzazione. Ciò eviterebbe la presenza stabile di truppe Nato in territorio ucraino, ma attiverebbe una assistenza militare immediata in caso di nuova aggressione russa.
Occorrerebbe però chiarire chi eroga tali garanzie, quali limiti hanno e fino a che punto implichino un sostegno militare diretto; soprattutto, quali sono i termini e i limiti del “cappello” americano alle forze europee. Senza questa chiarezza, ogni promessa rischia di restare retorica.
Le opzioni tradizionali hanno comunque limiti intrinseci: il peacekeeping classico è impotente su 1.200 chilometri di fronte (mandati limitati, armamento leggero, regole d’ingaggio di mera autodifesa); la deterrenza esercitata già dalla Nato nei Paesi baltici ha valore soprattutto simbolico e non impedirebbe una conquista rapida; una forza di deterrenza vera e propria, con 100–150 mila uomini, è oggi politicamente ed economicamente impraticabile.
Il vertice di oggi, dunque, non riguarda solo Kiev: è il test della capacità dell’Occidente di difendere la propria coerenza strategica.
È questa la vera posta in gioco a Washington: decidere se l’Ucraina resterà uno Stato sovrano e difendibile, o se diventerà il laboratorio di un nuovo ordine fondato sulla forza e sul ricatto.

(da agenzie)

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LA LINEA CONCORDATA DA GRAN BRETAGNA, FRANCIA E GERMANIA È QUELLA DI PROVARE AD ARGINARE LA VOGLIA DI WASHINGTON DI CHIUDERE IN QUALUNQUE MODO LA PARTITA RUSSO-UCRAINA. PER LE CANCELLERIE EUROPEE REGALARE TERRE AL CREMLINO È “UN PRECEDENTE PERICOLOSO”

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

BERLINO, PARIGI E LONDRA SI SONO DETTI PRONTI A A INVIARE SUL TERRENO I LORO MILITARI. SI TRATTA DI UNA “GARANZIA” CONSIDERATA INDISPENSABILE. SU QUESTO PERÒ NON C’È L’ACCORDO DEL CREMLINO E CI SONO I DUBBI DI TRUMP

Rifiutare o almeno circoscrivere la proposta Trump-Putin. Perché le concessioni territoriali, per come sono state presentate, sono inaccettabili.
Il presidente ucraino Zelensky si è rivolto nelle ultime 24 ore ai leader europei chiedendo aiuto. Ricevere il loro sostegno per tenere testa a Donald Trump e sottolineare i tanti punti negativi dell’intesa raggiunta in Alaska tra il tycoon e Vladimir Putin. «Se vado da solo alla Casa Bianca – è stato il ragionamento
svolto dal capo di Kiev – non sarò in grado di resistere. Ho bisogno che veniate con me».
In effetti la linea concordata prima tra i “paesi-guida” dei “Volenterosi” – ossia Gran Bretagna, Francia e Germania – e poi con gli altri membri dell’Unione europea è quella di provare ad arginare la voglia di Washington di chiudere in qualunque modo la partita russo-ucraina. Anche perché il tema delle concessioni territoriali viene considerato anche una questione di «sicurezza europea». Il principio di fondo allora è che «nessun accordo sui territori può essere approvato senza il consenso dell’Ucraina». Non si tratta solo di una norma basilare del diritto internazionale, ma anche della necessità politica di non perdere così il concetto di “aggressore e aggredito” che – secondo gli europei – è stato completamente rimosso durante il summit di Anchorage.
In secondo luogo, sull’asse Londra-Parigi-Bruxelles-Berlino si fa notare che accogliere le istanze del Cremlino sul Donetsk e sulla Crimea equivale ad aprire la strada ad altri attacchi russi in futuro. Ossia un problema che riguarda direttamente il Vecchio Continente. Un “precedente” troppo pericoloso. Anche se il Cremlino sarebbe pronto a fare un passo indietro teorico e non irreversibile sulle zone sottoposte al referendum a favore dell’adesione alla Russia. La pretesa poi di “russofonare” l’Ucraina viene considerata una lesione ai caratteri fondamentali che distinguono le nazioni.
L’altro aspetto discusso nelle ultime ore da Zelensky e i leader Ue si concentra poi sulle garanzie circa la tenuta dell’eventuale intesa e lo “scudo” affinché non si ripeta un’invasione russa. Come ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, «l’Ucraina deve essere un porcospino d’acciaio». E quindi accettare l’imposizione del Cremlino secondo cui l’Ucraina non dovrà mai entrare nella Nato solleva più di una perplessità: «Non ci devono essere limiti alle forze armate ucraine – ha ripetuto ancora von der Leyen -, né limitazioni alla cooperazione con Paesi terzi o ricevere assistenza da Paesi terzi».
Anche su questo capitolo ci sono almeno tre nodi che dovranno essere sciolti durante il vertice di oggi a Washington. Il primo riguarda proprio l’Alleanza atlantica: che dovrebbe continuare per ora a coordinare gli aiuti a Kiev e ad assicurare l’addestramento delle truppe ucraine. In questo quadro l’appoggio logistico americano è indispensabile. E la disponibilità di Trump, che ha riferito anche al segretario generale della Nato, Mark Rutte, l’esito dell’incontro in Alaska, è una precondizione ineliminabile.
Il secondo concerne il tipo di Forza di interposizione da formare a difesa della pace. La strada immaginata ad Anchorage è quella di un contingente multinazionale di cui dovrebbe far parte anche la Cina. La richiesta di Putin è questa: il coinvolgimento di Pechino. Ad un gruppo del genere dovrebbero aderire anche paesi come India, Corea, Giappone e Australia. E potrebbe essere accompagnata da una risoluzione Onu. Il ruolo della Turchia è valutato tenendo conto che si tratta di un membro dell’Organizzazione atlantica. L’Europa, attraverso i “Volenterosi”, chiede di essere presente nei territori ucraini non
di confine.
Germania, Francia e Regno Unito nella telefonata di ieri si sono detti pronti a a inviare sul terreno i loro militari. Si tratta di una “garanzia” considerata indispensabile. Su questo però non c’è l’accordo del Cremlino e ci sono i dubbi di Trump. Che nei contatti più recenti, infatti, è tornato ad evocare la possibile presenza “imprenditoriale” americana in Ucraina (lo sfruttamento delle miniere). A suo giudizio sarebbe tutelata anche da una presenza armata (non necessariamente esercito) statunitense. E sarebbe quindi una forma di deterrenza di fatto nei confronti della Russia.
Insomma i punti interrogativi sono tanti. E a Bruxelles in pochi scommettono sulla possibilità di rispondere a tutti in poco tempo, tanto meno in un giorno. La paura che la fine della guerra sia ancora lontana e che il presidente russo punti solo ad una vittoria netta, militare o diplomatica, rappresenta il retropensiero che guida tutte le mosse degli europei.

(da La Repubblica)

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DUE MILIONI E MEZZO DI PERSONE DI ISRAELIANI SCENDONO NELLA PIAZZE DELLE CITTA’ DELLO STATO EBRAICO PER PROTESTARE CONTRO NETANYAHU E LA SUA GUERRA NELLA STRISCIA: “STA METTENDO A REPENTAGLIO LA VITA DEGLI OSTAGGI, CHE SEMBRA VOGLIA SACRIFICARE COME GLI INNOCENTI PALESTINESI”

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

LE VOCI DEI MANIFESTANTI: “C’È UNA MACCHINA DELLA PROPAGANDA CHE DIFFONDE VELENO, C’È LA MINORANZA AL POTERE. IL 75% DELLA POPOLAZIONE È FAVORE ALL’ACCORDO SUGLI OSTAGGI”

«Siamo qui per dimostrare il vero spirito israeliano, sostenere le famiglie degli ostaggi. Siamo qui per dimostrare che ogni persona, ogni israeliano, madri, padri, soldati, stanno manifestando perché sostengono ogni sforzo per portare indietro i nostri ostaggi».
Ne è convinto Nir Gartzman, che da Haifa si è spostato a Tel
Aviv per prendere parte alla grande manifestazione di ieri. Con lui oltre 500mila persone in piazza degli Ostaggi e, nel corso della giornata, decine di migliaia in tutto il Paese, fino a «2,5 milioni» secondo gli organizzatori.
Nir è cofondatore del venture capital theDock e sin dall’inizio delle proteste anti Netanyahu, è sceso per strada ogni sabato per manifestare il suo dissenso. «Il diritto di Israele di difendersi – spiega in mezzo alla folla – non è in dubbio, come la necessità di seguire giustizia per l’esercito. Ma abbiamo bisogno di una soluzione pacifica per riportare tutti a casa e ottenere un supporto internazionale per un futuro pacifico di tutta la regione».
«Non possiamo delegare a nessuno la nostra responsabilità, visto che la nostra democrazia è a rischio. Ognuno deve prendersi le sue responsabilità, noi non abbiamo lo stesso potere del premier ma abbiamo la nostra voce». Ora Peled Nakash insieme alla sua Aid Coalition, ogni fine settimana manifesta contro il premier.
«Netanyahu e i suoi stanno usando la guerra per i loro usi. Reagiamo alle loro azioni. Non puoi picchiare un bambino e poi chiedergli perché piange. Con manifestazioni come questa mostriamo un Paese forte che tiene al suo aspetto democratico. C’è una piccola parte di sostegno a Netanyahu, una frazione del Paese. C’è una macchina della propaganda che diffonde veleno, c’è la minoranza al potere. Il 75% della popolazione è favore all’accordo sugli ostaggi. Netanyahu sta mettendo a repentaglio la vita degli ostaggi, che sembra voglia sacrificare come gli innocenti palestinesi».
In tutto il Paese ci sono stati, soprattutto al mattino, blocchi stradali e manifestazioni, il più delle volte interrotti dalla polizia che ha usato anche cannoni ad acqua per disperdere la folla e ha fermato circa quaranta persone. Fulcro principale, la piazza degli Ostaggi a Tel Aviv. «Sono tutti di sinistra che vogliono il male d’Israele – dice Gilad – e danno l’idea che il Paese sia debole e così i nostri nemici se ne approfittano, come successo il sette ottobre».
I familiari del Forum più numeroso, Bring Them Home Now, che insieme al Consiglio di Ottobre e altre organizzazioni, ha organizzato la grande manifestazione di ieri. Che sarebbe dovuta essere sciopero generale, ma il maggior sindacato, l’Histadrut, pur condividendone gli scopi, non ha aderito.
Nella piazza degli Ostaggi si sono susseguiti comizi, discorsi e visite, come quella del presidente Isaac Herzog, del capo dell’opposizione Yair Lapid, dell’attrice Gal Gadot. La richiesta della piazza è unica: portare tutti gli ostaggi da Gaza e finire la guerra. È stato anche diffuso un video di Hamas che mostra l’ostaggio Matan Zangauker, ottenuto dall’esercito in una operazione a Gaza diversi mesi fa, forse risalente all’inizio della guerra. Nel video, il giovane dice: «Uscite e fate rumore come sapete fare».
I cortei sono stati anche interrotti dall’allarme per un missile lanciato dallo Yemen, intercettato (ieri la marina israeliana ha colpito una centrale elettrica nei pressi di Sanaa) e poi in serata è arrivato un razzo da Gaza. Dove Israele ha colpito, tra gli altri, dinanzi all’ospedale Al-Ahli a Zeitoun nel centro della Striscia, dove c’erano miliziani.

(da agenzie)

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LA GUERRA CONTINUA: IL CAZZOTTO DI PUTIN IN GUANTO DI VELLUTO

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

TRUMP VITTIMA DI DILETTANTISMO PERSONALISTICO

Trump è uscito con le ossa rotte dal summit costruito con il massimo di dilettantismo personalistico. L’ipotesi che potesse rovesciare il tavolo e far sentire a Putin il peso di una deterrenza vera è tramontata per ora tra le nevi di un ex possedimentoSe c’è una logica nel vertice in Alaska, mi pare questa. Putin può essere considerato con realismo invece che con moralismo. Le cose non cambiano. Perché nell’una e nell’altra sfera interpretativa è pessimo. Ha detto e messo nero su bianco quel che voleva fare negli anni: ripristinare il potere catastroficamente perduto dell’Unione sovietica, dunque cambiare l’ordine mondiale uscito dalla fine dell’impero come esito della Guerra fredda, obiettivo che entro certi limiti è condiviso dalla Cina politico-mercantile e da molti altri continenti e subcontinenti sui quali la presa del vecchio ordine non funziona più dai tempi di Clinton e poi di Obama (l’ultimo che cercò di metterci una pezza fu Bush Jr. con i neocon). Su questo ha impostato una guerra ultradecennale, sboccata nell’aggressione all’Ucraina e all’Europa, che dura dispiegata da quattro anni, costruendo egemonia interna economia e mito politico in funzione di una chiara vittoria, il suo lascito per così dire.
Essendo il più forte, usa la forza senza complessi, e della forza è anche un servitore devoto. In questa scelta, travestita da operazione speciale denazificazione di Kyiv e sicurezza per la seconda potenza nucleare minacciata dalla Nato, usa Trump con cinismo e astuzia kagebista per ottenere la caduta di Zelensky e il recupero politico alla sua sfera di influenza di un paese che ha cercato di uscire dalla sudditanza granderussa e avvicinarsi all’Europa e all’occidente. Per questo dosa con accuratezza diplomazia e missili e minacce, e ottiene tutto lo spazio, immenso, che Trump è disposto a lasciargli, come si è visto a Anchorage.
Quello di Putin è un narcisismo da professionista, innestato su un moto storico di ribaltamento degli equilibri che ha un suo fondamento politico. Quello del dirimpettaio arancione, uscito con le ossa rotte dal summit costruito con il massimo di dilettantismo personalistico, è il narcisismo risentito e frustrato di un uomo e di un paese sempre più potente e sempre più allo sbando. Giudicarne gli atti e le promesse con realismo è quasi impossibile, psicologia delle masse in rivolta e moralismo sono strumenti più acconci. L’oligarchia russa è un establishment con una sua linea e ragione sufficiente. Il movimento Maga, che ha distrutto l’establishment americano, sia quello repubblicano sia quello democratico, colpendo al cuore cultura politica ed élite, vive di altro che di politica mondiale, è disinteressato alla questione regionale ucraina degli europei, prospera nell’ego autoritario e demagogico di un capo erratico travestito da profeta isolazionista dell’età dell’oro. Questo Putin lo sa bene e per questo ha sferrato a Trump un cazzotto in guanto di velluto. Molti credevano che alla fine un accordo e una linea di compromesso fossero nei fatti, anzi che erano già stati concordati e che sarebbero stati celebrati in Alaska, con il successivo coronamento del sogno grottesco del Nobel per la pace e una relativa stabilizzazione fondata sul compromesso del congelamento sulla linea del fronte del Donbas capace di premiare le follie vanitose della campagna elettorale di Trump, la fine della guerra in 24 ore, e sono stati smentiti platealmente. Putin venne, vide e vinse. La guerra continua, Nato Europa e occidente sono divisi, lui ha ottime possibilità di schiodare
Zelensky e l’Ucraina dalle loro pretese di indipendenza e modificare con la forza la carta geografica e politica dell’Europa. L’inevitabilità non è un affare così complicato, la coalizione Biden non ce l’ha fatta, ha tentennato, ha oscillato, ha allungato il brodo, e si è piegata alla fine a un paese tragicamente incafonito e inciprignito. L’ipotesi che Trump, se non altro per la faccia, che per lui è una cosa che conta molto, potesse rovesciare il tavolo e far sentire a Putin il peso di una deterrenza vera è tramontata per ora tra le nevi di un ex possedimento zarista.

(da ilfoglio.it)

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