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IL GOVERNO NON GODE DI BUONA SALUTE: LA RESA DEI CONTI SUI VACCINI È SOLO RIMANDATA: IL PASTICCIO DELL’INSERIMENTO DI DUE NO-VAX NEL COMITATO TECNICO DEL MINISTERO SUI VACCINI LASCERÀ SCORIE

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

ORAZIO SCHILLACI HA SCIOLTO L’INTERA COMMISSIONE, MA IN AUTUNNO, I PARTITI POTRANNO TORNARE ALLA CARICA QUANDO SI DOVRÀ FORMARE UNA NUOVA LISTA DI COMPONENTI – COSA E’ SUCCESSO: LA PRESENZA DI PAOLO BELLANOVA ED EUGENIO SERRAVALLE ERA STATA “IMPOSTA” DA LEGA E FRATELLI D’ITALIA, MENTRE FORZA ITALIA SOSTIENE IL MINISTRO (E LA SCIENZA)

Forse Orazio Schillaci è davvero «politicamente debole» come malignano in questi giorni nel centrodestra, perché è un “tecnico” e, dunque, è in balia dei partiti che lo hanno messo alla guida del ministero della Salute. Quasi pretendono che obbedisca. Al tempo stesso, però, proprio perché non deve rendere conto a un suo personale elettorato, da medico ed ex rettore universitario, deve pensare al momento in cui tornerà nel suo mondo di riferimento, una volta finita questa esperienza politica.
Così forse è più facile spiegare il motivo per cui, di fronte alla sollevazione della comunità scientifica per la presenza di due idoli dei No-vax nella commissione consultiva del suo ministero, che si sarebbe dovuta occupare proprio di vaccini, Schillaci ha deciso di mettersi di traverso a Lega e Fratelli d’Italia e di porre un veto.
Però, maledetta debolezza politica, il colpo di reni si è fermato a metà: il ministro non ha revocato i due nomi di riferimento dei
No-vax, sostituendoli, ma ha sciolto l’intera commissione. Tutti e 22 i membri, a casa. In questo modo, in autunno, Lega e Fratelli d’Italia potranno tornare alla carica quando si dovrà formare una nuova lista di componenti. E così anche l’irritazione nei suoi confronti, arrivata fino alla premier Giorgia Meloni, si è potuta sgonfiare in fretta.
Nei due partiti di governo che con più forza hanno accarezzato in questi anni l’elettorato No-vax, i delusi aspettano solo di tornare dalle vacanze. «Ci faremo trovare pronti e attrezzati, quando si dovrà compilare la nuova lista di membri della commissione», viene fatto sapere da FdI. Vogliono «il pluralismo». E cioè, da una parte la comunità scientifica, dall’altra le star del mondo complottista, seduti intorno a un tavolo per parlare del piano vaccinale del Paese.
Speravano, come dice il senatore leghista Claudio Borghi, «che si fosse aperta una fase storica diversa. Per la prima volta si ammetteva che poteva esserci un dibattito in una materia che è in rapida evoluzione». Specie ora che negli Stati Uniti le teorie negazioniste e complottiste vengono propagandate direttamente dal segretario di Stato alla Salute, Robert Kennedy Jr, nominato da Donald Trump. Il sogno è solo rinviato.
Forza Italia continua a insistere sulla necessità di mantenere un alto livello di serietà e di preparazione, quando si parla di tutelare la salute pubblica, ma è l’unico partito di maggioranza, insieme a Noi Moderati, a non aver mai voluto avere niente a che fare con i No-vax. I suoi alleati, invece, la pensano in tutt’altro modo.
I due capigruppo di Fratelli d’Italia, Lucio Malan in Senato e Galeazzo Bignami alla Camera, così come il deputato Francesco
Filini, fedelissimo di Arianna Meloni, sono noti per aver espresso posizioni scettiche sui vaccini. In prima linea nella commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia Covid, così come il sottosegretario di Palazzo Chigi Giovanbattista Fazzolari, ed è tra di loro che si è alzata la difesa più forte dei due membri del comitato, poi revocati da Schillaci.
La Lega non è da meno. Oltre a Borghi e al deputato Alberto Bagnai, c’è il leader in persona, Matteo Salvini, a blandire chi si mostra scettico sull’efficacia delle vaccinazioni. Insomma, Forza Italia è isolata e può far poco per arginare gli appetiti degli alleati.

(da agenzie)

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MENO MALE CHE C’E’ IL FINE POLITOLOGO RAMPELLI A SPIEGARCI CHE “PUTIN VUOLE UN’EUROPA COMUNISTA”

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

“RITORNA IL GIOGO SOVIETICO? MA NON FARCI RIDERE FABIO, PUTIN E’ UN AUTOCRATE SOVRANISTA IMPERIALISTA CHE PENSA SOLO AI QUATTRINI PER IL SUO CLAN. I COMUNISTI DI UNA VOLTA LO AVREBBERO GIA’ IMPICCATO… TI RICORDI QUANDO SEI FINITO IN CARCERE PER AVER MANIFESTATO CONTRO BUSH E L’IMPERIALISMO USA? ECCO, ORA SEI FINITO A REGGERE LO STRASCICO A UN PUTTANIERE A STELLE E STRISCE

Nel centrodestra italiano molti hanno covato a lunga simpatie per Putin: Silvio Berlusconi se lo coccolava tra un vertice e una vacanza in Sardegna insieme, Matteo Salvini rimase folgorato sulla via di Mosca tanto da firmare (prima della guerra) un accordo di cooperazione strutturata tra la Lega e Russia Unita, partito dell’autocrate moscovita. Giorgia Meloni invece da Putin non è mai stata troppo incantata, e da quando è approdata al governo ha tenuto una linea di formale sostegno all’Ucraina di Volodymyr Zelensky.
Sarà forse perché dalle parte di Fratelli d’Italia pensano in fondo che Putin sia rimasto nient’altro che un veterocomunista, per di più con smanie da dittatore?
Il sospetto riemerge oggi, nel weekend che segue il controverso vertice di Anchorage tra Trump e Putin, tramite le parole di Fabio Rampelli, alto dirigente di FdI e vicepresidente della Camera.
Il teorema Rampelli su Putin
Fabio Rampelli mettea verbale (a nome di FdI?) il vecchio/nuovo teorema su Putin: la sua Russia, dice, «vuole ricomporre nel nostro continente l’orrore comunista abbattuto con il muro di Berlino il 9 novembre 1989 dal desiderio di libertà dei popoli che per mezzo secolo furono brutalizzati, sottomessi, deportati, affamati, uccisi dall’Urss». Nientepopodimeno.
Secondo il vicepresidente della Camera, a provare che questo sia il vero obiettivo di Putin e della sua nomenklatura basterebbero due foto. Una è quella che ha fatto il giro del mondo l’altro ieri, e che ritrae il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov sbarcare in Alaska con una felpa targata «CCCP» (Urss, Unione sovietica) in bella vista. La seconda, che risale ai primi di marzo del 2022, una settimana dopo l’inizio dell’invasione, è quella che immortalava la conquista russa di Cherson. Vi si vedono i soldati di Putin che «scendono dai carri armati e issano la bandiera rossa con falce e martello», illustra Rampelli su Instagram.
Quanto basta per concludere che Putin non stia affando trattando la pace con l’Ucraina e l’Europa, ma si prepari a riconquistarla e sottometterla. Nel nome dell’ideologia comunista.
Meloni, che a differenza degli altri leader europei condivide con Trump pezzi rilevanti di identità politica, lo spiegherà al presidente Usa oggi alla Casa Bianca per convincerlo a rifiutare la velenosa offerta di Putin per la «pace» in Ucraina?

(da agenzie)

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TRUMP MODELLO DITTATURA PUTINIANA: STILA LA “LISTA DELLA LEALTA’”, OLTRE 500 AZIENDE DIVISE TRA FEDELI E TRADITORI

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

COSI’ LA CASA BIANCA DEVIDE DEI FUTURI INVESTIMENTI… I REQUISITI? SOSTENERE LE RIFORME DEL CRIMINALE

È un’economia in bianco e nero, anzi o bianca o nera, quella che Donald Trump sta costruendo negli Stati Uniti, con un messaggio chiarissimo: se non sei con me, sei contro di me e ne pagherai le conseguenze. Per tenere traccia di chi si piega alle volontà del leader americano e di chi prova a resistere, la Casa Bianca avrebbe creato un documento di valutazione in cui tiene traccia delle principali 553 aziende e associazioni di categoria. A ciascuna di queste è associato un voto – buono, moderato, scarso
– in base alla disponibilità di quella società a sostenere la «Big Beautiful Bill», la maxi riforma fiscale trumpiana. E quella semplice valutazione «scolastica» può segnare il futuro dell’impresa.
A cosa serve la «classifica della lealtà»
È tutto contenuto in una scheda «dinamica», che quindi può essere in ogni momento modificata in base all comportamento delle aziende. Secondo quanto riferisce l’americana Axios, per finire nella lista dei buoni i requisiti sono chiari: sostenere la riforma voluta da Trump e smantellare tutte le politiche di inclusione o «woke» costruite negli anni passati. Un vero e proprio test di lealtà. Chi ha un approccio più tiepido – i «moderati» – si troveranno a interloquire con una Casa Bianca diffidente. Chi volta le spalle alle nuove politiche invece rischia grosso: questo documento sarà infatti consultato dai funzionari di Washington prima di confrontarsi con le aziende per richieste di sussidi o altri accordi: «La classifica ci aiuta a vedere chi si impegna davvero e chi invece si limita a fare promesse a vuoto», ha commentato un membro dello staff di Trump.
I «preferiti» di Trump, tra fedelissimi e voltagabbana
Il procedimento è di per sé molto semplice, e basa la sua valutazione su campagne pubblicitarie, post social, comunicati stampa e sulla partecipazione agli eventi della stessa Casa Bianca. Tra i figlioli prodighi della politica trumpiana ci sono giganti del calibro delle compagnie aeree United e Delta così come Uber, che dall’insediamento di Trump in poi ha nettamente cambiato rotta dopo aver sostenuto Kamala Harris alle presidenziali. In questa lista compaiono anche l’azienda di delivery DoorDash, il colosso della comunicazione AT&T l’azienda tech Cisco: «Le nuove disposizioni fiscali societarie consentiranno alle aziende americane di innovare e investire meglio in patria», ha scritto su X l’amministratore delegato Chuck Robbins. Tra le associazioni meglio viste dal tycoon c’è la Steel Manufacturers Association, fermi sostenitori della politica repubblicana e in particolare dei dazi che hanno colpito l’import americano di acciaio dall’estero.
Le Big Tech si inchinano, le banche nella lista dei cattivi
E le Big Tech? Negli ultimi mesi, nonostante gli screzi del passato, sono riusciti tutti a entrare nelle grazie del leader americano. Apple, grazie alla promessa di investire 600 milioni di dollari per riportare la produzione delocalizzata all’interno dei confini nazionali, si è vista promuovere nel pool «buono». Amazon, Google e Meta hanno invece chiuso silenziosamente tutti quei programmi di DIE (Diversity, inclusione, equality) contro cui Donald Trump si è scagliato dal giorno zero della sua seconda presidenza. La lista dei cattivi non è nota, invece. C’è chi mormora, però, che basti uno screzio personale per essere iscritti: basta chiedere a Bank of America e JP Morgan, istituti di credito che in passato hanno respinto Trump come loro cliente.

(da agenzie)

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“GUADAGNAVO 300 EURO AL MESE E VIVEVO IN UN SOTTOSCALA” ; I RACCONTI DEI GIOVANI CHE D’ESTATE VENGONO SFRUTTATI DAGLI IM-PRENDITORI DEL TURISMO, CHE LI COSTRINGONO A TURNI MASSACRANTI PER PAGHE DA FAME

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

C’E’ CHI PRENDEVA 450 EURO E VIVEVA IN UNA STANZA PIENA DI FORMICHE – UNA DONNA CHE LAVORAVA COME ADDETTA ALLE PULIZIE DI UN ALBERGO GUADAGNAVA 1 EURO PER OGNI CAMERA CHE SISTEMAVA … IL RACCONTO DI UN GIOVANE: “FACEVO IL BARMAN. I CAPI ERANO PRATICAMENTE GUARDIE TEDESCHE”

Si firma “Bidra” e la sua esperienza al mare la racconta così: «Prendevo 450 euro per stare in una stanza piena di formiche. Mi hanno licenziato perché da bagnino mi rifiutavo di fare i balletti con gli animatori».
Roberta ha lavorato a Pesaro in un hotel come addetta alla pulizia delle camere: «Prendevo 4 euro l’ora e in un’ora ne dovevo pulire 4. Praticamente mi pagavano 1 euro a camera».
Marco invece guarda indietro: «A 17 anni, alla prima esperienza prendevo 300 euro al mese. Vivevamo in un sottoscala della villa dei proprietari del villaggio». E ancora, Valeria: «Ho fatto quattro stagioni a 450 euro, lavorando 18 ore al giorno senza giorni di pausa, in quattro in una camera… e nonostante tutto, fare l’animatrice è stato il lavoro più bello della mia vita».
Eccole, una dopo l’altra: cartoline da un’Italia che non vediamo, o facciamo finta di non vedere. Storie di ragazzi e ragazze che, dopo la denuncia di Gilberto Contadin – il 21enne che ha lasciato un lavoro da animatore a Rimini perché pagato 3 euro all’ora – hanno invaso i social de La Stampa.
Testimonianze che raccontano un Paese dove parlare di salario minimo è ancora tabù, e quando è previsto da un contratto viene aggirato. Dove “alloggio compreso” significa letti a castello in stanze umide, sottoscala, garage, scantinati, «bagni senza porte», come scrive Jack. Dove l’orario contrattuale è un numero sulla carta e quello reale lo decide il capo turno.
Daniele racconta: «Ho fatto dieci giorni in Trentino come barman in un hotel e sono scappato via. Nove colleghi su dieci erano fantastici, ma i capi erano praticamente guardie tedesche: stanza minuscola ricavata da un sottoscala, in cui dormivamo in quattro, un solo bagno per tutto il personale. Terribile esperienza».
Giorgio Bastiani ricorda: «Undici anni fa feci due stagioni in piscina. Paga base di 6,5 euro l’ora il primo anno e 8 il secondo. Considerando che il bagnino ha una grande responsabilità, con rischi di denunce penali, anche 8 euro è veramente poco. E in molti altri posti le paghe sono la metà. Non capisco perché ci si ostini ad andare contro un salario minimo». Elena Cerisara conferma: «È così anche in Liguria. 1.200 euro per 48 ore settimanali, bagnino con brevetto, no assistente bagnanti. Vogliamo parlare della responsabilità?!».
Dal feed di Instagram, Francesca Polverino attacca: «Chi giustifica questi 4 spicci dicendo che “è un lavoro bellissimo che ti permette di collezionare ricordi” è parte del problema. Come se fare un lavoro che ti piace ti metta automaticamente in condizione di doverlo fare gratis. Ho fatto un anno di animazione, mi pagavano 345 euro al mese: avevo 16 anni, prima esperienza. Che Paese inutile».
Ancora Silent Jake: «Fino al 2012 ho prestato servizio come organo di salvataggio in un camping della mia zona per ben cinque stagioni. Ho visto ragazzi appena maggiorenni stare in piedi dalle sette di mattina alle quattro di notte, sia per intrattenere il pubblico che per provare le scenografie, sotto il sole cocente e con lo scirocco sotto al naso, il tutto per 400 euro al mese. Il posto in cui dormivano faceva rabbrividire. Dovete denunciare».
Un testimone più anziano di Gilberto ammette: «La colpa è della mia generazione. Abbiamo accettato di tutto: orari da schiavi, stipendi da fame. Io lavoravo almeno otto ore al giorno più il sabato, mezza giornata, per 250 mila lire al mese, come gli attuali 250 euro. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere di più, dovevamo pure ringraziare.
Adesso queste nuove generazioni non vogliono più fare i servi dei padroni, e fanno bene. Chi dice che i giovani non hanno voglia di lavorare non sa di cosa parla. Ci sono universitari che, con la scusa degli stage, lavorano a tempo pieno per 500 euro al mese.
Un racconto anonimo denuncia: «Sul contratto c’è scritto che si lavora 8 ore al giorno quando in realtà te ne fanno lavorare più di 15. Dormi negli scantinati e non hai giorni liberi. Io lo chiamo sfruttamento, sono ancora in causa per questo».

(da agenzie)

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IL GOVERNO SI PREPARA ALLA RESA DEI CONTI. E SARANNO CAZZI: CON LA MANOVRA D’AUTUNNO, IL CENTRO-DESTRA RISCHIA DI PERDERE LA FACCIA SU DUE PROMESSE ELETTORALI FINORA NON RISPETTATE: PENSIONI ANTICIPATE E TAGLIO DELLE TASSE. LE CASSE DEL TESORO SONO VUOTE, LO SPAZIO DI INTERVENTO È MININO

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

SULLE PENSIONI ADDIO A QUOTA 103, CHE SI È RIVELATO UN FLOP. ORA L’OBIETTIVO È 64 ANNI E 25 DI CONTRIBUTI PER TUTTI … PER IL TAGLIO DELLE IMPOSTE, SUL TAVOLO CI SONO PROPOSTE SENZA COPERTURE E IN CONTRADDIZIONE TRA LORO (STOP ALL’IRAP, TAGLIO IRPEF MA ANCHE FLAT TAX PER I DIPENDENTI)

Pensioni anticipate e taglio delle tasse. Nei prossimi mesi il governo si gioca un bel pezzo di credibilità rispetto a due punti fondamentali di quello che era il programma elettorale. A ottobre, al giro di boa dei tre anni della legislatura, per attuare le promesse l’esecutivo dovrà accelerare con la legge di bilancio.
Il mantra salviniano di picconare la legge Fornero si è scontrato con la dura realtà: la flessibilità è diventata più rigida e il sistema delle Quote si è rivelato un fallimento. Quest’anno termina Quota 103 (62 anni di età, 41 di contributi e l’assegno soggetto al ricalcolo contributivo) dopo che nel 2024 sono state solo 1.153 le persone che ne hanno usufruito.
Stesso discorso per Opzione donna che lo scorso anno ha garantito la pensione anticipata a meno di 3.500 lavoratrici. L’obiettivo di Quota 41 (in quiescenza con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età anagrafica) è sparito dai radar, il
nuovo miraggio adesso è una sorta di Quota 89, ovvero 64 anni di età e 25 di contributi per accedere alla pensione anticipata, uno strumento che esiste già per i contributivi puri ma che la Lega vorrebbe estendere anche a chi sta nel sistema misto, e quindi ha iniziato a versare prima del 1996.
I tecnici del ministero del Lavoro e del Mef ci stanno lavorando, ma è presto per fare le prime simulazioni. Sicuramente sarebbe un meccanismo oneroso per le casse dello Stato, se non accompagnato da penalizzazioni sull’assegno.
Per quanto riguarda il taglio delle imposte, sul tavolo ci sono proposte senza coperture e in contraddizione tra loro. Il governo si è dato un altro anno di tempo per completare la delega fiscale, fino al 29 agosto 2026.
Il piano di trasformazione del fisco studiato dal viceministro delle Finanze Maurizio Leo è lungo e complesso, già 16 decreti sono stati approvati in via definitiva, ma tra gli obiettivi del testo originario della riforma ci sono due progetti che ormai sembrano irrealizzabili: l’abolizione dell’Irap e la flat tax per tutti.
Se veramente il governo volesse mettere in campo queste due misure dovrebbe cercare le coperture fin da subito, e invece da mesi il centrodestra litiga perché non ci sono i soldi per tagliare di due punti l’aliquota Irpef del 35% per i redditi tra 28 mila e 60 mila euro.
Perché alimentare un derby continuo tra Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia tra la riduzione del carico fiscale sul ceto medio e la rottamazione delle cartelle, quando l’obiettivo è un’aliquota unica per tutti? Perché quello è un obiettivo irrealizzabile in questa legislatura.
Tuttavia, il testo della delega parla chiaro e all’articolo 5 prevede «la transizione del sistema verso l’aliquota impositiva unica» per tutti i lavoratori dipendenti. Al momento ci sono due ipotesi di scuola: la flat tax al 15% (come quella leghista che si applica alle Partite Iva) o al 23% (proposta da Silvio Berlusconi nel 2018).
Entrambe comporterebbero una mancanza di entrate tale da far saltare il bilancio dello Stato. A meno che, suggerisce l’Istituto Bruno Leoni, il minore gettito dell’Irpef venisse compensato da una mega sforbiciata delle spese fiscali e dall’incremento di altre imposte, tra cui l’Iva. Insomma, non è proprio aria di un intervento del genere, destinato perciò a rimanere scritto nel libro dei sogni.
L’altra grande riforma che non si potrà attuare nel giro di un anno è «il graduale superamento dell’Irap», come prevede l’articolo 8 della delega. L’imposta regionale sulle attività produttive è la fonte principale di finanziamento per il sistema sanitario regionale e vale 27,7 miliardi di euro.

(da agenzie)

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MINISTRI CHE ODIANO MINISTRI, I MILLE VELENI NEL GOVERNO

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

TRA TAJANI E SALVINI LA BATTAGLIA E’ QUOTIDIANA, CROSETTO E MANTOVANO NON SI AMANO… IL CASO ALMASRI TRA CREATO DISSENSO TRA PIANTEDOSI E NORDIO, ACUQE AGITATE ANCHE AGLI ESTERI

I ministri del governo Meloni vanno a braccetto verso il traguardo tanto ambito di diventare l’esecutivo più longevo della storia repubblicana. Ma tra veleni e dissapori, la coabitazione è
spesso forzata. E se non è odio personale, è forte incompatibilità di carattere e di visione, resa sopportabile solo dall’esercizio del potere.
La palma di ministero più litigioso nell’estate 2024 va certamente alla Salute. Da mesi è teatro di uno scontro interno: da un lato il ministro, Orazio Schillaci, dall’altro il sottosegretario, Marcello Gemmato. Il primo apprezzato e sponsorizzato dalla sorella della premier, Arianna Meloni, il secondo amico di vecchia data della presidente del Consiglio. In pieno agosto il clima è diventato infuocato. Tanto da far circolare l’ipotesi di possibili dimissioni di Schillaci.
Come è noto, il casus belli è stato nomina nel Nitag, il gruppo consultivo sulle vaccinazioni, di Paolo Bellavite ed Eugenio Serravalle, accusati di aver sostenuto posizioni novax. Proprio sabato è arrivato il decreto di revoca dell’organismo. «Una decisione non concordata», ha fatto sapere la premier Giorgia Meloni, per prendere le distanze dalla decisione del suo ministro. Ma a Schillaci, un tecnico prestato alla politica, aveva provocato un travaso di bile la sola ipotesi di essere accostato ai novax. E allora cosa è successo?
Ci sono due versioni. Quella più vicino al ministro, racconta di una partita gestita proprio da Gemmato, mettendo Schillaci di fronte a un pasticcio già confezionato dal sottosegretario, d’intesa con la potente capo segreteria del ministero, Rita Di Quinzio, molto vicina a Meloni. L’altra versione è che il ministro fosse a conoscenza dei nomi e li abbia avallati senza sollevare problemi. Alla fine la vicenda è stata archiviata con lo
scioglimento del Nitag. Ma con la coda di veleni che ha raggiunto palazzo Chigi.
Un fatto è comunque certo: Gemmato vuole ritagliarsi uno spazio più ampio di potere, Schillaci non vuole subire un ridimensionamento. Per il sottosegretario era pronta la promozione a viceministro. Addirittura il governo ha modificato l’organizzazione interna al ministero, rendendo possibile la nomina, prima non prevista. Poltrona apparecchiata per Gemmato, per ora ancora vuota.
Le nuove e vecchie polemiche sui suoi potenziali conflitti di interessi svelate da Domani hanno frenato la sua corsa. Le tensioni si riverberano ovunque. Lampante il caso dell’Agenas, l’agenzia regionale, finita sotto commissariamento.
Almasri della discordia
Ogni intoppo può generare dissapori al livello governativo, insomma. Un altro caso di cronaca, il rimpatrio del generale libico Almasri, ha lasciato strascichi a ogni livello. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, dopo il pastrocchio del torturatore rispedito a Tripoli, non vede più di buon occhio il Guardasigilli, Carlo Nordio.
Il titolare del Viminale mastica amaro. Ritiene di aver eseguito le procedure, prendendo atto delle scelte assunte altrove, a via Arenula, dove detta legge Nordio in asse con la capa di gabinetto, Giusi Bartolozzi. Anche il sottosegretario Alfredo Mantovano non ama i pastrocchi di Nordio, e già al tempo aveva sconsigliato la promozione della zarina da vice a capo di gabinetto, senza riuscire nell’intento.
Lui e Piantedosi ora sono coinvolti nel caso-Almasri: alla Camera è arrivata la richiesta di autorizzazione anche sul loro conto. Per la cronaca, il numero uno del Viminale ha all’attivo anche un battibecco in cdm con il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, che gli aveva rinfacciato di non aver sciolto il comune di Bari per infiltrazioni mafiose.
Non è solo l’attualità a incidere. Ci sono “storie tese” che vanno avanti da tempo, come quella tra il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e il solito Mantovano. Visioni e personalità opposte: irruente e loquace Crosetto, riflessivo e riservato il secondo. Anche la formazione politica e culturale è diversa. E quindi si sono scontrati spesso sulle nomine più delicate. Nei mesi scorsi è avvenuto sull’indicazione del comandante generale dei carabinieri, alla fine l’ha spuntata Crosetto con il generale Salvatore Luongo.
In passato c’era stato un braccio di ferro durissimo sul comandante della guardia di finanza, dove ha prevalso Mantovano, con Andrea De Gennaro. Anche sugli apparati di intelligence è passata di nuovo la linea del sottosegretario. Il prossimo fronte caldo si aprirà sull’ampliamento, anticipato dal Messaggero, dei poteri del ministero della Difesa, che vuole mettere mano sul controllo sulla cybersecurity.
Crosetto non vanta buoni rapporti nemmeno con il ministro delle Imprese, Adolfo Urso. Non è un mistero che Urso puntasse alla guida della Difesa, ma si è scontrato con le perplessità del Quirinale per i vecchi rapporti con aziende iraniane. Palazzo Baracchini è andato al co-fondatore di Fratelli d’Italia.
Una delle tante frizioni tra Crosetto e Urso si è registrata, a inizio anno, sulla cessione di Piaggio Aerospace ai turchi di BayKar. Il ministro delle Imprese ha rivendicato l’operazione per salvare la società italiana, Crosetto con il suo inner circle ha sostenuto di aver giocato un ruolo decisivo. Urso non gradisce neanche l’attivismo mediatico del collega, che spesso assume posizioni poco ortodosse rispetto a quelle governo.
Il titolare della Difesa, da parte sua, fa spallucce: le critiche del numero uno del Mimit vengono derubricate a una sorta di forma di invidia. Crosetto (come altri colleghi del cdm) sembrerebbe non gradire la gestione di alcuni dei dossier delicati che fanno capo a Urso, come il futuro dell’ex Ilva. La sensazione del co-fondatore di FdI è che la «propaganda» prevalga su una vera strategia industriale.
Vice litigiosi
Una delle più complicate coabitazioni nel governo Meloni si consuma direttamente negli uffici più importanti di palazzo Chigi. I due vicepremier, Matteo Salvini e Antonio Tajani, sono lo yin e lo yang della destra al potere.
Gli scontri a distanza abbondano. Il segretario di Forza Italia ha – nemmeno tanto velatamente – dato del «quaquaraquà» e dello «sfasciacarrozze» al leghisti. Proprio in una recente intervista al Corriere della Sera, Tajani ha ribadito: «Quello che usa Salvini non è il mio linguaggio», riferendosi alle politiche in materia di sicurezza. Salvini descrive i forzisti come proni ai desiderata europei.
Il Capitano ha preso di mira anche il ministro dell’Ambiente,
Gilberto Pichetto Fratin: vuole intestare alla Lega il tema del nucleare, che invece spetta per delega al forzista.
Le tensioni non risparmiano neppure il ministro dello Sport, Andrea Abodi, e il sottosegretario alla presidenza, Giovanbattista Fazzolari. Il consigliere di Meloni non ha gradito la sconfitta sull’elezione del presidente del Coni: il ministro aveva puntato su Luca Pancalli poi sconfitto da Luciano Buonfiglio, candidato scelto dal presidente uscente, Giovanni Malagò. Fazzolari lo ha sottolineato con tono gelido davanti ai colleghi di Abodi.
Gelo ai ministeri
Nelle sedi dei ministeri ci sono poi inquilini, ministri e sottosegretari, abbastanza litigiosi. Alla Cultura c’è una vasta letteratura sul gelo tra il ministro Alessandro Giuli e la sottosegretaria leghista, Lucia Borgonzoni. Non si è arrivati mai alla lite diretta, ma per settimane c’è stato un muro di incomunicabilità. Giuli aveva addirittura estromesso la sottosegretaria da un tavolo sul cinema, nonostante sia lei ad avere la delega. Le tensioni hanno provocato una serie di scossoni fino alle dimissioni da presidente di Cinecittà di Chiara Sbarigia, amica di Borgonzoni.
Anche nei palazzi della diplomazia c’è bisogno di moltissima diplomazia interna per non far esplodere guerre termonucleari tra ministri e vice. Alla Farnesina non c’è mai stata intesa tra Tajani e il suo numero due, Edmondo Cirielli (FdI). Il segretario di FI non ha mai digerito l’iper-attivismo del meloniano sul Piano Mattei. La corsa alla Regione Campania ha poi peggiorato i rapporti: Cirielli è sceso in campo dal primo minuto, sfidando la
candidatura di Fulvio Martusciello, uomo di fiducia Tajani.
Lo scontro è andato avanti senza esclusioni di colpi, fino a che il forzista non si è chiamato fuori per le questioni giudiziarie. Le scorie non sono mai state smaltite. Infine, c’è il caso della mozione sulla crisi tra Armenia e Azerbaigian. Cirielli aveva modificato l’atto, inizialmente presentato dal senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva), con una versione che non era piaciuta a Tajani.
A chiudere il cerchio c’è il ministero dell’Economia, lo scorso anno al centro di un “tutti contro tutti”, tra i sottosegretari Federico Freni, Lucia Albano e Sandra Savino, durante la legge di Bilancio. Attenzione. Battibecchi e ostilità non solo gossip politico: spesso paralizzano i dicasteri e, a cascata, l’intera macchina del governo.

(da editorialedomani.it)

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IL CIBO TRAINA L’AUMENTO DEI PREZZI, STANGATA DA OLTRE 500 EURO A FAMIGLIA

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

GLI ALIMENTARI COSTANO ALMENO 190 EURO IN PIU’ SU BASE ANNUA, I RINCARI MAGGIORI SU FRUTTA E VERDURA

Quando a settembre non si parlerà più di caro-spiagge, saranno nuovamente i prezzi del cibo a tenere banco. In realtà, anche
nella stagione delle vacanze prodotti alimentari e bevande svettano nella classifica Istat degli aumenti: a luglio c’è stato un balzo del 3,9%, quasi il doppio della media, ferma a un più 1,7%. Per le famiglie, calcola Legacoop Agroalimentare, tutto questo si traduce in una maggiore spesa annua di 190,40 euro, una quota più che consistente dell’aggravio di 535,50 euro dovuto all’intera inflazione. E per le famiglie a basso reddito l’aumento è ancora maggiore, dal momento che la spesa alimentare pesa di più sul loro bilancio. Nonostante negli ultimi mesi si sia attenuata la differenza tra il quinto più ricco e quello più povero della popolazione, infatti, dall’ultima rilevazione Istat rimane ancora una maggiorazione dello 0,2% per le famiglie meno abbienti.
In forte accelerazione soprattutto i prezzi degli alimentari non lavorati, il cui aumento passa dal 4,2% di giugno al 5,1% di luglio, anche a causa del rialzo dei vegetali freschi o refrigerati e della frutta, che aumenta addirittura dell’8,8% su base annua. In accelerazione anche i prezzi delle carni (più 4,9%). Gli alimentari lavorati aumentano un po’ meno (dal più 2,7% al più 2,8%), ma comunque ben più della media. «Questi numeri si inseriscono in un dibattito estivo molto concentrato sul “caro-ombrellone” – rileva il presidente di Legacoop Agroalimentare, Cristian Maretti – ma a settembre la discussione sarà comunque sui “fondamentali” decennali del nostro Paese: scarsa produttività e attrattività, aumento delle aree a rischio povertà».
Tra le cause del costante aumento dei prezzi degli alimentari, a fronte di una discesa generale dell’inflazione, i produttori
indicano tra i principali imputati i costi di produzione e delle materie prime, a cominciare dall’energia, ancora del 50% più cara rispetto al periodo precedente alla guerra in Ucraina. Ma incidono anche gli eventi meteorologici: alluvioni, grandinate, e al Sud una siccità che le organizzazioni di settore hanno già denunciato come ancora peggiore di quella del 2024, con forti carenze strutturali nei sistemi di raccolta e di distribuzione dell’acqua. Non a caso infatti nella top ten degli aumenti di luglio redatta da Repubblica, usando il database Istat, ci sono sia le arance, con un rialzo su base annua del 14%, che gli altri agrumi, con più 17,9%. Gli altri alimentari tra i primi dieci che hanno subito i maggiori rincari sono caffè, cacao e cioccolato in polvere, e anche il burro.
Proprio perché dovuta al cambiamento climatico e ai rincari delle materie prime, l’inflazione alimentare non è un problema solo italiano: è anzi al centro dell’ultimo rapporto pubblicato dall’Onu sullo “Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo”. I prezzi degli alimenti sono cresciuti senza fermarsi negli ultimi due anni, segnala il rapporto, tanto che il numero delle persone che in Africa non possono permettersi una dieta sana è passato nel 2024 dagli 864 milioni del 2019 a un miliardo, nei Paesi a basso reddito da 464 a 545 milioni, e in quelli a reddito medio-basso da 791 a 869 milioni. Dati che allontanano la possibilità di sconfiggere la malnutrizione infantile entro il 2030, come prevede l’Agenda Onu.

(da repubblica.it)

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RETI IDRICHE, FRANE E ALLUVIONI. PNRR E FESR, L’ITALIA STANZIA I SOLDI MA NON LI SPENDE

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

LE OPERE SONO FERME, IL PNRR SCADE TRA 10 MESI, I PAGAMENTI SONO AL 20%… PER I CANTIERI IN EMILIA SIAMO ALL’1%

La cosa nota è nota dalla notte dei tempi. I romani, per dire, dicevano aqua fons vitae, che poi è diventato pure il titolo di un documento vaticano sulle risorse idriche: per garantirci la vita, dobbiamo tutelare la fonte della vita e curare il territorio in cui l’acqua corre per evitare dispersioni e danni. Una banalità, lo sappiamo tutti, eppure l’Italia invece di fare quel che serve presenta ciclicamente grandi piani che poi rimangono sulla carta: è di pochi giorni fa una ricerca che rivela come i progetti di miglioramento della rete idrica col Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) 2014-2020 ad oggi siano fermi all’11%, quelli della nuova programmazione (2021-2027) all’1%. Non va meglio coi progetti Pnrr sulla stessa materia: a meno di un anno dalla scadenza del Piano di ripresa oscillano in media tra il 21 e il 39%, quelli contro il dissesto idrogeologico languono vicino allo zero.
Ripartiamo da capo e precisamente dalle reti idriche. Nonostante investimenti in crescita negli ultimi anni e qualche miglioramento nella performance, le infrastrutture per l’acqua nel nostro Paese ne perdono mediamente oltre il 42% circa (dati Istat riferiti al 2022). Scarso poi continua ad essere il recupero e il reimpiego dell’acqua piovana, pessimo, specie al Sud, lo stato dei depuratori (per cui paghiamo multe salate all’Ue), discontinuo il servizio per circa 2,3 milioni di persone (con
percentuali enormi in Sicilia e Calabria). Una serie di criticità infrastrutturali che sono in rapporto con l’ultima: l’Italia è tra le nazioni che prelevano più acqua potabile da fonti profonde (pozzi e sorgenti), fonti che ovviamente non sono eterne. In numeri usiamo 155 metri cubi per abitante l’anno da acque sotterranee, terzi dopo Irlanda e Grecia in Europa, distantissimi dalla media dei Paesi più “virtuosi”, che sono 20 su 27 tra i membri Ue e prelevano tra 45 e 90 metri cubi per abitante.
È guardando a questo contesto che vanno letti i numeri di una ricerca del Centro studi Enti locali su dati Opencoesione (cioè della presidenza del Consiglio), che sarà presentata alla fiera Accadueo di Bologna a ottobre, e mostrano le pessime percentuali di realizzazione dei progetti idrici nel nostro Paese: al 1° maggio scorso solo l’11% dei 2.023 progetti sul tema finanziati dal Fesr nel ciclo di programmazione 2014-2020, già scaduto, è stato effettivamente completato, il 3% non è nemmeno iniziato, il resto risulta in corso. Una performance assai peggiore di quella dei due cicli precedenti di fondi Fesr: 2007-2013 (50,3%) e 2000-2006 (81%). Il ciclo Fesr attuale (2021-2027) è ancora in corso, ma la situazione non pare migliorata: dei 542 progetti sulla rete idrica destinatari di fondi ne risultano conclusi 5 (l’1%), mentre 366 sono in corso (68%). Significa che 168 progetti (31%) non sono neanche partiti. A cosa dovrebbero servire questi soldi? In genere a questo: manutenzione, miglioramento tecnologico o allargamento delle reti idriche urbane, opere per lo smaltimento delle acque reflue domestiche o industriali, impianti di trattamento delle acque reflue, opere per migliorare/ridurre l’uso dell’acqua in agricoltura.
Ora torniamo ai numeri. I più attenti fra i lettori avranno notato la diminuzione dei progetti finanziati dal Fesr 2021-2027 rispetto al ciclo precedente (542 invece di 2.023). Il motivo è semplice: le reti idriche hanno ricevuto finanziamenti – quasi 4 miliardi in tutto – anche nel Piano di ripresa e resilienza che copre all’ingrosso lo stesso periodo di programmazione. Ebbene, dando un’occhiata allo stato dell’arte su OpenPnrr (un progetto della fondazione Openpolis) non pare che l’andazzo migliori di molto, nonostante alla scadenza del Piano di ripresa manchino solo 10 mesi e mezzo. Ad esempio gli “investimenti in infrastrutture idriche” (3,6 miliardi, due dei quali del Piano di ripresa) registrano pagamenti al 21% con dati pessimi al Centro Sud: si va dallo 0 della Campania all’1% della Calabria, dal 6% del Molise all’8% della Puglia, dal 12% dell’Abruzzo al 14% delle Marche e al 16% del Lazio.
Non va meglio ai programmi per la “riduzione delle perdite, anche attraverso il monitoraggio digitale”: 2,6 miliardi stanziati (1,9 del Pnrr) e pagamenti al 22%. E ancora: gli “investimenti in fognature e depurazione” valgono 731 milioni e la spesa effettiva è al 23% (per i mancati depuratori paghiamo decine di milioni di euro di multe ogni anno all’Ue); i fondi destinati alla “resilienza dell’agrosistema irriguo” sono 984 milioni e risultano pagati al 38%.
Ancor più desolante è la situazione dei fondi per il rischio idrogeologico rimasti nel Pnrr: si tratta di 944 milioni in tutto, destinati per la grandissima parte all’Emilia Romagna, alla
Toscana e alle Marche, cioè i territori colpiti dall’alluvione del 2023, soldi entrati nel Pnrr con la prima revisione generale realizzato dal governo Meloni proprio quell’anno. I pagamenti in totale sono sotto l’1%, tutti in Emilia Romagna, le altre Regioni non risultano aver contabilizzato ancora un euro.
L’elenco dei lavori non svolti in questi due anni è impressionante: si va da decine di appalti per “interventi di ripristino di modesta entità e ripristino dei piani viabili” a quelli più specifici per la riapertura di strade sprofondate o la messa in sicurezza di scarpate, torrenti e argini franati fino alla creazione di varchi e alvei per lo sfogo dell’acqua in eccesso in caso arrivi una nuova alluvione. A giudicare dalla velocità dei lavori, però, gli interessati farebbero meglio a sperare che non piova troppo nei prossimi anni…

(da ilfattoquotidiano.it)

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MOLISE, LO SCHELETRO DA 10 MILIARDI INCOMPIUTO DA TANGENTOPOLI

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

“IL CARACCIOLO ERA UN GIOIELLO, DAVA LAVORO A 320 PERSONE, POI SONO ARRIVATI I TAGLI ALLA SANITA’”

“Sono nato qui, prima che nessuno ci potesse nascere più”. La storia di Agnone, incastrata tra i monti dell’Alto Molise, racconta un’Italia che invecchia e scompare. A parlare è Maurizio D’Ottavio, direttore dell’Eco, giornalista precario e molisano testardo, che si è rifiutato di tagliare le radici. “Il giorno in cui chiusero il punto nascite dell’ospedale Caracciolo lo ricordo come fosse ieri”. Era il 2010, sono passati 15 anni. “Ho l’immagine delle culle che venivano portate via. Una scena di una tristezza che non si può spiegare”.
Il paese è famoso per le campane dei papi: Agnone è la casa della Pontificia Fonderia Marinelli. È la fabbrica più antica del mondo: fu aperta intorno all’anno mille, il bronzo viene fuso e decorato ancora dalla stessa famiglia. Nell’800 la chiamavano “l’Atene del Sannio” perché era luogo di attrazione di filosofi, medici, giuristi; un secolo e mezzo fa gli abitanti erano 11.865. Oggi sono poco più di un terzo: 4.602 e duemila persone sono state perse solo negli ultimi vent’anni.
Agnone è una delle città più senescenti d’Italia: l’indice di invecchiamento è del 372%; per ogni bambino ci sono quasi quattro anziani. Per D’Ottavio il declino del paese coincide con l’agonia dell’ospedale pubblico: “Il Caracciolo era un gioiello, dava lavoro a 320 persone, serviva dodici comuni molisani, ma era importante anche per i paesi di confine dell’Abruzzo. Negli ultimi quindici anni l’hanno smontato, taglio dopo taglio: reparti chiusi, personale ridotto a circa 100 unità, il 118 è demedicalizzato di notte. Siamo in montagna, d’inverno possono scendere anche metri di neve. Si immagini ad avere un’emergenza qui, bisogna correre a Vasto o a Isernia, a 40 minuti d’auto”.
Uscendo dai confini cittadini, la malinconia si trasforma in farsa: si risale la collina e in pochi minuti si arriva all’ecomostro, che racconta meglio di ogni statistica il fallimento del territorio. Il nuovo ospedale di Agnone fu progettato alla fine degli anni Settanta, parte di un piano che prevedeva strutture pubbliche moderne in tutto il Molise. Avrebbe dovuto affiancare e poi sostituire il vecchio Caracciolo con reparti d’avanguardia per servire un bacino di trentamila persone, fino alla provincia di Chieti. Fu un’idea del democristiano Remo Sammartino, ex sindaco agnonese, parlamentare e sottosegretario nel primo governo Rumor. I lavori, iniziati a metà degli anni Ottanta, si fermarono di botto nel 1992. Si disse che erano finiti i fondi. Sprechi, omissioni, gare fallite: dieci miliardi di lire buttati, seguiti da altri finanziamenti inghiottiti dal nulla.
Dalla strada l’ospedale non si vede, è nascosto nel bosco.
Bisogna scavalcare un cancello e addentrarsi nell’erba alta, poi la carcassa appare all’improvviso. Gli occhi si poggiano prima sul guscio di cemento armato, poi sul tetto di tegole ordinate, praticamente intatto: nonostante i decenni di abbandono, la struttura è ancora integra. È un’altra beffa, perché oltre lo scheletro non c’è nulla: quattro piani di pilastri nudi, la corte centrale dove crescono gli alberi, scale di servizio senza ringhiere, finestre quadrate aperte sulla campagna e i monti. Dentro e fuori, due gru arrugginite: non hanno smontato nemmeno quelle, come se fossero tutti scappati di corsa da una catastrofe improvvisa. Ci sono graffiti e scritte sui muri, un altro fabbricato esterno è pieno di vecchi macchinari del Caracciolo, fascicoli e faldoni, scatole stipate di ricette mediche e dati dei pazienti, immondizia. Per completare l’opera servirebbero circa 40 milioni. L’ultima ipotesi, già cestinata, era di trasformarla in carcere. “Noi chiaramente preferiremmo progetti in ambito sanitario – dice Daniele Saia, sindaco di Agnone e presidente della provincia di Isernia – ma la competenza è della Regione. Sono 25 mila metri quadri coperti, ci vorrebbe un imprenditore privato che decidesse di investire sul territorio”. Traduzione: non ci sono soldi.
Se si scatta una foto dall’alto, con un drone, a valle compaiono anche i piloni del viadotto “Femmina Morta”. Un altro ecomostro con il destino segnato nel nome. Doveva essere un collegamento rapido con l’Abruzzo, per ridurre un isolamento sempre più asfissiante (dal terremoto del 2018 è chiuso anche il viadotto Sente). Anche qui fu bloccato tutto negli anni di
Tangentopoli e da allora resta lo scheletro della strada: una manciata di piloni che sbucano da terra, gettati nel nulla. A marzo l’Anas ha bandito la gara per i lavori di completamento, che partono da una base di 34,7 milioni di euro, si attende l’apertura delle buste per capire se almeno quest’opera avrà un futuro.
Se “il Molise non esiste”, come vuole una battuta famosa e stucchevole, la colpa è di chi l’ha spolpato, tra opere fantasma, servizi tagliati, comunità lasciate a invecchiare da sole. Ma il Molise esiste eccome, asimmetrico e diseguale. A un’ora di macchina da Agnone, c’è Pozzilli, il paese di Neuromed, cattedrale della sanità privata. È a due passi da Venafro, un’area periferica trasformata in capitale della neurologia nazionale. Fattura quasi 100 milioni l’anno, domina i tetti di spesa regionali e intercetta i fondi europei. Una creatura di Aldo Patriciello, ras berlusconiano passato alla Lega, eurodeputato alla quinta legislatura e macchina da preferenze: uno degli uomini più potenti della Regione. Politica e soldi si mescolano, come sempre. Il Molise esiste: specchio dell’Italia presente e futura, dove il pubblico agonizza e il privato prospera.

(da ilfattoquotidiano.it)

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