RETI IDRICHE, FRANE E ALLUVIONI. PNRR E FESR, L’ITALIA STANZIA I SOLDI MA NON LI SPENDE
LE OPERE SONO FERME, IL PNRR SCADE TRA 10 MESI, I PAGAMENTI SONO AL 20%… PER I CANTIERI IN EMILIA SIAMO ALL’1%
La cosa nota è nota dalla notte dei tempi. I romani, per dire, dicevano aqua fons vitae, che poi è diventato pure il titolo di un documento vaticano sulle risorse idriche: per garantirci la vita, dobbiamo tutelare la fonte della vita e curare il territorio in cui l’acqua corre per evitare dispersioni e danni. Una banalità, lo sappiamo tutti, eppure l’Italia invece di fare quel che serve presenta ciclicamente grandi piani che poi rimangono sulla carta: è di pochi giorni fa una ricerca che rivela come i progetti di miglioramento della rete idrica col Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) 2014-2020 ad oggi siano fermi all’11%, quelli della nuova programmazione (2021-2027) all’1%. Non va meglio coi progetti Pnrr sulla stessa materia: a meno di un anno dalla scadenza del Piano di ripresa oscillano in media tra il 21 e il 39%, quelli contro il dissesto idrogeologico languono vicino allo zero.
Ripartiamo da capo e precisamente dalle reti idriche. Nonostante investimenti in crescita negli ultimi anni e qualche miglioramento nella performance, le infrastrutture per l’acqua nel nostro Paese ne perdono mediamente oltre il 42% circa (dati Istat riferiti al 2022). Scarso poi continua ad essere il recupero e il reimpiego dell’acqua piovana, pessimo, specie al Sud, lo stato dei depuratori (per cui paghiamo multe salate all’Ue), discontinuo il servizio per circa 2,3 milioni di persone (con
percentuali enormi in Sicilia e Calabria). Una serie di criticità infrastrutturali che sono in rapporto con l’ultima: l’Italia è tra le nazioni che prelevano più acqua potabile da fonti profonde (pozzi e sorgenti), fonti che ovviamente non sono eterne. In numeri usiamo 155 metri cubi per abitante l’anno da acque sotterranee, terzi dopo Irlanda e Grecia in Europa, distantissimi dalla media dei Paesi più “virtuosi”, che sono 20 su 27 tra i membri Ue e prelevano tra 45 e 90 metri cubi per abitante.
È guardando a questo contesto che vanno letti i numeri di una ricerca del Centro studi Enti locali su dati Opencoesione (cioè della presidenza del Consiglio), che sarà presentata alla fiera Accadueo di Bologna a ottobre, e mostrano le pessime percentuali di realizzazione dei progetti idrici nel nostro Paese: al 1° maggio scorso solo l’11% dei 2.023 progetti sul tema finanziati dal Fesr nel ciclo di programmazione 2014-2020, già scaduto, è stato effettivamente completato, il 3% non è nemmeno iniziato, il resto risulta in corso. Una performance assai peggiore di quella dei due cicli precedenti di fondi Fesr: 2007-2013 (50,3%) e 2000-2006 (81%). Il ciclo Fesr attuale (2021-2027) è ancora in corso, ma la situazione non pare migliorata: dei 542 progetti sulla rete idrica destinatari di fondi ne risultano conclusi 5 (l’1%), mentre 366 sono in corso (68%). Significa che 168 progetti (31%) non sono neanche partiti. A cosa dovrebbero servire questi soldi? In genere a questo: manutenzione, miglioramento tecnologico o allargamento delle reti idriche urbane, opere per lo smaltimento delle acque reflue domestiche o industriali, impianti di trattamento delle acque reflue, opere per migliorare/ridurre l’uso dell’acqua in agricoltura.
Ora torniamo ai numeri. I più attenti fra i lettori avranno notato la diminuzione dei progetti finanziati dal Fesr 2021-2027 rispetto al ciclo precedente (542 invece di 2.023). Il motivo è semplice: le reti idriche hanno ricevuto finanziamenti – quasi 4 miliardi in tutto – anche nel Piano di ripresa e resilienza che copre all’ingrosso lo stesso periodo di programmazione. Ebbene, dando un’occhiata allo stato dell’arte su OpenPnrr (un progetto della fondazione Openpolis) non pare che l’andazzo migliori di molto, nonostante alla scadenza del Piano di ripresa manchino solo 10 mesi e mezzo. Ad esempio gli “investimenti in infrastrutture idriche” (3,6 miliardi, due dei quali del Piano di ripresa) registrano pagamenti al 21% con dati pessimi al Centro Sud: si va dallo 0 della Campania all’1% della Calabria, dal 6% del Molise all’8% della Puglia, dal 12% dell’Abruzzo al 14% delle Marche e al 16% del Lazio.
Non va meglio ai programmi per la “riduzione delle perdite, anche attraverso il monitoraggio digitale”: 2,6 miliardi stanziati (1,9 del Pnrr) e pagamenti al 22%. E ancora: gli “investimenti in fognature e depurazione” valgono 731 milioni e la spesa effettiva è al 23% (per i mancati depuratori paghiamo decine di milioni di euro di multe ogni anno all’Ue); i fondi destinati alla “resilienza dell’agrosistema irriguo” sono 984 milioni e risultano pagati al 38%.
Ancor più desolante è la situazione dei fondi per il rischio idrogeologico rimasti nel Pnrr: si tratta di 944 milioni in tutto, destinati per la grandissima parte all’Emilia Romagna, alla
Toscana e alle Marche, cioè i territori colpiti dall’alluvione del 2023, soldi entrati nel Pnrr con la prima revisione generale realizzato dal governo Meloni proprio quell’anno. I pagamenti in totale sono sotto l’1%, tutti in Emilia Romagna, le altre Regioni non risultano aver contabilizzato ancora un euro.
L’elenco dei lavori non svolti in questi due anni è impressionante: si va da decine di appalti per “interventi di ripristino di modesta entità e ripristino dei piani viabili” a quelli più specifici per la riapertura di strade sprofondate o la messa in sicurezza di scarpate, torrenti e argini franati fino alla creazione di varchi e alvei per lo sfogo dell’acqua in eccesso in caso arrivi una nuova alluvione. A giudicare dalla velocità dei lavori, però, gli interessati farebbero meglio a sperare che non piova troppo nei prossimi anni…
(da ilfattoquotidiano.it)
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