Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
LA DOPPIA FACCIA DELLE OCCUPAZIONI IN ITALIA
Tra le cose che stonano nell’operazione di sgombero del Leoncavallo, a Milano, c’è n’è una che risalta all’occhio in particolar modo: la differenza di pesi e misure adottate per lo storico centro sociale milanese e per la sede di CasaPound a Roma. Nonostante Giorgia Meloni affermi che «in uno Stato di diritto non possono esistere zone franche o aree sottratte alla legalità», nel cuore dell’Esquilino, la sede storica del movimento neofascista continua a resistere dopo oltre vent’anni di occupazione.
Lo stabile al civico 8 di via Napoleone III, a pochi passi dalla stazione Termini, fu preso nel dicembre 2003 da un gruppo di militanti neofascisti guidati da Gianluca Iannone. Da allora è diventato il quartier generale del movimento, soprannominato dai suoi stessi abitanti “Grand Hotel CasaPound”.
Cosa c’è dentro la sede di CasaPound
Qui, negli ex uffici del Ministero dell’Istruzione, sono stati ricavati appartamenti, una sala conferenze e spazi per l’attività politica. Sul mercato, un appartamento con due camere in quella zona supererebbe i 2.000 euro al mese. Il valore totale dell’immobile, considerando anche gli spazi per le attività politiche, supera i 300mila euro l’anno.
Di fatto, è un bene pubblico trasformato in cittadella privata: secondo le stime del Demanio il danno erariale supera i 4,5 milioni di euro. Nel 2023 un tribunale di Roma ha condannato dieci esponenti, tra cui Iannone e i fratelli Di Stefano, a due anni e due mesi per occupazione abusiva aggravata, con una
provvisionale da 20mila euro a testa. Eppure, nonostante le sentenze, lo sgombero non è mai arrivato.
Un’occupazione “inviolabile”
La vicenda di CasaPound è emblematica di come la politica e le istituzioni gestiscono — o non gestiscono — le occupazioni urbane. A ogni cambio di governo, la questione torna sul tavolo, ma resta ferma. Nel 2016 il commissario Tronca inserì lo stabile tra i beni da liberare, senza esito. Anche con i ministri dell’Interno successivi la linea è stata di prudenza: si teme che uno sgombero possa degenerare in scontri e, al tempo stesso, si evita di aprire un fronte delicato con la destra radicale. L’edificio rimane così un paradosso: formalmente abusivo, condannato in tribunale, ma ancora occupato. E soprattutto intoccabile, a differenza di altre realtà cittadine dove il peso sociale delle occupazioni ha garantito almeno un riconoscimento istituzionale o un percorso di mediazione.
Il confronto con il Leoncavallo
Lo stesso non si può dire per Milano, dove pochi giorni fa lo storico centro sociale Leoncavallo è stato sgomberato dopo oltre cinquant’anni di attività. Nato nel 1975, più volte sgomberato e rioccupato, il Leoncavallo è stato un luogo di sperimentazione culturale, politica e musicale, simbolo della sinistra antagonista. Il 21 agosto 2025, dopo 133 rinvii e anni di contenziosi, la polizia ha liberato l’immobile di via Watteau. Un epilogo che la premier Meloni ha definito «una vittoria della legalità», mentre il ministro dell’Interno Piantedosi ha parlato di «tolleranza zero». L’operazione ha segnato la fine di uno spazio che aveva ospitato concerti internazionali, dibattiti e iniziative solidali, ma che
restava pur sempre un’occupazione.
Il paradosso Salvini
A commentare con toni trionfalistici lo sgombero è stato soprattutto Matteo Salvini. «Decenni di illegalità tollerata, finalmente si ripristina la legge», ha scritto il leader della Lega. Ma in molti hanno ricordato un dettaglio che rende la vicenda ancora più ironica: lo stesso Salvini, nel 1994, durante il suo debutto in Consiglio comunale a Milano, definì il “Leonka” «il mio ritrovo». Raccontò di averlo frequentato da ragazzo, spiegando che lì si discuteva, ci si confrontava e «si beveva una birra insieme». Un passato rivendicato apertamente e che stride con l’attuale linea dura. Perché se a Milano lo sgombero è arrivato con clamore mediatico e celebrazione politica, a Roma CasaPound continua indisturbata la sua esistenza.
(da Open)
argomento: Politica | Commenta »
Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
I PRODUTTORI STIMANO MEZZO MILIARDO DI EURO IN MENO ALL’ANNO DI MANCATE ESPORTAZIONI NEGLI STATI UNITI… UNA DISFATTA PER GIORGIA MELONI, CHE ORA SI RITROVA CONTRO UNA CATEGORIA, QUELLA AGROALIMENTARE, CHE FINORA L’AVEVA SEMPRE SOSTENUTA
Una «stangata» per l’Unione Italiana vini, «un’occasione mancata» per Federvini.
Neanche le principali organizzazioni agricole italiane nascondono la delusione per la mancata esenzione dell’export di vini e alcolici dai dazi al 15% nell’accordo tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, ribadendo anzi come «sia sempre l’agricoltura a essere sacrificata», come lamentano Coldiretti e Filiera Italia.
«Viene sacrificato l’agroalimentare per avvantaggiare l’automotive», puntualizza Cia-Agricoltori Italiani, mentre Confagricoltura sottolinea il rischio «che il compromesso si trasformi in un vantaggio per pochi settori e in un pesante freno competitivo per altri».
Copa-Cogeca, la principale federazione europea del settore, osserva in una breve nota come «l’agricoltura viene costantemente declassata nei negoziati commerciali della Ue», e invita polemicamente la Commissione «a spiegare in che modo questo risultato sia in linea con i suoi obiettivi dichiarati sul ruolo strategico del nostro settore per l’Europa, la resilienza rurale e il commercio equo e solidale».
Un primo conteggio dei danni per i produttori di vini italiani arriva dall’Osservatorio Uiv: le perdite stimate sono di circa 317 milioni di euro per i prossimi 12 mesi. Ma ai partner Usa andrà anche peggio, con un rosso per le mancate vendite che potrebbe arrivare fino a 1,7 miliardi di dollari.
Anche per i viticultori italiani tuttavia si potrebbe arrivare a 460 milioni di dollari di mancato export, se il dollaro dovesse mantenere l’attuale livello di svalutazione. Il vino, ricorda il presidente dell’Unione italiana vini Lamberto Frescobaldi, è «il settore più esposto tra le top 10 categorie italiane di prodotti
destinati agli Stati Uniti, con un’incidenza al 24% sul totale export globale e un controvalore di circa due miliardi di euro l’anno».
L’auspicio dei produttori è che ci siano ancora margini d’intervento, come del resto ha ipotizzato anche il commissario Ue al commercio Maros Sefcovic: « I dazi su vino, alcolici e birra erano uno degli interessi più importanti dell’Unione Europea», ha ammesso, assicurando che «le porte non sono chiuse per sempre».«Come Commissione europea – si è impegnato – lavoreremo il più duramente possibile per espandere i settori anche a vino e liquori, oltre che ad acciaio e alluminio».
Ma i produttori sono scettici, anche se non si arrendono: «Continueremo a lavorare per un accordo migliore, quando si calmeranno le acque, ma non siamo ottimisti», spiega Mara Varvaglione, la giovane viticultrice pugliese che da alcuni mesi è diventata presidente del Ceev, il Comitato degli imprenditori europei del vino, la principale organizzazione Ue di categoria.
«Siccome l’unione fa la forza, lavoreremo a fianco degli importatori americani, perché spesso sfugge, ma con i dazi andiamo a perdere da entrambe le parti, e quindi è importante rimanere a fianco delle organizzazioni Usa».
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
L’EX DIRETTORE GENERALE DI BANKITALIA, SALVATORE ROSSI, METTE IN DISCUSSIONE IL RUOLO DI PALAZZO CHIGI SULLA QUESTIONE MEDIOBANCA, DOVE LA COMPAGNIA “CALTA-MELONI” HA SCONFITTO IL TENTATIVO TARDIVO (POTEVA FARLO PRIMA) DI ALBERTO NAGEL DI SOTTRARRE IL BOTTINO DEL 13% DI GENERALI IN PANCIA A PIAZZETTA CUCCIA SCAMBIANDOLO CON BANCA GENERALI … ’L’OPINIONE, AFFERMATASI IN TUTTO L’OCCIDENTE, È CHE LO STATO DOVESSE REGOLAMENTARE MA NON GESTIRE LE ISTITUZIONI BANCARIE’’
Cominciamo col ricordare una ovvietà (ma a volte le ovvietà servono a stabilire punti fermi del ragionamento): in un’economia di mercato, in cui le principali aziende sono società per azioni quotate in una borsa valori, le sorti di un’azienda sono determinate dalla volontà della maggioranza dei soci, punto.
Purché questa volontà venga espressa rispettando tutte le norme poste a tutela del corretto funzionamento del mercato.
Nell’assemblea di Mediobanca che si è tenuta ieri i soci non hanno approvato la proposta di lanciare un’offerta pubblica di scambio nei confronti di Banca Generali. L’amministratore delegato Nagel, in una nota rilasciata a caldo, ha espresso dubbi sul comportamento assembleare di alcuni soci (si riferiva evidentemente a Caltagirone). La questione potrebbe finire davanti a un giudice e ingrassare le parcelle dei legali coinvolti, ma non è tanto questo il punto che c’interessa qui, che è invece molto più generale e riguarda l’antichissima diatriba Stato-Mercato.
Per capirlo, dobbiamo chiedere al lettore la pazienza di rammentare gli intricati viluppi di questa vicenda. Il fulcro sono le Assicurazioni Generali (Ag). Due importanti soci di AG, il Gruppo Del Vecchio e Caltagirone S.p.a., sono da tempo oppositori dell’attuale gestione di quell’azienda. Ag da molti anni è governata da un consiglio espresso dall’azionista Mediobanca, che col suo 13% si è finora tirato dietro nelle assemblee di Ag il grosso degli altri soci, soprattutto investitori istituzionali.
Ma Caltagirone e Del Vecchio (ora Milleri, che ne ha ereditato la missione) sono anche importanti azionisti di Mediobanca. Quando il risanato Monte dei Paschi di Siena ha lanciato la sua offerta pubblica di scambio su Mediobanca (il periodo di adesione scadrà l’8 settembre) essi si sono schierati con gli offerenti.
Molti osservatori hanno anzi affacciato l’ipotesi che fossero loro
gli ispiratori dell’offerta di Mps, con l’intento di impadronirsi indirettamente di Ag, il tutto con il coordinamento del governo. Quest’ultimo ancora possiede l’11% di Mps, ma ne ha appena ceduto importanti quote tra gli altri proprio al duo Caltagirone-Milleri.
E perché il governo benedirebbe il tentativo di Mps? Per vicinanza politica a Caltagirone, dicono i più maligni; per la volontà di creare con la fusione Mps-Mediobanca una grande banca nazionale che possa sfidare il duopolio Intesa-UniCredit, dicono altri.
Allora l’attuale gestione di Mediobanca avrebbe tentato una specie di disperata mossa del cavallo: offro di acquisire Banca Generali, una banca posseduta al 51% da Ag (il resto essendo di fondi esteri e azionisti vari), dando in cambio proprio quel 13% di Ag, di cui a questo punto voglio liberarmi per togliere ai lupi che vogliono mangiarmi il boccone più ghiotto. Mossa fatta abortire dalla maggioranza degli azionisti di Mediobanca che si sono presentati ieri in assemblea, cioè di nuovo Caltagirone-Milleri più altri.
Questa storia ha le parvenze di un confronto fra privati su quale debba essere il modo migliore di amministrare aziende private. Se fosse veramente così varrebbe la massima aurea da cui ha preso le mosse questo articolo. Ma il governo starebbe giocando un ruolo e questo va discusso.
Uno Stato ha essenzialmente due modi per orientare l’offerta produttiva dell’economia: regolamentare/incentivare, da un lato; gestire direttamente, dall’altro. Quest’ultimo modo è tipico delle economie “di comando”, quelle socialiste/comuniste. In Italia
dopo la seconda guerra mondiale si sperimentò per decenni un’economia “mista”, con molte aziende (fra cui quasi tutte le banche) gestite dal settore pubblico. Poi prevalse l’opinione, affermatasi in tutto l’Occidente, che lo Stato dovesse regolamentare ma non gestire, tutt’al più elargendo qualche sussidio purché automatico e orizzontale, non settoriale.
Questa opinione nel mondo si è negli ultimi anni affievolita. S’invocano politiche “industriali”, con governi che attivamente sospingano le aziende private verso comportamenti e obiettivi che meglio servano l’interesse collettivo. Il presupposto è che il mercato non riesca autonomamente a produrre i risultati ottimali, che occorra l’intervento dello Stato.
In questa fase storica le parole d’ordine sono innovazione e dimensione. Nella finanza l’Europa soffre di un’acuta condizione di minorità rispetto ad altre aree del mondo, essenzialmente perché non riesce a dotarsi di un mercato finanziario e dei capitali veramente integrato, con aziende di dimensione continentale, che sappiano sfidare quelle americane, cinesi, giapponesi.
Ora, è questo il compito che il governo italiano si è dato? In particolare nella vicenda da cui stiamo prendendo le mosse? È lecito dubitarne. Almeno fintantoché non ne sapremo di più. Per il momento le ragioni di perplessità sono almeno due. La prima è che una eventuale fusione Mps-Mediobanca, che sarebbe appunto caldeggiata dal governo, mostra aspetti di incoerenza per le storie rispettive delle due banche. La seconda è che si darebbe vita a una banca certo più grande delle due attuali ma non proprio a un campione europeo
Altri governi europei non stanno comportandosi meglio, basti pensare alla pervicace opposizione di quello tedesco al tentativo di UniCredit di scalare Commerzbank. Stiamo esortando l’Europa a essere più coesa nei campi della politica estera e dell’impegno militare, che sono in questo momento in cima alle preoccupazioni di tutti. Ma non dimentichiamo che a rendere più rilevante l’Europa nel mondo sarà anche una finanza moderna e integrata.
Salvatore Rossi
per “La Stampa“
argomento: Politica | Commenta »
Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
IN DIECI ANNI IL COSTO DELLA VITA E’ AUMENTATO DEL 27,3% , I BENI ALIMENTARI DEL 38,7%, LE BOLLETTE DEL 43,7%: IL GOVERNO SI RENDE CONTO CHE IL CETO MEDIO E’ PROSSIMO ALLA POVERTA’?
L’inflazione rallenta ma continua a gravare sui portafogli dei genovesi. Specialmente per
i prodotti alimentari, che a luglio fanno registrare un +4,4% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. Nel complesso il paniere preso in considerazione dall’osservatorio statistico del Comune di Genova registra una variazione congiunturale del +0,2% su base mensile e una variazione tendenziale del +1,8% su base annuale.
Si tratta di un dato pressoché in linea con quello nazionale (+1,7%), con Genova che si scrolla di dosso il primato di città più cara d’Italia, ampiamente superata adesso da Rimini (+2,8%), Padova (+2,3%) e Napoli (+2,3%). Anche l’inflazione della Liguria è allineata con quello di Genova, nella “parte sinistra” della classifica ma comunque inferiore rispetto ai primati di Puglia (+2,2%), Calabria (+2,1%) e Veneto (+2%).
In sintesi, però, i prezzi continuano a salire, nonostante la frenata rispetto all’esplosione degli anni scorsi. Nell’ultimo anno solo tre volte si è registrata una diminuzione da un mese all’altro: ottobre e novembre 2024 (rispettivamente -0,5% e -0,2%) e maggio 2025 (-0,1%). Il confronto annuale risultava ancora più impietoso ad aprile, con rincari nell’ordine del 2,6%.
Se si fa il paragone con giugno, in realtà i prodotti alimentari sono in calo (-0,3%) trascinati soprattutto dalla frutta (-4,9%) e verdura (-0,9%), mentre sono in aumento ad esempio il pesce (+0,8%), uova e latticini (+0,6%). Costano di più gli affitti (+0,4%), le bollette (elettricità +3%, gas +0,3%, gasolio per riscaldamento +1,9%) e i trasporti (+0,9%) con un prevedibile aggravio su aerei (+4,6%) e traghetti (+3,1%) dovuto ovviamente al periodo delle vacanze.
Rispetto a un anno fa si riscontra un aumento generalizzato dei prodotti ad alta frequenza di acquisto (in pratica l’intero carrello della spesa, affitto, utenze e tutto ciò che serve nella quotidianità) pari al 2,4%. Oltre ai rincari sugli alimentari pesano bevande alcoliche e tabacchi (+2,4%), abitazione ed energia (+1,5%), servizi ricettivi e di ristorazione (+2,4%). L’unica voce nettamente in calo è quella delle comunicazioni (telefonia, internet e simili) col -3,3%.
Guardando addirittura a dieci anni fa, gli alimentari costano oggi il 38,7% in più, le spese per la casa e le bollette il 43,7% in più, i trasporti il 27,2% in più, bar e ristoranti il 36,6% in più. Complessivamente il costo della vita è salito del 27,3%.
(da Genova24)
argomento: Politica | Commenta »
Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
MA NON E’ CHE ALLA FINE TUTTO SI RIVELERA’ UNA BOLLA DI SAPONE?
Torna libero anche l’immobiliarista Manfredi Catella, che da tre settimane era agli arresti domiciliari nell’inchiesta milanese sull’urbanistica. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Milano. Una riga secca di dispositivo con cui il collegio dei giudici, un altro rispetto alle precedenti udienze, ha “annullato” l’ordinanza impugnata e ha revocato la misura cautelare per lo sviluppatore immobiliare. Tutti e sei gli arresti chiesti e ottenuti dalla procura milanese in questo ultimo importante filone di inchiesta sono quindi stati annullati dal Riesame.
I giudici si sono presi tre giorni per decidere dopo l’udienza del 20 agosto e hanno accolto il ricorso presentato dai legali del patron di Coima contro la misura restrittiva – gli arresti domiciliari – disposti lo scorso 31 luglio dal gip Mattia Fiorentini. Era stata la procura a chiedere la misura – con la procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano e i pm Paolo Filippini, Marina Petruzzella e Mauro Clerici – nell’ambito dell’inchiesta sui presunti conflitti d’interesse e le corruzioni nella gestione dell’urbanistica del Comune in cui Catella è accusato di corruzione e falso.
Il ricorso di Catella: “Le fatture a Scandurra erano vere”
Aveva voluto esserci di persona, Manfredi Catella, mercoledì mattina a Palazzo di Giustizia, per chiedere la revoca dei suoi
arresti domiciliari ai giudici del Riesame. Nell’inchiesta sul “sistema corruttivo”, che per la procura milanese avrebbe regolato buona parte dello sviluppo immobiliare degli ultimi anni in città, il patron di Coima è accusato di aver corrotto l’architetto Alessandro Scandurra, ex membro della commissione per il Paesaggio, con consulenze “mascherate da tangenti” per ottenere il voto favorevole per i progetti di proprio interesse. Il Pirellino, su tutti. Per i pm quelle consulenze, però, sarebbero state “pagate troppo”, una cifra “non congrua” rispetto agli incarichi svolti. Quindi, una prova “del patto corruttivo”.
Chiedendo la revoca dei domiciliari a cui è sottoposto dallo scorso 31 luglio su decisione del gip Mattia Fiorentini, Catella ha fatto sapere tramite i suoi legali Francesco Mucciarelli e Adriano Raffaelli che la fattura da 28.500 euro emessa a luglio 2023 dallo studio di Alessandro Scandurra nei confronti di Coima Sgr, “non è affatto falsa”, a differenza di quanto sostenuto dal gip per il quale era “funzionale unicamente a giustificare” il patto corruttivo tra Catella e l’ormai ex membro della commissione Paesaggio. Sottolineando che lo stesso giudice afferma che “Catella non aveva alcun rapporto con Scandurra”, i difensori sostengono che durante l’interrogatorio preventivo l’immobiliarista “si è assunto una responsabilità generale in coerenza con la sua etica e deontologia, ma non certo quella di avere commesso illeciti: altro – si legge – è l’assunzione della responsabilità delle politiche aziendali, altro la paternità di reati”.
Tutti liberi anche gli altri arrestat
Catella era l’ultimo tra gli arrestati lo scorso 31 luglio su cui il Riesame doveva esprimersi. La scorsa settimana sono stati liberati l’assessore Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della Commissione paesaggio Giuseppe Marinoni e il manager Federico Pella: per tutti e tre i giudici hanno disposto una misura interdittiva di un anno. Arresti annullati, invece, per il patron di Bluestone Andrea Bezziccheri – l’unico che era finito in carcere – e Alessandro Scandurra. E proprio la liberazione di Scandurra aveva lasciato ipotizzare che anche per il patron di Coima ci si sarebbe potuti attendere la revoca dei domiciliari.
Dieci giorni fa era stato accolto dai giudici del Riesame proprio il ricorso dell’architetto e anche membro per otto anni della commissione per il Paesaggio. Scandurra è accusato di essere stato “corrotto” proprio da Catella con fatture fino a 138mila euro per un suo sì al parere da rilasciare in commissione sui progetti di interesse dello sviluppatore, su tutti il Pirellino e il villaggio olimpico allo Scalo Romana, da convertire a fine Giochi in uno studentato. Annullata la misura cautelare ai domiciliari per il presunto corrotto, oggi un altro collegio giudicante – Cucciniello-Braggion-Ricciardi – ha di conseguenza annullato anche quella per il presunto corruttore, difeso dal professore Francesco Mucciarelli e dall’avvocato Adriano Raffaelli.
L’attesa per le motivazioni
Come avvenuto per gli altri arrestati poi liberati, ora i giudici hanno 45 giorni per depositare le motivazioni. Il dispositivo di
oggi è di una riga soltanto quindi saranno fondamentali le motivazioni per capire su cosa si sia bastata la decisione dei giudici. Se hanno ritenuto che non vi fossero le esigenze cautelari per mantenere Catella agli arresti domiciliari, anche considerando il fatto che il patron di Coima ha rimesso le deleghe nei rapporti con la pubblica amministrazione. Oppure se hanno deciso di annullare l’ordinanza di Scandurra e Catella non ravvisando i gravi indizi di colpevolezza a suo carico, dunque entrando nel merito delle accuse. Un’ipotesi questa che metterebbe in discussione l’impianto accusatorio costruito dalla procura sul sistema di corruzione che avrebbe regolato lo sviluppo urbanistico degli ultimi anni.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »