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ALBERTO TRENTINI, UN POVERO CRISTO CHE HA LA SFORTUNA DI NON ESSERE CECILIA SALA : L’ACCUSA DURISSIMA DI ARMANDA COLUSSO, MAMMA DEL COOPERANTE ITALIANO DETENUTO DA UN ANNO IN VENEZUELA: “IL GOVERNO SI È SPESO TROPPO POCO PER MIO FIGLIO. SONO INDIGNATA, PER LUI NON SI È FATTO CIÒ CHE ERA DOVEROSO FARE. SONO STATA TROPPO PAZIENTE ED EDUCATA MA ORA LA PAZIENZA È FINITA”

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

PERCHÉ PER LA GIORNALISTA CECILIA SALA, FAMOSA E FIGLIA DI DUE RICCHI MANAGER (IL PADRE E’ AMICO DEL MINISTRO TAJANI), IL GOVERNO SI È SCAPICOLLATO E HA LIBERATO UN TERRORISTA IRANIANO, E PER TRENTINI TUTTI ZITTI?

“Fino ad agosto il nostro governo non aveva avuto alcun contatto col governo venezuelano. Fino ad agosto. E questo dimostra quanto poco si sono spesi per mio figlio”. Lo sottolinea Armanda Colusso, mamma del cooperante Alberto Trentini, detenuto da un anno in Venezuela, durante una conferenza stampa a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano. “Sono qui dopo 365 giorni a esprimere indignazione. Per Alberto – aggiunge – non si è fatto ciò che era doveroso fare. Sono stata troppo paziente ed educata ma ora la pazienza è finita”.
“In 12 mesi ho avuto tre telefonate dalla premier Giorgia Meloni e ho avuto due incontri con Mantovano con cui c’è costante contatto. Siamo in contatto con l’inviato speciale per gli italiani in Venezuela che è sempre disponibile” prosegue la mamma di Trentini. “Dai rappresentanti del governo, da subito, ci è stato imposto il silenzio per non danneggiare la posizione di mio figlio. Ci siamo fidati e abbiamo operato in silenzio. Ma non potendo continuare a essere ignorati, con il nostro benestare è stata fatta un’interrogazione parlamentare” ricorda ancora.
Per Alberto Trentini, cooperante detenuto in Venezuela da un anno, il governo italiano “deve fare come se fosse un figlio loro e attivarsi in tutti i modi” per la sua liberazione. Lo ha detto l’avvocata della famiglia Trentini, Alessandra Ballerini, durante una conferenza stampa a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano.
“Spero che mi venga finalmente concesso questo visto, il mio scopo sarebbe andare a trovare Alberto in carcere ma non credo che da sola potrei farcela e chiedo a Vignali (Inviato Speciale per i detenuti italiani in Venezuela, ndr) se potessimo andare insieme. Questo forse mi permetterebbe di raggiungere l’obiettivo”: lo ha detto l’avvocata della famiglia Trentini, Alessandra Ballerini, durante una conferenza stampa a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano.
“Si sono palesati dei negoziatori, alcuni millantando un potere che non avevano, un mix tra negoziatori italiani e venezuelani, quando ci è sembrato che Alberto potesse arrivare a casa poi complice anche lo scenario internazionale, alla fine non è tornato. Probabilmente è stato millantato un potere che non c’era” ha sottolineato. Ad ogni modo “non è sopportabile un giorno in più di detenzione. Succedono tante cose in un anno di detenzione e ogni giorno si subiscono traumi, soprattutto se detenuti ingiustamente – ha aggiunto Ballerini -. Chiediamo che il governo faccia tutto il possibile e di utilizzare il canale che si è aperto con il Venezuela e rassicurarli che se ci ridaranno Alberto non volteremo loro le spalle. L’Italia ripudia la guerra e non saremo favorevoli a un’invasione Usa”. “Suggerirei a Maduro – ha concluso – di approfittare di questo rapporto cordiale col
nostro Paese. Maduro faccia un gesto di distensione, lui e i suoi ministri rispettino le promesse e permettano ad Alberto di tornare a casa. Questo è il miglior modo di invocare la pace”.
(da agenzie)

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LA TANGENTOPOLI UCRAINA CHE HA PORTATO ALLE DIMISSIONI DUE MINISTRI DIMOSTRA CHE KIEV È UNA DEMOCRAZIA CHE FUNZIONA, IN RUSSIA LO STESSO GIRO DI CORRUZIONE SAREBBE STATO INSABBIATO E RISOLTO CON I SOLITI METODI PUTINIANI: TÈ AL POLONIO PER I RESPONSABILI

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

YURII HUDYMENKO, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PUBBLICO ANTICORRUZIONE DEL MINISTERO DELLA DIFESA DI KIEV: “ANCHE IN PIENA GUERRA, SIAMO UNA DEMOCRAZIA RETTA DALLO STATO DI DIRITTO”

Ex militante del Maidan, veterano del Donbass ferito da un colpo di mortaio, politico liberale-conservatore e attivista per i diritti Lgbtq+, Yurii Hudymenko ha attraversato tutte le stagioni dell’Ucraina dal 2014: la rivoluzione, la guerra, le riforme, l’invasione su larga scala.
Tra i critici più severi di Volodymyr Zelensky, oggi è, paradossalmente, è uno dei protagonisti della modernizzazione istituzionale avviata dal suo governo. Da gennaio 2025 Hudymenko è presidente del Consiglio pubblico anticorruzione del Ministero della Difesa, un organismo indipendente di controllo eletto direttamente dai cittadini ucraini attraverso voto elettronico.
Cosa pensa dell’inchiesta Midas?
«Che prima ancora di essere un’operazione di giustizia civile, dimostra come l’Ucraina, anche in piena guerra, sia una democrazia, retta dallo Stato di diritto e dalle leggi. E che questa democrazia, pur tra le mille difficoltà causate dall’invasione su larga scala, è ancora sana. In questa situazione, sarebbe molto facile – e comprensibile – mettere in pausa il processo democratico per cause di forza maggiore, ma non è così. In un certo senso siamo un laboratorio di democrazia.
Se accettassimo di vivere in uno stato di eccezione permanente, allora avrebbero vinto loro, i russi. Noi combattiamo per
continuare a essere liberi anche nel mezzo della guerra. È il nostro modo di restare vivi e di restare noi stessi».
Quanto è diffusa la corruzione oggi in Ucraina?
«Esiste, ma non è ai livelli di dieci anni fa. Stiamo lavorando con determinazione: è un processo, sta migliorando, ma ci sono ancora molte resistenze».
Il problema principale?
«Gli “intoccabili”: persone dentro ministeri e nel governo che sembrano non sottostare alle regole».
Su cosa si concentra il vostro lavoro?
«Non vogliamo solo “trovare” i corrotti. Puoi arrestare una persona, ma il giorno dopo un’altra prenderà il suo posto. Il nostro obiettivo è ricostruire il sistema, eliminare i meccanismi che permettono la corruzione. Stiamo cercando di renderlo moderno, più trasparente, digitale».
Lei è stato molto critico nei confronti del presidente Zelensky prima dell’invasione. La sua posizione è cambiata?
«Sono stato un avversario politico e un critico di Zelensky fino a due ore prima della guerra. Gli contestavo di essere troppo morbido verso la Russia, di sottovalutare la minaccia militare russa, di sbagliare nel ritirare truppe nel Donbass, e di impostare la politica della sicurezza più sul dialogo che sulla deterrenza. Dal 24 febbraio 2022 tutto è cambiato: la priorità è l’unità nazionale».
È una buona notizia o un segnale preoccupante per la democrazia ucraina?
«Difficile dirlo. Da circa due anni non abbiamo più decisioni
solo “buone” o solo “cattive”. Non esistono più il bianco e il nero: solo sfumature di grigio – chiaro, scuro o medio. Mobilitare la gente per strada non è una buona cosa, ma neppure restare senza fanteria al fronte. Eppure bisogna scegliere. [»
Dice spesso che l’Ucraina combatte per un’idea di Europa. Che cosa significa?
«Gli ucraini credono profondamente nell’idea di un’Europa ideale, dove tutto funziona: buoni lavori, un solido sistema sociale, sanità di qualità. Nella nostra immaginazione, l’Europa è perfetta. Ed è per questo ideale che combattiamo».
Sa che qualche europeo crede che l’Euromaidan fosse una rivoluzione pagata dalla Cia e dagli Stati Uniti?
«(Ride) Beh, allora gli americani devono aver pagato davvero bene gli ucraini che si sono fatti ammazzare dalle Berkut. Com’è possibile che quando si tratta di russi, sono sempre loro ad essere stati provocati e “costretti” a reagire? Ucraina, Cecenia, Georgia, di nuovo Ucraina…»
Che dev’essere denazificata…
«Appunto. Ma chi sono i nazisti, qui?»
Me lo dica lei.
«Le darò la mia personale definizione di un nazista: è chi obbedisce ciecamente a un leader, svalutando le persone per caratteristiche come razza, sesso o orientamento sessuale o politico; questo leader cerca di trasformare lo Stato in un impero, dove non ci sono le leggi ma solo la legge del leader, e dove la libertà d’espressione viene repressa e punita. Guardi l’Ucraina: abbiamo mille difetti, ma è un Paese dove la società civile è
attiva, protesta, si esprime, è libera. Ora, invece, guardi la Russia…».
(da agenzie)

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“HO VISTO LE CARTE DEL CASO EPSTEIN: TRUMP RISCHIA IL DISASTRO POLITICO”: LO DICE ALAN DERSHOWITZ, EX AVVOCATO DEL FINANZIERE PEDOFILO E DEL PRESIDENTE AMERICANO

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

“NON CI SONO PROVE INCRIMINANTI. IMBARAZZANTI SÌ, PERCHÉ EPSTEIN ODIAVA TRUMP E LO CONSIDERAVA PAZZO. ERA UN MANIPOLATORE E QUANDO NON OTTENEVA CIÒ CHE VOLEVA TI SI RIVOLTAVA CONTRO”

«Sono stato l’avvocato di Jeffrey Epstein e Donald Trump, e al presidente offro questo consiglio: pubblica tutti i documenti, perché non corri rischi sul piano legale, mentre su quello politico metti in pericolo l’unità del tuo partito». Oltre che legale dei protagonisti, Alan Dershowitz è stato anche accusato da Virginia Giuffre, che poi lo ha scagionato. Perciò ha visto tutti i documenti, anche quelli penali ancora secretati.
Le mail pubblicate in questi giorni hanno effetti legali
«E’ materiale divulgato in maniera selettiva. Invece dobbiamo
vedere tutto, ogni nome di accusati e accusatori. Io sono stato falsamente accusato e la prima cosa che ho fatto è stata rinunciare alla privacy per chiedere di pubblicare tutto, nella certezza che avrebbe dimostrato la mia innocenza. Così è stato.
Non so perché alcuni cerchino di nascondere i materiali. Ci sono cose imbarazzanti. Epstein mi odiava perché pensava che nel primo processo lo avessi difeso male. Secondo me 18 mesi di prigione erano stati un ottimo risultato, ma lui si era rifiutato di pagare la parcella e avevo dovuto fargli causa. Questo però conferma solo la necessità di pubblicare tutto».
La settimana prossima la Camera deve votare per desecretare?
«Sì, ma non può ottenere tutto. Molti documenti sono sigillati dai giudici, neppure il presidente può divulgarli. In una deposizione Sarah Ransome ha accusato Trump, Bill e Hillary Clinton, e Richard Branson di fare sesso con bambini. Ha detto di avere i video, i media le hanno chiesto di pubblicarli, e lei ha ammesso di essersi inventata tutto. Maria Farmer ha detto che la pedofilia è una malattia tipica degli ebrei. La cosa peggiore è che simili denunce continuino a circolare, senza pubblicare i nomi di accusatori e accusati, per consentire loro di confutarle». […
Trump aveva promesso di farlo in campagna elettorale, poi si è rimangiato la parola. Perché?
«Non ho idea, ma ho visto i documenti e non ci sono prove incriminanti. Imbarazzanti sì, perché Epstein lo odiava e lo considerava pazzo. Era un manipolatore e quando non otteneva ciò che voleva ti si rivoltava contro. Quindi posso capire i timori di Trump, ma non bastano a negare la pubblicazione».
Non c’è un motivo per cui ha cambiato idea?
Non lo so, ma credo che dovrebbe spiegarlo. Se non lo fa, i seguaci delle teorie cospirative penseranno sempre che ha qualcosa da nascondere. Non credo che stia proteggendo qualcuno, ma ora vediamo cosa deciderà il Congresso».
In base a quanto ha visto, altri rischiano l’incriminazione?
«Non lo so con certezza. L’avvocato delle vittime Brad Edwards ha detto che non pensa ci siano altri colpevoli, oltre a quelli già noti. I nomi di un paio di accusati non sono stati ancora rivelati, ma questo non significa che siano responsabili di reati. Molti sono stati tirati in ballo da persone che volevano solo compensazioni. Ci sono zone grigie, perciò abbiamo bisogno di avere tutte le prove, per distinguere le accuse false da quelle vere».
Perché nel movimento Maga c’è chi critica Trump?
«È sempre stato cospirativo. Aveva promesso di pubblicare tutto, se non lo fa mette a rischio l’unità del Partito repubblicano
(da agenzie)

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CASO EPSTEIN FILES, TRUMP LITIGA CON LA “SUA” DEPUTATA MAGA : “E’ UNA PAZZA”. E LEI REPLICA: “NON SONO LA SUA SERVA”

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

LA PARLAMENTARE REPUBBLICANA: “ATTACCA ME PER INTIMORIRE TUTTI GLI ALTRI”

«Ritiro il mio sostegno alla deputata Marjorie Taylor Greene. La pazza Maggie non fa altro che LAMENTARSI, LAMENTARSI, LAMENTARSI». Poche parole su Truth bastano a Donald Trump per scaricare la repubblicana Maga che gli è sempre stata vicinissima. E che invece adesso lo sta mettendo in croce per il caso Epstein. La “pazza Maggie” replica a stretto giro di posta: «Attacca me per dare un esempio e spaventare tutti gli altri repubblicani prima del voto sui documenti di Epstein. È sorprendente quanto si stia battendo per fermare» la pubblicazione delle carte relative all’ex finanziere morto suicida in carcere, ha aggiunto la deputata. «Ho sostenuto Trump con molto del mio prezioso tempo e i miei soldi, e ho combattuto per lui quasi tutti gli altri repubblicani gli avevano girato le spalle. Ma io non servo Trump», ha concluso.
La rabbia dei Maga contro Trump
La posizione ha suscitato rabbia nel movimento Maga. Il presidente ha chiamato Marjorie Taylor Green “Crazy Maggie”. Tornando a definire una bufala le notizie sui suoi legami con Epstein. La Camera dei Rappresentanti dovrebbe esaminare la prossima settimana un disegno di legge che costringerebbe il Dipartimento di Giustizia a pubblicare i file e la stampa americana si aspetta che molti Repubblicani votino a favore. «Vi imploriamo di farlo», hanno scritto le vittime di Jeffrey Epstein in una lettera al Congresso degli Stati Uniti ottenuta dall’Afp. Il caso Epstein è stato riacceso questa settimana dalla pubblicazione di email del finanziere newyorkese. Trump «sapeva delle ragazze» che erano state aggredite sessualmente. E ha persino «trascorso diverse ore» con una di loro, secondo le email degli Epstein files.
Chi è Marjorie Taylor Greene
Marjorie Taylor Greene ha vinto nel 2020 per la prima volta un seggio repubblicano in Georgia. All’epoca divenne famosa per lo
spot con le armi puntate e per il fatto che parlava esplicitamente di Qanon durante la campagna elettorale. Nell’aprile 2025 ha esultato per la morte di Papa Francesco, sostenendo che così sarebbero cambiati gli equilibri mondiali. Prima ancora aveva litigato con una giornalista di Sky e l’aveva invitata a tornarsene nel Regno Unito.
Gli Epstein files e Ghislaine Maxwell
Con la sua complice Ghislaine Maxwell che fungeva da reclutatrice, Epstein portava ragazze minorenni nelle sue residenze, in particolare a New York e in Florida, per aggredirle sessualmente con il pretesto di fare massaggi. È morto in carcere nel 2019 prima del processo, suicidandosi secondo le autorità. Maxwell sta scontando una pena detentiva di 20 anni per traffico sessuale.
(da agenzie)

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RICCHEZZA DELLE REGIONI: CHI E’ SALITO E CHI E’ RETROCESSO

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

IL NORD-EST HA SUPERATO L’OVEST, IL LAZIO E’ SALITO, LA CAMPANIA E’ ARRETRATA

Nel corso degli ultimi decenni si è formata una nuova gerarchia tra le regioni italiane che ha modificato i primati di un tempo senza intaccare, tuttavia, quello delle aree settentrionali, la fluidità di quelle centrali e la grande sofferenza economica e nei servizi pubblici di quelle meridionali.
Nel Nord si è da tempo modificato il paesaggio produttivo: al triangolo industriale formato da Liguria, Piemonte e Lombardia, che aveva dominato la scena economica dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Settanta del Novecento, è subentrata un’area territoriale più ampia, basata sì sul mantenimento del ruolo centrale della Lombardia, ma che ha lasciato indietro Liguria e Piemonte e ha formato un nuovo asse con le regioni del Nord-Est (Veneto innanzitutto), asse che si è esteso in giù verso tutta l’Emilia-Romagna e in su verso l’arco alpino, con il Trentino Alto-Adige che è oggi la regione più ricca d’Italia.
Ma nel 1951 la regione italiana con il Pil più alto era la Liguria, mentre il Veneto era ultima tra quelle del Nord, indietro per ricchezza a quasi tutte quelle del Centro, in particolare alla Toscana, al Lazio e alle Marche. Tre regioni settentrionali (la Lombardia, l’Emilia-Romagna e il Veneto) rappresentano attualmente il 41% della ricchezza nazionale e contribuiscono per più della metà (il 53%) a tutte le esportazioni italiane all’estero.
Nel Centro Italia, invece, si è assistito negli ultimi decenni a una fortissima accelerazione del ruolo del Lazio, che oggi ha superato la Toscana in prosperità e crescita economica (avvicinandosi ad alcune regioni del Nord e addirittura
scavalcandole come nel caso del Piemonte e della Liguria) mentre si è avuto allo stesso tempo un forte arretramento di altri due territori, l’Umbria e le Marche. È un caso da studiare quello delle due piccole regioni centrali, indicate come le antesignane dei distretti industriali, delle virtù delle piccole imprese, della cosiddetta “Terza Italia” e trasformatesi in un lasso di tempo breve in luoghi non competitivi e di crisi di interi settori produttivi. Filippo Sbrana ha ricordato su Il Mulino che nell’indice di ricchezza di tutte le regioni europee le Marche sono arretrate di diversi posti scendendo sotto la media europea (dal 116% al 91%) mentre l’Umbria ha perso addirittura 70 posizioni crollando all’83%.
Nel Sud, la Campania che era stata per quasi 100 anni la regione con il reddito pro capite più alto del Mezzogiorno d’Italia (nel 1871, secondo le statistiche di Emanuele Felice, il suo Pil per abitante era superiore addirittura a quello della Toscana, del Veneto e dell’Emilia-Romagna) è stata scavalcata in ricchezza (o in minore povertà) dalla Basilicata, dal Molise, dall’Abruzzo e dalla Puglia. È successo, cioè, che tre delle aree interne più povere del Sud sono cresciute in Pil più della regione-leader. E la Puglia che aveva sofferto per la prevalenza dell’asse tirrenico anche nella costruzione delle principali infrastrutture di trasporti, ha superato la Campania, che si colloca stabilmente negli ultimi anni al terzultimo posto tra tutte le regioni italiane.
Insomma, dal 1970 in poi si è creata una nuova gerarchia anche all’interno delle regioni meridionali e al tempo stesso si sono consolidate alcune costanti, come l’ultimo posto della Calabria e
il penultimo della Sicilia, che in Europa si affiancano nel chiudere la graduatoria del benessere alle regioni bulgare e rumene.
La domanda da porsi è, dunque, questa: le grandi trasformazioni dell’economia italiana all’interno delle tre circoscrizioni (Nord, Centro e Sud) sono state determinate o accelerate dalla nascita delle regioni nel 1970? Il regionalismo italiano vi ha svolto una funzione decisiva o ha solo accompagnato tendenze già in atto? In verità, quando le regioni sono nate i cambiamenti economici erano già ampiamente avviati. Nel Nord veniva calando il peso del triangolo industriale e la geografia produttiva si spostava dal Nord-Ovest al Nord-Est con la prepotente risalita del Veneto e dell’Emilia-Romagna e con l’affermarsi consistente delle tre regioni a Statuto speciale del settentrione. È indubbio che le regioni hanno accompagnato questa trasformazione, ma sicuramente non l’hanno provocata.
Nel Sud la Campania a fine Novecento ha perso il suo primato storico ed è stata superata dalle regioni appenniniche, le aree interne sono cresciute più di quelle costiere mentre il lato adriatico meridionale ha cominciato a espandersi più di quello tirrenico. Se il regionalismo ha avuto un peso in questo cambio di gerarchie, sicuramente ciò vale per le regioni meno abitate e non per quelle più popolate. Nel Centro, invece, si è assistito prima a una forte risalita di Marche e Umbria e poi a un crollo verticale che ha portato nel giro di un ventennio questi due territori ad allontanarsi non solo dai primati di quelli del Nord ma anche dalla Toscana e dal Lazio, avvicinandosi all’Abruzzo
per reddito e per produzione di ricchezza. Il regionalismo, qui, sembra avere avuto due esiti diversi nel giro di poco tempo: uno positivo dal 1970 in avanti e uno negativo in seguito, non in grado, cioè, di arrestarne la crisi avviatasi dal 2000 in poi.
Nel Sud, certo, il regionalismo ha dato vita sicuramente a qualche interessante performance in Basilicata e nelle aree interne, ma anche a tale proposito bisogna verificare se non sia stato più decisivo l’insediamento a Melfi della Fiat o la scoperta del petrolio in Val d’Agri (la Basilicata è oggi la principale regione petrolifera d’Italia). Per l’Abruzzo è da valutare il ruolo degli insediamenti industriali degli anni Ottanta e la vicinanza geografica con le aree del Centro-Nord rispetto a un ipotetico ruolo propulsivo dell’ente regionale.
La situazione delle regioni a statuto speciale è ancora più emblematica a riguardo. Delle cinque esistenti (Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Friuli Venezia-Giulia, Sicilia e Sardegna) le prime tre si collocano oggi tra quelle italiane ed europee a più alto reddito, le ultime due tra quelle a più basso sviluppo. Tra le due grandi isole, la Sardegna è meglio collocata della Sicilia, ma entrambe non riescono a tirarsi fuori da indici economici di arretratezza nonostante siano regioni a statuto speciale.
In conclusione, i dati che sono qui riportati sembrano escludere un ruolo dell’istituto regionale nella trasformazione dell’economia italiana, dimostrando che una maggiore autonomia istituzionale non incide necessariamente in maniera positiva sullo sviluppo economico di una regione, a meno che la stessa non faccia parte di una grande area di scambi, di industrie,
di servizi, di influenze reciproche. Insomma, le regioni sembrano aver accompagnato tendenze economiche in atto e indipendenti dalle proprie capacità, ma non di averle create. Nel Nord ciò è evidente. Nel Centro l’avanzata del Lazio non ha niente a che fare con il regionalismo, ma con il ruolo sempre più centrale che occupano le città capitali delle nazioni in Europa e nel mondo. Nel Sud le regioni più piccole hanno ottenuto risultati migliori di quelle più grandi, ma in ogni caso nessuna delle otto regioni meridionali ha superato dal 1970 in poi una di quelle centrali né tantomeno una di quelle settentrionali. La crescita economica non sembra avere a che fare con il ruolo delle istituzioni regionali
(da Il Fatto Quotidiano)

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TUTTI I RISCHI PER LA DEMOCRAZIA

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

LO SCRITTORE MCEWAN: “SIAMO IN UN MONDO IN CUI L’AUTORITARISMO STA SCADENDO NELLA DITTATURA”

Gli scrittori lo sanno dire meglio. Meglio dei politici, degli storici, dei filosofi. Ian McEwan ci regala una credibile e terribile profezia sul mondo che verrà, o che forse sta già venendo sotto i nostri occhi distratti. Non solo o non tanto l’Apocalisse bellica e climatica: il tema è oggi l’usura e domani l’abiura delle democrazie liberali. McEwan ci sbatte in faccia le prove della nostra involuzione morale, culturale, istituzionale: “Siamo in un mondo in cui l’autoritarismo sta scadendo nella dittatura: si moltiplicano i governi autoritari e populisti, dalla Russia agli Stati Uniti”. E infine: “In Europa dell’Est stanno crescendo i nazionalismi di destra, molto spesso infatuati di Putin, ma anche in Germania e in Francia, mentre in Gran Bretagna abbiamo Farage e in Italia avete questi proto-neofascisti pressoché al potere”. Il coraggio di chiamare le cose col loro vero nome: è questo che spesso ci manca, arresi come siamo al conformismo delle masse indifferenti e al sovversivismo delle classi dirigenti. La “verticale del potere” non è più l’ossessione esclusiva dell’Uomo del Cremlino, come ce l’hanno spiegata Masha Gessen e Michel Eltchaninoff: il
dispositivo del comando, col quale l’eletto dal popolo valica i limiti costituzionali e piccona i contro-poteri istituzionali, è patrimonio comune all’intera Internazionale Sovranista codificata da Steve Bannon, principe delle tenebre trumpiane come Dick Cheney lo fu di quelle bushiane. È “l’ora dei predatori” descritti da Giuliano Da Empoli: politici spregiudicati e ibridati dai titani digitali che entropizzano il caos e, se ne hanno i mezzi, lo riversano fuori dai loro confini.
Tutti evocano il nuovo “patriottismo”, dove la grandezza della “Nazione” è proporzionale alla paura che ispira. Tutti cavalcano la Rete, falsa agorà dove si costruiscono senso comune e consenso, dove lo scemo del villaggio diventa autorevole quanto il premio Nobel come insegnava Umberto Eco, dove gli autocrati possono spacciare le loro “verità alternative” a community scientemente addestrate a un analfabetismo funzionale coerente con lo spirito del tempo. Vecchie élite e vecchie regole non contano più niente: valgono solo la forza e l’azione, meglio se esemplare. Contro l’Ucraina e contro la Palestina, contro l’Onu e contro la Ue, contro le Corti internazionali e le Corti costituzionali. Chi oggi, tra le macerie dell’Occidente, osa considerare pericolose e magari “tecnicamente eversive” le destre al comando, subisce lo stigma. McEwan si può permettere di definire i patrioti francesi e tedeschi, inglesi e italiani, “proto-fascisti al potere”. Sono licenze lessicali e valoriali che solo gli intellettuali si possono prendere (e neanche a tutti: pensate al trattamento subito qui da Scurati e Canfora). Senza cadere nella trappola ordita da chi aspetta solo di tirar fuori dagli armadi lo
scheletro pasoliniano del “fascismo degli antifascisti”, è forse il momento di dare anche noi un nome alle cose. Non mi riferisco agli episodi “minori”, che poi così minori non sono perché contribuiscono al graduale scivolamento della democrazia sul piano inclinato della manipolazione ideologica e della degenerazione politica. Vedi l’inno al Duce dei giovani camerati di Parma, di fronte ai quali il presidente del Senato ha l’impudenza di citare il modello Almirante – già capo dei picchiatori neri nei cortei e nelle università – che a quanto pare nel 1979 gli insegnò che “la reazione a questo antifascismo violento o di maniera non può essere il folklore neofascista”. Vedi Vannacci che vaneggia della marcia su Roma come banale “manifestazione di piazza” o delle leggi razziali del 1938 “regolarmente approvate dal Parlamento”. Parliamo invece dell’attacco sistematico a tutti i contro-poteri. Anche qui, America docet: Trump esige l’immunità dalla Corte Suprema, accusa le Corti federali che disapplicano i suoi ordini esecutivi, intimidisce la Corte del Commercio che boccia i suoi dazi, ignora la Corte penale internazionale, mentre fa licenziare anchorman televisivi, caccia dai briefing i giornalisti sgraditi, chiede 15 miliardi di danni al New York Times. Nel Belpaese il governo Meloni fa a suo modo lo stesso: attacca i tribunali che “intralciano l’operazione Albania” e la Corte dei conti che blocca il Ponte sullo Stretto, bastona le procure che “invadono il campo della politica” sui grattacieli a Milano, sulla sicurezza nelle città, sull’Ilva a Taranto, e nel frattempo occupa la Rai, ordina ai suoi maggiordomi in servizio permanente effettivo
presso il Garante della Privacy una multa folle a Ranucci, ignora le domande dei giornalisti, insulta l’Istat che la “massacra” e la Cgil che sciopera. È compatibile tutto questo, con una buona democrazia? Ma parliamo soprattutto dell’umiliazione del Parlamento e della manomissione del patto costituzionale, che passa dall’elezione diretta del premier (quando sarà) e dalla separazione delle carriere tra giudici e pm (che già è). Il movente della riforma della giustizia è ormai noto: previa adeguata delegittimazione delle “toghe rosse”, come nella Belle époque berlusconiana si tratta solo di proteggere la politica dalle inchieste. L’ha annunciato Nordio, l’ha confermato Mantovano. Per varare quel testo – che modifica in maniera strutturale i rapporti tra potere esecutivo e potere giudiziario – sono bastate 98 ore di dibattito parlamentare, cioè poco meno di 4 giorni: per approvare un qualunque disegno di legge ordinario ce ne vogliono in media 181. Già questa è una scandalosa sottrazione di potestà delle Camere, ridotte a votificio anche quando sono in gioco le regole di funzionamento della Repubblica.
Come si può negare che questa “spallata” al sistema, per forma e sostanza, indebolisce due volte la democrazia? E come si fa a tacere e a non fissare argini a queste derive autocratiche, che ormai ci riguardano tutti? Il 9 novembre, in Germania, ricorrono tre anniversari: la fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918, la notte dei cristalli nel 1938 e la caduta del Muro nel 1989. Il presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, li ha celebrati con un discorso di rara potenza. La democrazia liberale è sotto pressione, ha detto. Populisti ed estremisti deridono le
istituzioni democratiche, avvelenano i nostri dibattiti, traggono profitto dalla paura. È il momento di affrontare il pericolo a testa alta: mai nella Storia “la democrazia e la libertà sono state così sotto attacco, minacciate da forze di estrema destra” che stanno guadagnando sostegno tra la popolazione. “Non si può aspettare che la tempesta passi: dobbiamo agire”. Possiamo difenderci – ha ribadito – ma serve l’impegno di tutti, perché la democrazia è fatica e pazienza: “Lo stato di diritto è fondamentale, e non è un caso che gli attacchi alla democrazia spesso inizino con attacchi alla magistratura”. Poi, ancora più esplicito: “Ecco perché è fondamentale intervenire con decisione e unità non appena l’indipendenza e la legittimità dei magistrati vengono messe in discussione”. Ma una frase mi ha colpito più di tutte: “Basta uno sguardo ad alcuni paesi vicini, per rendersene conto…”. Oltre alla Polonia e all’Ungheria, a chi volete che si riferisca il “temerario” Steinmeier? Le regressioni democratiche ci riguardano. Chi le nega, fingendo di non vederle, ne diventa complice.
(da repubblica.it)

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LA CULTURA E’ DEI COLTI

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

I SOVRANISTI SI SENTONO ESTRANEI AL MONDO DELLA CULTURA E SI VENDICANO TAGLIANDO AIUTI

Nella discussa vicenda dei tagli al cinema decisi dal ministro della Cultura (e anche del cinema) Giuli, l’aspetto deprimente è la prevedibilità. Vecchia storia: poiché la destra si sente discriminata nel mondo della cultura e dell’arte, si vendica
usando il potere politico come strumento di rappresaglia. Tal quale il rozzo Trump, che taglia i fondi alle università perché non gli sono fedeli (ovvero: perché fanno il loro mestiere, che non è ossequiare il potere politico).
È uno schemino risaputo e neppure troppo dissimulato. Ma, come tutti gli schemini, è una lettura sicuramente non abbastanza fedele alla realtà delle cose.
Molte possibili varianti, e sfumature, avrebbero bisogno di essere messe in luce: ma non sarà possibile farlo fino a che qualcosa, o qualcuno, non metterà in discussione il presupposto stesso di questo stupido gioco delle parti. E il presupposto è che per farsi largo in campo culturale e artistico sia obbligatorio essere di sinistra (e viceversa: che la destra sia, intellettualmente parlando, rappresentata da Briatore).
Non è vero che la cultura — e l’arte, il cinema, il teatro — siano “di sinistra” per partito preso. È una fola messa in giro da mediocri, incapaci di attribuire alla propria mediocrità lo scarso successo. Ma fino a che lo diciamo noi di sinistra, che non è vero, non vale: non fa che confermare lo schemino di cui sopra. Si attende, dunque, uno di destra che finalmente dica: piantiamola con questa storia, la cultura è di tutti, e soprattutto la cultura è dei colti. Di chi legge, pensa, studia. Uno che potrebbe finalmente dirlo, per esempio, è proprio il ministro Giuli. Lo spieghi ai suoi, che la cultura è una fatica aperta a tutti. La facciano, una buona volta, questa fatica. Troppo facile piantare le tende alla Rai. Poi bisogna farla, la Rai.
(da repubblica.it)

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ALLARME CONFCOMMERCIO: “SCOMPARSI 140.000 NEGOZI IN 12 ANNI, UNO SU CINQUE A RISCHIO DA QUI A DIECI ANNI”

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

LO STUDIO DELL’ASSOCIAZIONE: SCOMPARSE 118.000 IMPRESE AL DETTAGLIO E 23.000 AMBULANTI… PIU’ A RISCHIO LE CITTA’ DEL CENTRO-NORD

Negli ultimi dodici anni l’Italia ha registrato una riduzione di oltre 140mila attività di commercio al dettaglio, tra negozi e attività ambulanti, con cali particolarmente accentuati nei centri storici e nei piccoli comuni. Un trend che, senza nuove ed
efficaci politiche di rigenerazione urbana e senza interventi per riutilizzare gli oltre 105mila negozi sfitti (un quarto dei quali da oltre un anno), è destinato ad aggravarsi ulteriormente con il rischio di perdere, da qui al 2035, altre 114mila imprese al dettaglio, in pratica un negozio su 5. A lanciare l’allarme è uno studio di Confcommercio.
In dettaglio nel 2024 si contano in Italia oltre 534mila imprese del commercio al dettaglio, di cui circa 434mila in sede fissa, quasi 71mila ambulanti e 30mila appartenenti ad altre forme di commercio (internet, vendita per corrispondenza, etc.).
Benzinai e cultura in ritirata
Il confronto con il 2012 evidenzia la scomparsa di quasi 118mila imprese del commercio al dettaglio in sede fissa e di circa 23mila attività ambulanti, per una riduzione totale di oltre 140mila unità, risultato di un eccesso di chiusure rispetto alle aperture. Nello stesso periodo le imprese attive operanti prevalentemente su internet o nella vendita per corrispondenza sono aumentate di oltre 16mila unità (+114,9%).
Per quanto riguarda il commercio al dettaglio in sede fissa, le contrazioni più rilevanti si registrano nei seguenti comparti: distributori di carburante (-42,2%), articoli culturali e ricreativi (-34,5%), commercio non specializzato ( 34,2%), mobili e ferramenta (-26,7%), abbigliamento e calzature ( 25%).
Alberghi giù, B&B su
Diverso risulta l’andamento dei servizi di alloggio e ristorazione, che nel 2024 contano quasi 337mila imprese, registrando un incremento del 5,8% rispetto al 2012, pari a circa 18mila unità. Il
comparto della ristorazione mostra una crescita significativa (+17,1%).
Per quanto riguarda l’alloggio, si osserva una contrazione degli alberghi tradizionali (-9,5%), a fronte di una crescita molto sostenuta delle altre forme ricettive (B&B, affittacamere, case vacanza), aumentate del 92,1% tra il 2012 e il 2024.
Secondo lo studio di Confcommercio, i comuni medio-grandi del Centro-Nord sono quelli più esposti, mentre per alcune città medio-grandi del Mezzogiorno il calo medio sarà più contenuto, ma legato anche alla riduzione di popolazione per l’emigrazione verso il Nord di persone in cerca di migliori opportunità occupazionali e alla minore propensione agli acquisti online.
In assenza di interventi, città come Ancona (-38,3%), Trieste (-31,1%) e Ravenna (-30,9%) rischiano di perdere circa un terzo ed oltre delle proprie attività di vicinato, con gravi effetti sulla vitalità dei quartieri e sulla qualità dei servizi per i residenti.
Oltre centomila negozi sfitti
Si stima che i negozi sfitti in Italia siano, al 2025, circa 105 mila unità (un quarto dei quali da oltre un anno).
Confcommercio dedicherà al tema una due giorni a Bologna “inCittà – Spazi che cambiano, economie urbane che crescono” il 20 e il 21 novembre durante la quale presenterà le proprie proposte: A livello nazionale, si chiede di garantire un coordinamento stabile delle politiche urbane e territoriali; a livello regionale, dove è fondamentale valorizzare e armonizzare l’esperienza dei Distretti Urbani dello Sviluppo Economico; a livello comunale, con la redazione di Programmi Pluriennali per
l’Economia di Prossimità, strumenti integrati per coordinare le diverse azioni di contrasto alla desertificazione commerciale.
Come fermare la desertificazione
Tra le misure più efficaci che indica l’associazione: patti locali per la riattivazione dei locali sfitti, con canoni calmierati e incentivi coordinati tra pubblico e privato; interventi di animazione urbana e accompagnamento all’avvio d’impresa, promossi da Comuni e associazioni di categoria; azioni per una logistica urbana sostenibile e integrata nei sistemi digitali; piattaforme di welfare territoriale che permettano alle imprese di erogare crediti spendibili nei negozi e servizi di prossimità; partenariati tra imprese del terziario di mercato e operatori immobiliari, per integrare nei nuovi interventi di rigenerazione urbana spazi destinati ai servizi di quartiere e alla vita comunitaria.
(da agenzie)

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CISGIORDANIA, COLONI ISRAELIANI INCENDIANO UNA MOSCHEA E LA IMBRATTANO CON INSULTI A MAOMETTO

Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile

CONTINUANO I CRIMINI DEL COLONI: QUANDO SI HA AL GOVERNO UNA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE CHE TI VUOI ASPETTARE?

Proseguono indisturbati i crimini dei coloni israeliani in Cisgiordania: l’ultimo episodio risale a ieri, quando la moschea Hajjah Hamidah, nel governatorato di Salfit, è stata incendiata e imbrattata. L’attacco, avvenuto prima delle preghiere del mattino, è stato definito dalle autorità religiose palestinesi “un crimine odioso e un affronto deliberato ai sentimenti dei musulmani”.
Secondo fonti palestinesi, i responsabili avrebbero appiccato il fuoco dall’esterno, riuscendo a bruciare anche parte dell’interno dell’edificio. Le immagini diffuse dopo l’attacco mostrano vetri infranti, detriti carbonizzati e scritte offensive in ebraico contro il Profeta Maometto. Sulle mura è comparso anche un messaggio di sfida rivolto al comandante dell’IDF in Cisgiordania, Avi Bluth, che il giorno precedente aveva condannato le violenze dei coloni.
Il sindaco di Deir Istiya, Abdul Rahim Zidan, ha confermato che non si è trattato di un incidente: “L’obiettivo era la moschea, un simbolo religioso. Volevano provocare, colpire la comunità nel suo luogo più sensibile”. L’IDF ha confermato l’incendio e ha riferito di aver inviato unità sul posto, trasferendo poi il caso alla polizia israeliana. Al momento, nessun sospetto risulta identificato.
L’incendio alla moschea arriva in un contesto di violenze in rapido aumento nei territori occupati. Organizzazioni internazionali segnalano quest’anno un’impennata di aggressioni ai luoghi sacri, alle comunità rurali e alle proprietà agricole palestinesi, con numeri che non si registravano dal 2006. La scelta di colpire un luogo di culto, sottolineano fonti palestinesi,
si inserisce nella strategia di intimidazione che nelle ultime settimane ha accompagnato anche attacchi incendiari contro campi, fabbriche e comunità beduine della regione.
Il Ministero degli Esteri palestinese ha addossato la responsabilità politica dell’accaduto al governo israeliano, accusato di non intervenire per frenare la violenza dei coloni. La comunità locale, intanto, teme che l’incendio della moschea rappresenti solo un ulteriore passo verso una spirale di provocazioni.
(da agenzie)

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