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LE ELEZIONI IN CAMPANIA E LA PIU’ BERLUSCONIANA DELLE PROMESSE: IL CONDONO EDILIZIO

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

IL CENTRODESTRA ORMAI E’ UN DISCO ROTTO E PREMIA L’ILLEGALITA’

Il condono edilizio (o la riapertura dei termini di un condono) è quella che definiremmo nel wrestling una signature move, un tratto distintivo delle campagne elettorali di Silvio Berlusconi, in special modo quelle regionali in Campania. Il motivo è semplice: la Campania ha storicamente evaso pochissime domande di sanatoria e altrettanto poche sono le procedure di abbattimento – denuncia Legambiente – portate poi alla conclusione, ovvero alla demolizione dei manufatti abusivi, dei cosiddetti “mostri di cemento”. Palazzine, balconi, sottotetti, piani aggiuntivi, masserie diventate ristoranti, vecchie casette diventate palazzine a picco sul mare.
La cintura a Nord di Napoli, l’hinterland dei paesoni cresciuti a dismisura dal post terremoto 1980 (parliamo di 45 anno fa) senza piano regolatore, a suon di leggi speciali per l’edilizia popolare e di casermoni, ma anche le aree più belle della Campania felix, ovvero la linea di costa che parte dall’area Vesuviana e corre giù, fino alla Costiera Sorrentina, a quella Amalfitana e Cilentana e ancora, la pianura di Terra di lavoro, nel Casertano: ad ogni città il suo abuso edilizio, la sua battaglia ambientalista irrisolta.
Al tempo stesso tantissime piccole e medie situazioni di sanatoria possibile ma “inceppate” da comuni e normative locali farraginose, con pratiche ferme a volte nonostante i proprietari degli immobili abbiano già versato l’oblazione (ovvero quell’atto che permette di estinguere il reato di abuso edilizio, ove possibile).
In questo segmento di scontento e richiesta si infilò Berlusconi col centrodestra promettendo un condono e ricavandone, inevitabilmente, consenso. Con la discesa in campo del Cavaliere un condono sulle case abusive nel 1994, primo
governo Berlusconi, fu subito attuato e fruttò 4.836 miliardi di lire (circa 2,5 miliardi di euro).
Una seconda sanatoria, con limiti più stringenti, era stata poi messa in campo nel 2003, con l’adesione di molti cittadini ed un gettito preventivato di 3,1 miliardi. In quel secondo caso la Campania disse no alla sanatoria del centrodestra. All’epoca il presidente della giunta regionale era Antonio Bassolino: fece ricorso alla Corte costituzionale contro il provvedimento del Governo e approvò una delibera che dichiara inammissibile su tutto il territorio campano gli effetti del decreto legge sulla sanatoria e un disegno di legge nel quale si dichiarava inattuabile in futuro la misura del condono edilizio sul territorio regionale.
Arriviamo a oggi, 2025, ventidue anni dopo quel condono che la Campania non fece: siamo nel pieno di una campagna elettorale per le Regionali con sondaggi elettorali piuttosto definiti e decisamente in salita per il centrodestra ma con una battaglia interna per quale tra Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega sarà il primo partito qui in Campania, a prescindere dal risultato finale.
L’intenzione, dichiarata esplicitamente da FdI, è quella di procedere al condono edilizio, con la presentazione di un emendamento in manovra di bilancio che riapre i termini della sanatoria del 2003 e quindi riguarderebbe sì tutto il territorio nazionale ma ovviamente soprattutto la Campania. Una iniziativa che però vale l’accusa da parte dell’opposizione di voler «comprare voti» in campagna elettorale.
«Migliaia di case saranno salvate dall’abbattimento» promette il senatore di FdI Antonio Iannone. Anche se – spiegano dal centrodestra – spetterà anche questa volta alle Regioni recepire le norme e definirne il perimetro. Edmondo Cirielli, viceministro e candidato governatore in Campania, sposa l’iniziativa: «Rappresenta un atto di giustizia atteso da migliaia di famiglie campane costrette a realizzare case per necessità abitativa, non per abusivismo selvaggio. Con me presidente, la Campania sarà la prima a recepirla: non possiamo perdere altro tempo».
Se Fratelli d’Italia va veloce su questo fronte, stavolta è proprio Forza Italia che frena: il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani è cauto: «Per alcune case si può pensare a un condono, per altre, quelle che sono pericolanti e dove c’è un pericolo per i cittadini, no. Quindi la questione va affrontata caso per caso, bisogna vedere quali possono essere sanate e quali no».

(da Fanpage)

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IL TRUMP DI SANTIAGO O LA MINISTRA COMUNISTA? IL CILE AL BIVIO

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

COSI’ LE GANG CRIMI
NALI POSSONO SPIANARE LA STRADA AL TRUMPIANO KAST

Oggi il primo turno delle presidenziali: il leader di destra potrebbe andare al ballottaggio contro Jeannette Jara.
Cosa propongono e cosa dicono i sondaggi
Quattro anni dopo la grande onda di sinistra che ha portato al potere l’allora 35enne Gabriel Boric il Cile lo punirà eleggendo a suo successore un Donald Trump in salsa sudamericana?
È quello che prefigurano molti sondaggi in vista del voto che si apre oggi. Domenica 16 novembre si svolgono le elezioni per il rinnovo del Congresso (Parlamento) di Santiago, e soprattutto il primo turno delle presidenziali, cui Boric non può ricandidarsi. Se, come probabile, nessuno dei candidati raccoglierà subito la maggioranza assoluta dei voti, la corsa si deciderà al ballottaggio tra un mese, il 14 dicembre.
E per la sinistra – anzi, le sinistre – del Paese quel giorno potrebbe arrivare una delusione cocente. Perché tutti i sondaggi danno in vantaggio al primo turno la candidata del fronte progressista, la ministra del Lavoro uscente del Partito comunista Jeannette Jara. Ma al secondo turno dei quattro diversi candidati di destra ne avanzerà solo uno, e la somma dei voti che questi riuscirà a coagulare potrebbe rivelarsi vincente.
Molti indizi fanno pensare che costui sarà José Antonio Kast, il fondatore del Partito repubblicano già candidatosi due volte (senza successo) alla guida del Paese e che non fa mistero di voler importare in Cile il modello applicato da Trump in Nordamerica. Anche perché nel frattempo le priorità dei cittadini sono cambiate.
La stella cadente di Boric
Già leader studentesco, Gabriel Boric vinse nel dicembre 2021 sull’onda del cosiddetto Estallido Social, la serie dirompente di
manifestazioni contro il carovita, la corruzione e le politiche liberiste che elettrizzò il Cile tra il 2019 e il 2020. Il governo dell’allora presidente Sebastián Piñera (morto lo scorso anno in un incidente d’elicottero) rispose con durezza, e nella repressione di polizia morirono 36 persone. Poi però Piñera cambiò strategia e accettò di fare un passo in avanti verso i contestatori avviando un processo di riforma della Costituzione, ferma ai tempi della feroce dittatura di Augusto Pinochet (1974-1990).
Boric trionfò alle elezioni di fine 2021, battendo Kast al ballottaggio (55,9% contro 44,1%) e portando nella «stanza dei bottoni» del Paese l’agenda sociale al cuore delle proteste: lotta alla corruzione, riforma delle pensioni, condizioni più degne per le popolazioni indigene, più fondi per garantire educazione e salute di qualità alle fasce più povere. Ciliegina sulla torta, appunto, una nuova Costituzione degna del «nuovo» Cile democratico.
Il bilancio della presidenza
Quattro anni dopo, il bilancio per Boric è magro. Le grande riforme, complice un Parlamento frammentato, non sono mai decollate – anche se i fondamentali socio-economici del Paese sono migliorati: crescita stabilmente sopra al 2%, inflazione giù dal 12,8% nel 2022 al 4,5% nel 2024, tasso di disoccupazione ridotto all’8,6%, salario minimo aumentato del 51%. E il processo di riforma della Costituzione è clamorosamente fallito: due diverse bozze elaborate da convenzioni costituenti e sottoposte a referendum a settembre 2022 e dicembre 2023 sono
state entrambe bocciate. La disillusione collettiva è resa plasticamente dai numeri del (non) consenso: Boric chiude il suo mandato con un tasso di approvazione deprimente attorno al 30%, il governo a lui fedele poco di più
Criminalità e immigrazione, così le gang scuotono il Cile
Dai sondaggi degli ultimi mesi emerge pure un altro dato fondamentale che spiega in buona parte il precedente: le priorità dei clieni sono cambiate. Se quattro anni fa molta dell’attenzione era sui temi sociali e del costo della vita, ora a la preoccupazione numero 1 dei cittadini è di gran lunga la criminalità (63%). Il Cile, ricorda Reuters, resta in realtà uno dei Paesi più sicuri dell’America latina, però negli ultimi anni il Paese è stato travolto da fenomeni prima sconosciuti o quasi.
Il tasso di omicidi è più che raddoppiato tra il 2015 e il 2024 (da 2,32 a 6 ogni 100mila abitanti), i rapimenti si contano a centinaia, così come le sparatorie e esecuzioni in pieno giorno, magari per mano di temibili sicari – specialmente in alcune zone del Paese. Nel frattempo è esploso il flusso migratorio di venezuelani dal confine nord – da meno di 83mila nel 2017 a quasi 670mila nel 2024 secondo dati ufficiali. Il trait d’union tra i due fenomeni nuovi e scioccanti per i cileni secondo molti sta nel ruolo giocato da gang criminali straniere come la famigerata Tren de Aragua, che traffica sempre più anche in Cile con migranti, appunto, e droga. Terrorizzando le popolazioni delle zone interessate pure con estorsioni, sequestri, rapine, violenze e intimidazioni. Inevitabile, come altrove nel mondo, che su preoccupazioni del genere la destra prosperi, e la sinistra vada in
difficoltà.
L’opzione comunista
Jeannette Jara, 51 anni, ministra uscente del Lavoro e delle politiche sociali, è partita prima di tutti nella corsa alla successione di Boric perché ha vinto le primarie che il fronte progressista cileno ha tenuto a fine giugno. Militante nel partito comunista cileno sin dall’adolescenza, ha provato a rilanciare il messaggio sociale che scosse il Paese negli scorsi anni. «Sono stata una bambina proveniente da un contesto povero. Voglio dire a tutte le bambine che mi stanno guardando oggi in televisione: non permettete a nessuno di dirvi che i vostri sogni sono impossibili», ha detto la sera della vittoria alle primarie.
Oltre a promettere di aumentare cose come il salario minimo e i diritti dei lavoratori, ha messo l’accento però anche sul tema della sicurezza, impegnandosi a costruire nuove prigioni, modernizzare la polizia e abolire le norme sul segreto bancario che agevolerebbero il business delle gang criminali. La proposta politica il suo appeal ce l’ha eccome. Nei sondaggi è data in testa al primo turno delle presidenziali, con numeri che oscillano tra il 26 e il 30%. Lungi dalla maggioranza assoluta, Jara al secondo turno dovrà vedersela con uno sfidante di destra. Chi? Ai blocchi di partenza se ne presentano quattro, ma i due più accreditati sono José Antonio Kast e Evelyn Matthei.
La battaglia della vita di Kast
Avvocato, 59 anni, Kast è figlio di un tenente dell’esercito tedesco di Adolf Hitler fuggito in Cile dopo la guerra. Entrato in Parlamento per la prima volta nel 2002, da anni ormai prova a
intercettare l’onda nazional-populista di successo in tanti altri Paesi del mondo, compresi alcuni del Sudamerica. I due primi tentativi di arrivare alla presidenza del Cile gli sono andati male, però. Anche per questo, forse, nel 2025 ha abbandonato temi cavalcati in precedenti campagne come gli attacchi all’aborto o ai matrimoni omosessuali, per concentrarsi praticamente solo sulla sfida della sicurezza.
Propone di chiudere i confini del Cile, mandare l’esercito nelle zone più colpite dalla criminalità, alzare le pene per i membri delle gang e costruire prigioni di massima sicurezza. Legge e ordine, insomma – alla stregua di Trump negli Usa o di Nayib Bukele a El Salvador.
Affollamento a destra
Evelyn Matthei prova a contendergli la “fiche” per arrivare al ballottaggio presentandosi come leader di centrodestra più moderata e facendo leva sulla sua esperienza di governo – è già stata oltre che deputata sindaca e ministra. Anche lei tra le “esperienze” nel cv ha però quella di un’elezione presidenziale già persa, quella del 2013 contro Michelle Bachelet. Partita davanti, Matthei s’è vista superare a destra da Kast. Il leader di estrema destra, forte di una campagna studiata per molti versi su quella del presidente Usa, oscilla negli ultimi sondaggi tra il 22 e il 27% al primo turno, abbastanza per consentirgli di arrivare al ballottaggio e giocarsela contro Jara. A quel punto dovrà «solo» riuscire a raccogliere il consenso calamitato al primo turno dagli altri candidati di destra: Matthei, ma pure l’altro populista libertario Johannes Kasier e l’economista Franco Parisi.
Le proiezioni dei sondaggisti dicono che Kast ha buone chances di farcela e diventare così il prossimo presidente del Cile. Magari sventolando lo spettro del pericolo alternativo di una presidente comunista, che governerebbe in totale continuità con lo screditato Boric. Trump, nel dubbio, inizierà ad appuntarsi il suo numero di telefono.
(da agenzie)

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MITRAGLIATRICI, AFFARI E POLITICA: LE OMBRE SUI CANTIERI NAVALI

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

RANUCCI SVELA IL TENTATIVO DI AFFIDARE L’AZIENDA CANTIERE VITTORIA A UN IMPRENDITORE LEGATO A CASAPOUND… IL RUOLO DI UN MELONIANI DI FERRO E IL RITROVAMENTO DI UNA CASSA DI ARMI DA GUERRA

Report manderà in onda un’inchiesta per raccontare il tentativo di affidare Cantiere Navale Vittoria a un imprenditore legato in passato a Casapound e alla Fiamma Tricolore, amico di un fedelissimo del senatore di Fratelli d’Italia, Luca De Carlo,
l’uomo di Meloni in Veneto.
La scoperta di due fucili mitragliatori, i sogni di espansione imprenditoriale di un ex di Casapound sponsorizzato da un esponente di Fratelli D’Italia e, sullo sfondo, i finanziamenti alla politica. C’è tutto questo dietro la crisi e il nuovo assetto di Cantiere Navale Vittoria di Adria, un’azienda strategica, sottoposta al controllo del governo perché tra le poche società italiane in grado di costruire motovedette, imbarcazioni militari utilizzate per il controllo e pattugliamento dei mari.
È Report, in un lavoro firmato da Daniele Autieri, a mettere in fila ombre, interessi e protagonisti del crollo e poi della rinascita della società. Il conflitto in Ucraina, i nuovi assetti di mercato hanno spinto nel 2023, dopo 100 anni sotto il controllo della famiglia Duò, la società in una crisi profonda. Crisi che ha attirato le attenzioni di diversi gruppi d’interesse che volevano mettere le mani sul cantiere che ha venduto e realizzato, negli anni, imbarcazioni ai paesi del nord-Africa, ma anche alla nostra guardia di Finanza.
Dopo l’avvio della procedura di concordato preventivo l’azienda è finita nelle mani di un imprenditore del territorio: Alberto Cavazzana, un geologo che ha fatto la sua fortuna nel mondo dell’edilizia. L’operazione di acquisto è stata approvata non solo dalla maggioranza dei creditori, ma ha avuto il via libera anche dal governo italiano. Così dal febbraio scorso è nelle sue mani.
I mitragliatori
Le due proprietà e il passaggio storico raccontano il ruolo di personaggi di spicco del panorama politico italiano a partire da
Fabio Pinelli, oggi numero due del Consiglio superiore della magistratura, che è stato consulente della società durante la gestione della famiglia Duò. Ma guidava anche l’organismo di vigilanza del Cantiere Vittoria, l’istituto incaricato di verificare la correttezza degli appalti e la trasparenza dei fornitori, insieme all’ex-colonnello della Guardia di Finanza Silvio Montonati.
Proprio in quel periodo Paolo Duò, allora presidente del Cantiere Vittoria, «per finanziare la costruzione delle imbarcazioni per l’Oman, dichiara di non commerciare in armi all’interno di un contratto bancario del 12 marzo del 2020 che gli permette così di ottenere un finanziamento garantito da fondi europei e Cassa Depositi e Prestiti», ricostruisce la trasmissione di Sigfrido Ranucci.
Pinelli ha chiarito che l’organismo di vigilanza non ha potere ispettivo ma si occupa solo di controllare il modello organizzativo della struttura societaria, non era a conoscenza dell’appalto in questione e delle dichiarazioni dell’ex proprietario.
Ma all’improvviso, nell’azienda che non commerciava in armi, spuntano i due mitragliatori. E quando? Nel giorno in cui le telecamere arrivano nell’azienda, proprio quel giorno, all’interno di due cassoni di legno la scoperta inaspettata. Basta la descrizione per capirne il potenziale. Si tratta di due mitragliatori Browing M2 calibro 50 con alimentazione a maglie non disintegrabili. La loro portata effettiva è di 1.800 metri, ma la gittata massima può superare i 6 chilometri. Sono armi pesanti che generalmente vengono montate sulle imbarcazioni militari. E
così, di passaggio in passaggio, si scopre che erano destinati a essere montate su due motovedette destinate proprio all’Oman, ma sono rimaste lì. Riapparse nel giorno previsto per le interviste e le riprese. A realizzare gli scafi, da spedire in Oman, l’azienda Power Marine, fondata da Giancarlo Corbelli, ribattezzato il re dei mari, per aver costruito imbarcazioni velocissime, sia per i buoni che per i cattivi, anche trafficanti albanesi.
«I cattivi ci hanno portato un poco di problemi (indagini, ndr), poi tutte risolte. Certamente chi deve fare una rapina non andrà a comprare una Skoda», dice. Le imbarcazioni escono dalla Power Marine e tornano al Cantiere Vittoria per il montaggio dei fucili che non vengono mai montati. La nuova proprietà assicura di non essere stata avvisata dalla vecchia di quella presenza dei fucili mitragliatori e alla fine arrivano gli inquirenti per sequestrarli.
«Il ritrovamento è assai anomalo, inaspettato sicuramente, ma abbastanza inspiegabile perché comunque la detenzione illegale o illegittima di armi da guerra prevede l’arresto obbligatorio nel codice penale e quindi se fosse intervenuta una polizia giudiziaria diciamo diversa da quella che già conosceva i fatti probabilmente avrebbero dovuto procedere anche all’arresto mio e dell’altro amministratore del cantiere», dice Francesco Maria Tuccillo, socio di minoranza e amministratore delegato del cantiere navale Vittoria.
E qui arriva un altro colpo di scena, il secondo dopo l’anomalo ritrovamento di mitragliatori. Tuccillo parla, racconta e svela, ma all’indomani dell’ordigno che fa saltare in aria le auto di Ranucci
e della figlia, gli arriva il benservito.
«Mi sono visto recapitare una pec tra l’altro irrituale e quindi illegittima di revoca dalla posizione di amministratore, una cosa che non era possibile fare», racconta.
Aiutini e politica
Non poteva mancare in mezzo a questo groviglio d’interessi e misteri il ruolo della politica. Durante il passaggio di proprietà si muove Alberto Patergnani, già responsabile provinciale di Fratelli d’Italia a Rovigo, e oggi nello staff del senatore Luca De Carlo, presidente della commissione industria, e uomo forte del partito in Veneto, molto vicino a Giorgia Meloni. Patergnan ha la moglie che lavora nell’azienda. Ed è lui che ha suggerito il nome di un imprenditore interessato all’azienda. Chi è? Una vecchia conoscenza della destra di Latina, si chiama Francesco Osanna. Oggi guida una società che si occupa di consulenza aziendale anche a livello internazionale, vanta rapporti con alcune importanti realtà finanziarie di Dubai e Abu Dhabi. Il suo passato è quello di militante di Casapound e Fiamma Tricolore, la destra estrema sotto la cui bandiera si era anche candidato a sindaco della città pontina. Ma l’operazione non va in porto e i commissari puntano su altri acquirenti fino alla scelta di Cavazzana.
A completare il groviglio di nomi, interessi e affari su scala internazionale ci sono i soldi per finanziare la politica. La destinataria è Gaia Maschio, poi non eletta e oggi assessora al comune di Conegliano, che ha dichiarato in modo trasparente i soldi ricevuti. Da chi li avrebbe ricevuti? Dallo studio serbo di
Antonio Schiro, che a sua volta ha ricevuto consulenze dal Cantiere Vittoria oltre ad essere stato nominato dal tribunale come liquidatore dell’azienda in crisi. Di mestiere commercialista di Adria con interessi industriali e politici che partono dal Veneto e arrivano in Serbia. Lui spiega di essere stato l’advisor e poi il liquidatore della società, all’estero si occupa di affiancare aziende nei processi di internalizzazione. Sul finanziamento nega in modo assoluto di aver sostenuto la candidatura di una politica di Forza Italia alle elezioni regionali del 2020 per Zaia presidente. C’è la ricevuta del bonifico e la conferma di Maschio, ma il commercialista nega. Resta un mistero, come tanti in questa storia sulla quale indaga la procura di Rovigo e seguita con attenzione anche dalla direzione distrettuale antimafia di Venezia. Tra imbarcazioni, mitragliatori e affari milionari con paesi in conflitto potrebbero spuntare interessi e affari legati ai clan internazionali.
(da agenzie)

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LA GARANZIA DELL’ORDINE PUBBLICO PER 6 ITALIANI SU 10 VALE LA SCELTA DEL VOTO

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

TRA LE DONNE IL SENSO DI PAURA SALE AL 70%… BASTA ALIMENTARE LA PAURA E SI RACCOLGONO VOTI

C’è una parola che, più di altre, torna ciclicamente al centro del dibattito pubblico, attraversa le campagne elettorali, plasma i discorsi politici e penetra nel linguaggio quotidiano: sicurezza. Un termine che non è più soltanto sinonimo di ordine pubblico o controllo del territorio, ma è diventato il termometro con cui gli italiani misurano la fiducia nel presente e la speranza nel futuro.
È il tema che rassicura e spaventa allo stesso tempo, che unisce e divide, che sembra offrire risposte semplici a problemi complessi. Sarà davvero così? O la sicurezza rischia di diventare, ancora una volta, una parola svuotata, consumata dall’uso politico e dalle promesse non mantenute? Secondo i più recenti sondaggi di Only Number, il 64.4% dei cittadini dichiara di sentirsi meno sicuro rispetto a tre anni fa, una percezione che tra le donne sfiora il 70.0%. Una paura diffusa, alimentata da
cronache che mescolano violenza urbana, incertezze economiche e vulnerabilità sociale. Ed è proprio su questo terreno che trova spazio la politica, spesso pronta a trasformare l’insicurezza in strumento di consenso.
Non stupisce, allora, che il 57.6% degli italiani consideri la sicurezza un elemento decisivo nella scelta di voto, con un’incidenza ancora più alta tra gli over 65 anni, la fascia di popolazione che più si reca alle urne e più teme di perdere protezioni e punti di riferimento. Tuttavia, la sicurezza non può essere ridotta a un tema di ordine pubblico o a una semplice retorica della paura. Spesso si confonde la sicurezza con la percezione di essa influenzata da esperienze personali, informazioni, degrado urbano, presenza di conflitti sociali.
È evidente che in questo caso si rimanda il tema alla cura degli spazi, alla presenza delle istituzioni sul territorio, al dialogo, alle comunità attive. La sicurezza non è soltanto assenza di reati: è la possibilità di vivere in un ambiente che non metta a rischio la salute, la stabilità economica e la qualità della vita. Esiste una sicurezza economica, che riguarda la solidità del lavoro, la capacità di arrivare a fine mese, la fiducia nelle istituzioni fiscali e previdenziali.
C’è poi una sicurezza sociale, fatta di reti di solidarietà e di comunità che non lasciano soli i più fragili. E c’è anche una sicurezza sanitaria, che la pandemia ci ha insegnato a non dare mai per scontata: l’accesso equo alle cure, la prevenzione, la tutela di sistemi sanitari pubblici in grado di proteggere tutti. Oggi la nostra vita quotidiana si intreccia con identità digital
che alimentano nuove preoccupazioni: frodi online, violazioni dei dati personali, cyberbullismo. Anche per questo un cittadino si sente davvero sicuro quando percepisce una pubblica amministrazione vicina, efficace e trasparente. Perché la fiducia nelle istituzioni, in tutte le sue forme, è a tutti gli effetti un elemento decisivo della sicurezza.
Quando la Premier Giorgia Meloni afferma che «la difesa è sempre legittima», intercetta un sentimento diffuso di vulnerabilità personale che attraversa diversi strati della società. Tuttavia, una visione integrata della sicurezza sposta l’attenzione dal “difendersi dai pericoli” al creare le condizioni affinché quei pericoli si riducano o non si manifestino affatto, permettendo al cittadino di vivere con fiducia, benessere e libertà.
La vera sfida di una democrazia matura non è armare la paura, bensì disinnescarla, trasformando la difesa individuale in una protezione collettiva. La sicurezza, quella autentica, non nasce dall’isolamento, ma dalla fiducia reciproca. E tutto questo non è un’utopia: è un progetto possibile, che molte comunità già dimostrano di poter costruire ogni giorno. Non è solo il diritto di sentirsi al sicuro nelle proprie case, ma anche quello di vivere in un Paese che non lascia indietro nessuno — economicamente, socialmente, “sanitariamente”. Se la sicurezza è il cuore delle nostre paure, deve anche diventare il motore delle nostre responsabilità e solo una politica capace di guardare alla sicurezza a tutto tondo potrà davvero restituire agli italiani non soltanto protezione, ma anche fiducia, perché Sicurezza è il vero parametro del nostro tempo
E allora la domanda resta aperta: saranno davvero in grado i partiti e i loro rappresentanti di comprenderne a fondo tutte le sfumature, tutte le leve, tutti i significati? O anche questa volta la sicurezza diventerà solo una parola consumata, svuotata, sfilacciata dal troppo uso e dal poco ascolto? Perché la sicurezza non si conquista gridando, ma costruendo. E se è vero che la paura divide, è altrettanto vero che la fiducia, quando diventa bene comune, può restituirci il senso profondo di saper vivere insieme.
Alessandra Ghisleri
(da lastampa.it)

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LA RIVELAZIONE DI REPORT: LA MILIZIA DI ALMASRI SAPEVA DEL RILASCIO DAL GIORNO PRIMA

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

L’AUDIO DI UN UOMO VICINO AL GRUPPO: “LO LIBERANO, IL PADRE DEL GENERALE HA LEGAMI CON ENI”

C’è una registrazione in cui un membro di un movimento libico vicino alla milizia Rada, di cui è capo Osama Almasri, tranquillizza i miliziani del sicuro rilascio del loro capo, arrestato in Italia su mandato della Corte penale internazionale (Cpp) e poi riportato nel suo Paese con un volo di Stato.
L’ha fatta ascoltare all’inviato di Report l’attivista libico Husam El Gomati e risale al 20 gennaio scorso, cioè il giorno prima dell’udienza alla Corte d’appello di Roma che effettivamente scarcererà Almasri, sostenendo – come la Procura generale – che non si poteva tenerlo dentro senza l’atto di impulso del ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Che per questo è stato indagato per rifiuto di atti di ufficio anche se poi la Camera ha cancellato tutto negando l’autorizzazione a procedere. “Osama sta tornando a casa. Questo il giorno prima. Quando tornerà, ve lo diremo. Non fate niente. Ascoltatemi. Giuro su Dio che va tutto bene, ci stava parlando. Va tutto bene. Questo il 20, eh? Sta solo finendo alcune cose e sta tornando”, riferisce El Gumati a Luca Chianca di Report nel servizio in onda stasera.
Si fa il punto anche sulle intercettazioni con il software israeliano Graphite ai danni di giornalisti, operatori umanitari e imprenditori italiani, con il rischio che informazioni sensibili finiscano a Tel Aviv. Si ipotizzano hackeraggi illegali anche alla base dell’attentato del 16 ottobre contro Sigfrido Ranucci. E c’è poi il caso di Luca Casarini e don Mattia Ferrari della Ong Mediterranea, che parlavano anche con papa Francesco
avevano Graphite nei telefoni. Ma il pontefice, dice a Report il sottosegretario delegato ai Servizi Alfredo Mantovano, non è stato intercettato.
È chiaro che anche il libico vicino alla Rada parlava, direttamente o indirettamente, con il governo o con gli apparati italiani. Ci sono mille conferme dei rapporti dei nostri Servizi con la Rada, ora caduta in disgrazia tanto che Almasri è agli arresti dal 5 novembre per ordine della Procura generale di Tripoli sempre per le violenze sui detenuti nel carcere di Mitiga (uno è morto, secondo l’accusa) che gli contesta la Corte dell’Aja. “Il direttore dell’Aise Giovanni Caravelli il giorno stesso dell’arresto di Almasri durante la riunione con Mantovano, Piantedosi e Tajani, chiarisce che i nostri Servizi hanno una collaborazione molto proficua con la milizia Rada di Almasri e di non aver ricevuto minacce di rappresaglie contro cittadini italiani, sottolineando che la Rada collaborava anche con le forze di sicurezza che operano nell’area dello stabilimento Eni di Mellitah”, ricorda Report sulla base degli atti delle indagini del Tribunale dei ministri che aveva ipotizzato anche il favoreggiamento e il peculato (per l’aereo di Stato) coinvolgendo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e Mantovano. Ricordiamoci sempre che probabilmente non avremmo mai saputo dell’arresto di Almasri senza Nello Scavo di Avvenire.
Ora però ce n’è un’altra. Ne parla il giornalista libico Khalil Elhassi, da 10 anni a Ginevra per aver denunciato il ruolo delle milizie e i loro rapporti con il governo e i giudici libici. “Proprio
riguardo il sito Eni di Mellitah, Elhassi pubblica sui social una notizia, passata sotto silenzio, sui legami tra la famiglia Almasri e l’Eni, attraverso la società Mellitah”, informa Report. Elhassi spiega: “La società petrolifera Mellitah ha relazioni con il padre di Almasri attraverso un’azienda che si occupa di servizi logistici con cui avrebbe un contratto, questo mi è confermato da mie fonti all’interno della società Mellitah e dell’ufficio marketing della National Oil Corporation”. Il ministro Piantedosi non ne sa nulla. L’Eni nega: “Ci ha scritto sostenendo di non aver alcun rapporto con Almasri o con la sua famiglia, né economico né di altra natura”, riferisce Report. Che però ricorda: “Il ruolo dell’Eni di mantenere buoni i rapporti con i libici emerge anche nel caso della nave Asso 28, di supporto alla piattaforma petrolifera libica Sabratha. Il 30 luglio 2018, la nave salva in mare 101 migranti, ma invece di portarli in Italia, come prevede la legge, li riporta a Tripoli”. Riportare un migrante in Libia “significa esporlo alla certezza di essere torturato”, spiega Luca Masera, professore di diritto penale a Brescia.
Infine, c’è un altro dettaglio sulla richiesta di estradizione di Almasri fatta pervenire a Roma in quei convulsi giorni di gennaio nel tentativo di evitarne la consegna alla Cpp, a firma del procuratore generale libico. È una vicenda grottesca, il governo italiano la tirerà fuori solo a posteriori per difendersi dall’accusa di mancata cooperazione con la Corte, che può portare a una censura del nostro Paese all’Onu. “Almasri era a capo della polizia giudiziaria, cioè il braccio operativo della Procura Generale libica. Le milizie utilizzano il Procuratore
Generale come un loro strumento”, osserva Elhassi. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, a richiesta di un commento, è sparito. Il coraggio, se uno non ce l’ha, mica se lo può dare.
(da Il fatto Quotidiano)

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REPORT, CASO FRATELLI D’ITALIA IN VENETO: “I CLAN DIETRO I CANDIDATI”

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

UN COLLABORATORE DI GIUSTIZIA: “DUE ESPONENTI DI FDI GIA’ SOSTENUTI IN PASSATO DALLA ‘NDRANGHETA”

La ’ndrangheta in Veneto esiste. E negli scorsi anni ha votato per alcuni esponenti del centrodestra, oggi candidati alle elezioni regionali con Fratelli d’Italia. È il racconto che un collaboratore di giustizia, Domenico Mercurio, ha fatto a Report, che stasera su Rai 3 manderà in onda una lunga inchiesta di Walter Molino sulle infiltrazioni ’ndranghetiste nella politica veneta.
I punti attorno a cui si muove la puntata sono due.
Il primo riguarda David Di Michele, il candidato più forte di Fratelli d’Italia a Verona: vicepresidente della Provincia, vicesindaco di Lavagno, uomo di fiducia di Ciro Maschio – deputato, presidente della Commissione Giustizia e coordinatore provinciale del partito. Mercurio, per la prima volta, ricostruisce il suo ruolo nella campagna del 2014. Racconta che fu Elio Nicito, considerato dalla Dia vicino alla famiglia Vrenna, a chiedergli di sostenere Di Michele. Dice di aver raccolto circa seicento voti, «sufficienti a farlo arrivare primo degli eletti». E aggiunge un dettaglio sulla contropartita: l’edificabilità di un suo terreno a Lavagno, nel Veronese: «Patti rispettati».
Nelle sue dichiarazioni compare anche l’imprenditore calabrese Nazzareno Salerno, ex assessore regionale arrestato e sotto processo per corruzione. Secondo Mercurio, fu grazie all’intercessione di Di Michele che Salerno riuscì a ottenere, a oltre mille chilometri di distanza dalla Calabria, l’appalto per la scuola Don Milani di Lavagno
Il secondo capitolo riguarda Stefano Casali, consigliere regionale
uscente, legatissimo al ministro della Giustizia Carlo Nordio, e di nuovo candidato. Da anni Casali nega l’esistenza di una cena del 2012 nella sua abitazione, alla vigilia delle amministrative di Verona. A quell’incontro avrebbe partecipato Mercurio e, soprattutto, sarebbe stato definito un patto di sostegno elettorale della ’ndrangheta.
Ora un testimone — identità protetta dalla trasmissione — conferma di essere stato presente. Racconta che fu quella la riunione in cui venne stabilito l’accordo, con Nicito come garante. In quella tornata Casali passò da 516 a 1704 voti e divenne prima assessore ai Lavori pubblici, poi vicesindaco.
Nel corso dell’inchiesta anche Nicito risponde alle domande della trasmissione e, in qualche modo, conferma che Mercurio raccolse voti per Casali nel 2012. Lo stesso Mercurio aggiunge un’ultima immagine: dopo la vittoria — dice — andarono insieme a festeggiare nel ristorante di Giovanni Pascucci, che conferma di ricordare la serata.
I dirigenti di Fratelli d’Italia rivendicano però la piena trasparenza delle loro liste.
(da Il Fatto Quotidiano)

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VENEZIA, VIETATO PARLARE DI MAFIE AL LICEO? IL PRESIDE SOSPENDE “PER PRUDENZA” L’INCONTRO CON IL GIORNALISTA DI REPORT A LA PM

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

IL CRONISTA MOLINO: “HO RICEVUTO UNA MAIL CE PARLA DI EVENTO ANNULLATO, NON DI SOSPENSIONE”… PROTESTANO GLI STUDENTI: “ORDINE DI VALDITARA”

Il preside del liceo scientifico Benedetti di Venezia, Marco Vianello, dice a ilfattoquotidiano.it che l’incontro antimafia nella suo scuola è stato “sospeso per prudenza”. Ma il giornalista di Report Walter Molino dà un’altra versione: “Ho ricevuto una mail che parla di evento annullato”.
Di sicuro c’è solo che al liceo Benedetti non si terrà alcuna assemblea sul radicamento delle mafie nel tessuto economico e politico del Veneto. Non nei prossimi giorni, almeno. Previsto per il prossimo 3 dicembre, l’evento – intitolato “Cosa Veneta” – prevedeva l’incontro degli studenti con Molino e con la pm di Venezia Federica Baccaglini. Ma è saltato, per volontà di Vianello.
“Un intervento, quello del preside, ad orologeria, coincidente esattamente con la circolare sulla par condicio firmata in quelle ore dal ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara”, racconta Alice del Coordinamento studentesco Venezia – Mestre. “Da alcuni miei professori sono venuto a conoscenza di alcuni materiali di cui non sapevo nulla ed è prudente che io li possa esaminare condividendoli con il nuovo
consiglio d’istituto che verrà a breve eletto”, sostiene Vianello. Il preside non nega che il contesto criminale veneto (con i procedimenti giudiziari in corso) sia particolarmente delicato. Spiega però di voler prendersi del tempo per valutare con i genitori e con gli alunni chi far intervenire all’appuntamento, che sarà riprogrammato.
Ad accusarlo sono i ragazzi del collettivo autogestito Tuwat, che conta studenti anche al Benedetti: “L’annullamento di questo incontro, che doveva vedere un giornalista e una pm antimafia, due personalità che chiaramente dovrebbero essere ben accette in un liceo, rappresenta un problema manifesto e presente, ma sottaciuto. La motivazione della cancellazione poi, potrebbe risiedere in una circolare del ministro dell’Istruzione Valditara. Inutile aggiungere che il contraddittorio non può e non deve esserci quando si parla di mafia o di un genocidio. Come Assemblea studentesca autogestita Tuwat ribadiamo l’importanza di una scuola libera e critica. Chiediamo trasparenza e risposte chiare, dal dirigente o da chi sia responsabile di questo annullamento”. Pronta la risposta di Vianello: “Non conosco nessuno di quel collettivo e non so come incontrarli ma posso dire con certezza che pur condividendo la circolare del ministro, questo incontro non è stato sospeso per quella motivazione”.
Il caso, intanto, è finito anche sulle pagine social di Report: “L’incontro Cosa Veneta era stato pensato e organizzato dal liceo scientifico Benedetti di Venezia per parlare del radicamento delle mafie nel tessuto economico e politico del
Veneto. I ragazzi avrebbero dovuto incontrare due protagonisti della lotta al fenomeno mafioso e alla sua infiltrazione sociale: la sostituta procuratrice della Direzione Distrettuale Antimafia di Venezia, Federica Baccaglini che ha condotto numerose inchieste sui clan di camorra e ‘ndrangheta nelle province venete, e il giornalista investigativo di Report, Walter Molino. Nonostante l’alto numero di adesioni da parte dei ragazzi, abbastanza da far già pensare a un secondo appuntamento, l’incontro, previsto per il 3 dicembre, è stato improvvisamente annullato, con una mail, lunedì sera. I motivi addotti sarebbero di organizzazione interna e sovrapposizione con un fitto calendario”. Ed è proprio Molino che racconta: “Il materiale di cui fa cenno il preside credo si composto da alcuni articoli e della relazione semestrale della Dia sulla mafia in Veneto. Avevo suggerito di leggerli affinchè gli studenti arrivassero preparati. Mi spiace sia tutto finito così. L’invito risale al 26 settembre e avevo subito aderito”. A preoccuparsi è anche Alice del Coordinamento studentesco Venezia – Mestre: “Non vorrei tirare facilmente le somme ma è abbastanza evidente che vi sia una manovra di Governo sulla libertà educativa delle scuole”.
(da Il Fatto Quotidiano)

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RITORNO ALL’ANTICO: C’E’ANCHE ELLY SCHLEIN IN PIZZERIA PER SALVARE LA STORICA SEZIONE DI ENRICO BERLINGUER DI PONTE MILVIO: GRAZIE ALL’ANTICA PRATICA DELLA “COLLETTA”, I MILITANTI DEM DEL XV MUNICIPIO DI ROMA HANNO SALVATO IL CIRCOLO

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

IN POCHE SETTIMANE SONO STATI RACCOLTI I 50 MILA EURO NECESSARI PER L’ACCONTO E ORA PROSEGUE LA RACCOLTA PER PAGARE LE RATE DEL MUTUO DA 250 MILA EURO

Davanti a un piatto con due olive ascolane e una crocchetta di patate, Laura Berlinguer, la figlia più piccola dell’allora segretario del Pci, ricorda quelle mattine elettorali in cui tutta la famiglia si recava in processione alla mitica sezione di Ponte Milvio: «Papà andava lì la mattina presto a “prendere le preferenze”, ossia l’indicazione di chi andava votato, dai dirigenti della sezione. Lo ricordo perché mamma lo accompagnava ed erano le uniche occasioni in cui andava insieme a lui al partito».
In una sperduta pizzeria sulla Giustiniana, periferia nord di Roma, si celebra un evento significativo: grazie al crowdfunding, come si dice ora, ovvero all’antica pratica della “colletta fra i compagni”, i militanti Pd del XV municipio hanno salvato la storica sezione del partito comunista (ora circolo dem) di Ponte Milvio. Sono riusciti in poche settimane a raggranellare i 50 mila euro necessari per l’acconto e ora proseguono la raccolta per pagare le rate del mutuo da 250 mila euro.
Un segno dei tempi in controtendenza rispetto a un’era di politica fatta sui social. Al tavolo è arrivata l’altra sorella, Bianca Berlinguer, che allarga il ricordo al quartiere: «Ponte Milvio era la zona popolare e comunista, mentre Vigna Stelluti e Vigna Clara erano proprio di destra, diciamo fasciste.N Noi, a via Ronciglione, stavamo a metà, sul confine».
La sezione di Ponte Milvio è uno dei topos simbolici sulla mappa della città, dove generazioni di comunisti sono cresciuti considerandola come una seconda casa. In questa serata di “riconquista” della sede, che rischiava diventare uno dei tanti locali della movida che infestano la zona, il tesoriere del Pd Michele Fina spiega come si è potuti arrivare a questa situazione:
«Il Partito democratico nasce senza proprietà, Ds e Margherita decisero di non conferirgli i loro immobili. In tutta Italia nacquero così decine di fondazioni che detenevano la proprietà delle sezioni, ma dopo 20 anni la situazione era fuori controllo, con debiti accumulati, affitti non pagati: siamo arrivati a un passo da mettere all’asta l’intero patrimonio storico».
Di fronte al baratro, lo scatto di reni, con il Nazareno che decide di aiutare le federazioni locali e la base che risponde all’appello con una mobilitazione dal basso e la raccolta fondi.
Alla cena della Giustiniana, c’è chi dà dieci euro, chi cento e chi ha già bonificato mille. Anche la situazione del bilancio nazionale si raddrizza: quest’anno il Pd ha rotto la barriera dei 10 milioni di euro raccolti grazie al 2X1000, un record tra i partiti italiani, e dopo otto anni gli 88 dipendenti rimasti escono dalla cassa integrazione.
Elly Schlein rivendica di aver messo il Pd su una strada nuova: «Siamo tornati in mezzo alle persone, Dobbiamo essere visti, non soltanto da quelli che già ci guardano ma anche da quelli che inciampano sulla nostra insistenza, che trovano la nostra porta aperta».
Il paradosso è proprio questo, una segreteria guidata da una giovane donna, che non era nemmeno iscritta al Pd, e che ora punta all’antico «radicamento sul territorio». Il contrario del partito liquido, del comitato elettorale che vive solo sui social. «Forse – ipotizza il sindaco Roberto Gualtieri – serviva uscire dalla generazione dei dirigenti post-comunisti per vedere meglio le cose da una prospettiva più distante, per smetterla finalmente
con le stupidaggini dell’antipolitica».
(da Repubblica)

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LIRICA, LA RIFORMA VOLUTA DAL SOTTOSEGRETARIO MAZZI CHE DÀ ALL’ESECUTIVO GRANDE POTERE DECISIONALE CHIEDE DI PRIVILEGIARE OPERE NAZIONALI CHE SIANO IL PIU’ POSSIBILE BREVI: COSA NE FAREMO ALLORA DEL WAGNER IN CARTELLONE A ROMA CHE DURA 4 ORE ABBONDANTI O DELLO SHOSTAKOVICH CHE APRE LA STAGIONE DELLA SCALA?

Novembre 16th, 2025 Riccardo Fucile

UNA MAGGIORE INGERENZA DEL GOVERNO, UNA PREOCCUPANTE IGNORANZA DI COME FUNZIONA UN TEATRO D’OPERA, LA TENTAZIONE DI UN NAZIONALISMO ANGUSTO, DI CORTO RESPIRO

Il cerchio dunque continua a stringersi. Quando si formò questo governo, qualcuno, dopo averne studiato le prime mosse, profetizzò che i nuovi arrivati non si sarebbero accontentati di occupare posti secondo il consueto sistema dello spoil system ma avrebbero cercato di cambiare la stessa narrazione storica del paese, ovvero quella vigente dopo la fine della guerra e del fascismo, rispecchiata nella Costituzione. Così è stato.
Lo si è visto alla Rai con nomine spesso non adeguate all’incarico, lo si è visto per le stesse ragioni in qualche teatro, ora lo si vede con chiarezza anche maggiore nella proposta rivoluzionaria che investe tutti gli enti lirici. Gli enti, o fondazioni, di questo tipo sono 14, due di queste (Teatro alla Scala e Accademia di Santa Cecilia) con uno statuto speciale; nel complesso assorbono quasi la metà dei 400 milioni del Fondo unico per lo spettacolo (Fus).
In che consiste la “rivoluzione”? Alcune norme sono ragionevoli, per esempio un maggiore coordinamento delle attività tra i vari teatri economizzando così sugli allestimenti. Ne sento parlare per la verità dai tempi del ministro Achille Corona, cioè da mezzo secolo, da quando quel ministero si chiamava ancora del Turismo e dello Spettacolo. Comunque, il baco viene subito dopo, quando si detta che bisognerà favorire “la riscoperta di nuove opere” di “quella straordinaria epopea”.
Che cosa vorrà mai dire? Il periodo che va da Claudio Monteverdi a Puccini? O solo la triade Rossini-Verdi-Puccini? E perché epopea? Leggo sul dizionario “Serie di imprese straordinarie, degne dell’interpretazione di un poeta”. Espressione sbadata, anzi decisamente sbagliata se si pensa alla storia alla quale viene applicata.
La lingua non è un giocattolo, andrebbe usata con più attenzione.
E poi: riscoperta di nuove opere. Cioè? Che vuol dire nuove opere? Ricerca negli archivi a caccia di qualche manoscritto perduto? Un po’ di serietà, per favore. C’è però un altro aspetto più preoccupante di queste definizioni da dilettanti, riguarda le nomine. I sindaci che finora sono stati presidenti d’ufficio, rappresentanti per così dire della loro città nel consiglio d’amministrazione, vengono accantonati, aumenta di conseguenza il peso del ministero.
Questo a me pare il punto centrale. Si attribuisce alla potestà del governo una funzione, anche di controllo, finora opportunamente decentrata. Si prescrive che i teatri siano più attenti alle spese, pena una sospensione temporanea dell’attività; lo capisco; i tempi sono grami, i soldi scarseggiano.
Si dimentica comunque che lo spettacolo d’opera, fin dalla nascita, non è mai stato in attivo. Ci sono spettacoli dove agli applausi finali con tutti in scena, ai vede chiaramente che le persone sul palcoscenico eguagliano o sono più numerose di quelle in platea. D’altra parte è sempre stato così, le “epopee” costano.
C’è infine una piccola coda dove si nasconde un’altra dose di veleno. Il ministero finanziatore raccomanda la messa in scena più frequente possibile di testi legati alla tradizione nazionale; non basta: che siano il più possibile brevi. Secondo il sottosegretario Gianmarco Mazzi, che spinge fortemente per l’adozione del provvedimento, la durata di un’opera può essere un ostacolo per i giovani “quando un’opera supera le tre ore diventa eccessiva”
Come si sa l’opera di Roma aprirà il 27 prossimo con il wagneriano Lohengrin che di ore ne dura quattro abbondanti. Aboliamo Wagner? Ci chiudiamo nel repertorio nazionale, magari con qualche taglio per non affaticare i giovani?
È davvero questo il modo migliore per avvicinarli alla musica? E se invece un po’ di musica s’insegnasse finalmente a scuola? Non qualche motivetto fischiettato sul flauto dolce, un insegnamento vero, solido, integrato da canto corale, dalla presenza a prove teatrali o di concerto, ogni volta che ce ne sia la possibilità.
Scorgo in questo progetto alcuni pericolosi segnali. Una maggiore ingerenza del governo coerentemente, del resto, con la riforma detta del presidenzialismo o quella della magistratura. Una preoccupante ignoranza di come funziona un teatro d’opera, la tentazione di un nazionalismo angusto, di corto respiro. I compositori italiani hanno dato luce al mondo, sia chiaro.
Sono scelte che vengono da sole. Wagner però dove lo mettiamo? E Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Shostakovich con cui la Scala aprirà il 7 dicembre prossimo? Non sarebbe meglio su faccende di questa complessità chiedere consiglio a chi sa come maneggiare la materia?
(da Repubblica)

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