IL MAL DI GAZA NELL’ESERCITO CRESCONO I NO AL FRONTE L’OMBRA DEI REDUCI SUICIDI
AUMENTA IL NUMERO DI DISERTORI (SALITI A 40 MILA) TRA I MILITARI DELLO STATO EBRAICO E CRESCONO I CASI DI SOLDATI CHE TORNANO DA GAZA CON PROBLEMI DA STRESS POST TRAUMATICO
Itamar Greenberg si è fatto 197 giorni in una prigione militare israeliana per aver rifiutato l’ordine di leva. Quando è uscito ha preso il treno, è andato a Sderot, nel sud, la città più vicina a Gaza, e ha cominciato a marciare verso la Striscia per «rompere l’assedio». Era con altri sei ragazzi, tutti diciottenni. Li hanno fermati, interrogati e rilasciati. Giusto il tempo di correre sui social e convocare una nuova protesta.
Ayana Gertsmann e Yuval Pelleg, invece, sono in prigione da ieri: lei ci resterà per 30 giorni, lui per 20, hanno entrambi 18 anni. «Non collaborerò in silenzio alle peggiori atrocità, la distruzione di Gaza, l’occupazione. Non nel mio nome!», ha detto Ayana prima di entrare in carcere.
Ayana, Yuval, Itamar sono i giovani refusenik israeliani, teenager che hanno preferito andare in galera piuttosto che unirsi a un esercito che – dicono – sta commettendo «crimini di guerra». Agli inizi di agosto hanno inscenato una protesta pubblica bruciando davanti alle telecamere le lettere di arruolamento: è finito tutto su Tik Tok, centinaia di condivisioni.
«Il numero dei refusenik è aumentato dall’inizio della guerra, ma tanti non lo comunicano apertamente quindi non sappiamo quale sia la cifra reale», spiega Nimrod, il portavoce di Mersavot, una rete che unisce gli obiettori di coscienza. Lo stesso fenomeno, in maniera più estesa, sta avvenendo tra i riservisti. Anche in questo caso non ci sono cifre ufficiali, nessun partito o leader politico ne parla apertamente.
Prima della guerra, il rifiuto di offrirsi volontari per la riserva era diventato un modo per protestare contro la riforma giudiziaria promossa da Netanyahu. Dopo il 7 ottobre, quegli stessi manifestanti si erano offerti volontari in massa per difendere il loro paese aggredito da Hamas. Ma negli ultimi mesi qualcosa è cambiato, soprattutto dopo la decisione di Netanyahu, a marzo, «di far saltare il cessate il fuoco e riprendere la guerra», dice Yishay Menochin di Yesh Gvul, una organizzazione che sostiene gli obiettori di coscienza
Hanno una hotline attiva per chi si rifiuta di servire, li hanno contattati in 300 dal 7 ottobre, «ma sono solo la punta dell’iceberg. Sappiamo dai corrispondenti militari che quando è iniziata l’ultima operazione nella Striscia, Carri di Gedeone, l’esercito ha richiamato 100mila riservisti. Il 60-70% ha accettato di tornare in servizio, vuol dire che ci sono stati 30-40mila disertori. Non c’è più posto nelle prigioni militare, la numero 10, la principale del paese, è piena».
«Molti dicono ai comandanti che non vogliono più prendere parte alla guerra». Tra quelli che sono sul campo di battaglia, alcuni hanno deciso di denunciare. L’associazione di ex soldati Breaking the silence ha raccolto testimonianze dall’interno dell’esercito che denunciavano l’uso di civili palestinesi come scudi umani a Gaza. Il quotidiano Haaretz, invece, ha messo insieme i racconti di soldati che hanno detto di aver ricevuto ordini di sparare contro palestinesi, civili, disarmati.
Sempre più soldati tornano dal fronte piegati da ciò che hanno vissuto. Un gruppo di veterani ha organizzato un sit-in davanti al centro di riabilitazione del ministero della Difesa, a Tel Aviv,
per chiedere che lo Stato si prenda più cura di queste persone. «I politici non hanno ancora compreso la portata della crisi», ha dichiarato Meir Kadosh, un veterano di 34 anni, ad Haaretz.
«Da questa guerra sta arrivando uno tsunami di casi di PTSD (disordine da stress post-traumatico). E per molti, non emergerà prima di anni». Per alcuni è già stato fatale. Solo nel mese di luglio, sette soldati si sono suicidati dopo essere tornati da Gaza. Dall’inizio della guerra, il numero di suicidi tra i militari in servizio è cresciuto, 21 nel 2024 e almeno altri 15 dall’inizio di quest’anno.
(da agenzie)
Leave a Reply