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A BORDO DI OPEN ARMS: “QUELLO CHE FACCIAMO IN MARE DOVREBBERO FARLO GLI STATI”

DIARIO DI BORDO DI UN PARLAMENTARE DELLA REPUBBLICA… E SI SCOPRE CHE LA PROPOSTA ITALIANA DI ACCOGLIERE JOSEFA A CATANIA E’ ARRIVATA SOLO DOPO 10 ORE DALLA RICHIESTA DI SOCCORSO… AI MAGISTRATI SPAGNOLI DECIDERE SE E’ OMISSIONE DI SOCCORSO

L’aereo atterra a Palma di Maiorca con un po’ di ritardo. Uscito dall’aeroporto, intorno alle 16, chiamo Riccardo Gatti, il capo missione. Durante quella precedente, comandava la Astral su cui erano imbarcati Erasmo Palazzotto, Marc Gasol e Annalisa Camilli. Mi spiega come raggiungere la nave. Salgo su un taxi e mi avvio.
Arrivo alla Open Arms intorno alle 16:45.
Il vento alza la polvere sul molo, al Dique de L’Oeste. Salgo a bordo. Mi portano subito a fare un rapido giro della nave che un tempo, tra le altre cose, è stata anche un mezzo dei bomberos (i vigili del fuoco). Il tempo di completare gli ultimi preparativi, degli abbracci con i volontari che sbarcano dopo l’ultima missione, la 47, e poi via. Lasciamo il molo e poco dopo siamo fuori dal porto.
È cominciata la missione 48 della Proactiva Open Arms. Ogni missione è una cosa a se stante. Al ritorno si chiude una pratica e se ne apre un’altra. È necessario per dare ordine al lavoro, per tutelare i membri dell’equipaggio e definire, rispetto alle singole missioni, gli ambiti di eventuali responsabilità . Il Capitano di questa missione è sottoposto a indagine. La guerra contro le Ong la fanno anche così.
Siamo appena partiti e il lavoro procede con un suo ordine. La squadra dei soccorritori mette ordine tra i materiali e distribuisce le dotazioni personali più importanti. La prima è costituita da un giubbotto salvagente molto particolare. Un tubolare leggero che passa intorno al collo e con due cinghie sotto alle gambe e che, mi dicono, si gonfia al contatto con l’acqua. Se cadi in mare ti tiene su. Ma non è ingombrante quando ti devi muovere a bordo come per gli altri giubbotti. Poi la “divisa”: due magliette, due paia di pantaloncini, un frontale. Una lucetta che si fissa sulla fronte con una fascia elastica e che serve a muoversi sulla nave durante la notte. Quando è buio e le luci sono spente.
Comincio a conoscere gli altri. Il personale medico è costituito da due dottoresse. Entrambe italiane. Giovanna e Marina. L’anno scorso hanno passato 8 mesi sulle navi nel Mediterraneo
Marina è stata molte volte in Africa. Tra queste in Sierra Leone per l’ebola. Sono loro che si sono prese cura di Josefa dopo il salvataggio. E sì, le hanno anche messo lo smalto alle unghie. Perchè la cura non è solo medicalizzazione. È anche umanità , affetto, rispetto e relazione. Spiega a me e a Valerio, un free lance romano che lavora per AP, come ci si comporta di fronte alle più frequenti patologie che si incontrano dopo un salvataggio.
E come riconoscerle. Malattie respiratorie (il più delle volte legate al freddo e all’umidità ), le ustioni chimiche che ti portano via la pelle come se fosse un guanto. Si producono quando stai per molto tempo a contatto con i combustibili, nella stiva dei barconi o in acqua dove galleggia la nafta dopo un naufragio. È necessario spogliare subito le persone, lavarle abbondantemente e dotarle di vestiti puliti. O in mancanza di questi, delle coperte termiche. Per capirci quelle che fuori sembrano d’oro. Sono efficaci, a patto che avvolgano un corpo nudo e asciutto.
Mentre parla sorride. Ha un tono e parole rassicuranti. “Quando non è strettamente necessario, cerco di non usare i guanti. Stringere la mano o fare una carezza a mani nude è un’altra cosa. Stabilire un contatto conta molto. Abbiamo a che fare con persone traumatizzate”. Cura. Appunto.
Ora è il momento di stabilire i turni.
Ognuno deve sempre sapere cosa deve fare. Così, se qualcosa non va, sappiamo con chi prendercela mi dice, sorridendo, il capo missione. Ci sono tre squadre di quattro persone. Due formate da tre soccorritori e un giornalista. Oltre a Valerio a bordo c’è Juan, un fotografo della Reuters. 55 anni, di origine Argentina che vive e lavora a Madrid. Poi la mia, con Riccardo Gatti e le due dottoresse. I turni ruotano. Un giorno “limpieza” (pulizia di tutti gli spazi comuni, bagni, corridoi e ponte), quello seguente cucina. Il terzo riposo. Ogni giorno però, sei ore a testa di guardia. A gruppi di tre. Il mio è quello che va dalle 6 alle 9 del mattino e dalle 18 alle 21 della sera.
È arrivata l’ora della cena. La prima a bordo. Riso e un curry di verdure. Alle 22 sono a letto. Si balla e all’inizio fatico a prendere le misure della mia cuccetta. Quella di sopra in un letto a castello.
23 Luglio 2018
Alle sei arrivo sul ponte e Ricardo, l’ufficiale che ha guidato nella notte, mi spiega che abbiamo ballato perchè c’era “mare di fondo” (un onda lunga e vecchia che residua da una situazione di vento precedente).
Mi mostra gli strumenti fondamentali, il radar, la radio, il sistema di navigazione. Guardandolo si capisce che tra dove siamo e il sud della Sardegna ci sono 20 ore di navigazione. Intanto il sole è sorto. E illumina una piccola nave. Piena di umanità . Alle 10:00 Riccardo ha un collegamento con Agorà . Poco prima mi aveva raccontato di essere nato in un piccolo paese lombardo, vicino a Pontida. Ci viene da ridere.
Arriva la telefonata. Lui risponde con calma. Parole semplici. “No guardi, non ci interessa replicare a Salvini”. Il ministro della propaganda e del cinismo ha appena rilanciato il suo carico di insulti e veleno contro ong e “buonisti”, come li chiama lui. Che poi, se noi siamo buonisti e se essere buonisti è un titolo di demerito, evidentemente a lui piace essere un “cattivista”. Riccardo continua: “La nostra non è una battaglia politica. Facciamo solo ciò che abbiamo sempre fatto. Andiamo dove c’è bisogno di noi. A salvare la vita di chi rischia di perderla.”
Niente di più politico. E potente. Quando finisce cominciamo a parlare. C’è Marc, il capitano. Mi arrangio con il mio, quasi inesistente, spagnolo. Marc non è un attivista. Ma stando qui si è fatto un’idea. È lui che mi parla della scelta fatta dopo il salvataggio di Josepha e il ritrovamento dei cadaveri di un bambino e di un’altra donna.
Andare in Spagna, rifiutare la proposta di Catania, avanzata dal governo solo dopo 10 ore. Ore piene di insulti. E di minacce. Le ore della Fake News. Salvini pronuncia quella parola pochi minuti dopo la diffusione delle immagini. Immagini di morte. Le immagini della sua colpa e della colpa del governo Italiano, del suo collega, il cittadino Toninelli. Stanno trascinando nella vergogna un intero Paese. Porti chiusi. Marc (42 anni) lo dice in modo semplice e diretto: “Noi non ci fidiamo. Se cambia la situazione noi torniamo. Se cambiasse la situazione in Libia andremmo anche lì. In fondo, l’obbiettivo finale, è non dover andare più in mare. A fare quello che facciamo. Dovrebbero farlo le istituzioni, gli Stati. Non noi. A noi tocca una supplenza.”
Già . Ha ragione. In fondo è così semplice da capire. L’Italia, il mio Paese, lo faceva. Mare Nostrum si chiamava la missione. Voluta dal governo Letta a cui io facevo opposizione, ma che, su questo punto, ebbe la forza e la dignità  di reagire dopo la catastrofe del 3 ottobre 2013 davanti alle coste di Lampedusa.
Poi quella missione è stata cancellata. E Salvini non era ancora arrivato. Poi hanno fatto accordi con la Libia, con un governo che non controlla nemmeno l’intera città  di Tripoli. E hanno trasformato gli scafisti in carcerieri. Nel frattempo avevano bombardato i barconi. Ecco perchè ora usano gommoni cinesi che si rompono dopo poche ore. Altro che “Pull Factor” degli aiuti. Poi hanno imposto il “codice di condotta” alle Ong per impedirne sostanzialmente il lavoro ed è cominciata una impressionante campagna di delegittimazione. Su cui è prontamente salito Di Maio. “Le Ong sono Taxi del mare” disse. Una vergogna. Ma anche allora Salvini non c’era. Furono i governi Renzi prima e Gentiloni poi a fare tutto questo. Col ruolo decisivo dell’allora ministro Minniti.
Poi Salvini è arrivato davvero. Gli avevano aperto le porte e steso un tappeto rosso. E ha fatto Salvini. È andato oltre.
Anche per questo sono qui. Perchè la Costituzione ci dice che le funzioni pubbliche vanno esercitate con disciplina e onore. E, allora, di fronte ad un governo che ogni giorno calpesta l’onore di un intero Paese esercitando il potere di lasciar morire persone che potrebbero essere salvate, bisogna pur fare qualcosa.
24 luglio 2018
Durante le guardie si prende nota di ogni comunicazione tra le varie autorità  costiere e i natanti, per capire cosa accade e in ogni caso per avere traccia di tutto ciò che succederà  e ogni due ore viene inviata una mail alla MRCC di Roma per comunicare data,orario e coordinate. Alla Marina Spagnola la stessa mail viene inviata due volte al giorno. Alle 10 di mattina e alle 22 della sera.
Dopo la guardia c’è il turno di cucina. In realtà  non cuciniamo (e la cosa mi dispiace perchè cucinare è una cosa che amo fare), ma è necessario apparecchiare per i due turni di mensa. Attorno al tavolo riescono a mangiare al massimo 11 persone e noi siamo in 19. Alla fine, dopo aver mangiato anche noi è il momento di lavare i piatti e pulire cucina e sala da pranzo. Quello che colpisce è che c’è sempre qualcuno che, pur non avendo alcun obbligo, si offre di aiutare. E nessuno dimentica mai di sorridere e ringraziare. Probabilmente è necessario se si vuole convivere in un ambiente che ti costringe ad una promiscuità  continua.
Nel pomeriggio due ore di esercitazioni. Prima una anti incendio. Poi quella di abbandono della barca. Il Capitano ci spiega che è necessario imparare almeno le nozioni fondamentali. Che durante una emergenza possono diventare decisive. Dopo la fine si discute di come è andata mentre i due pompieri provano l’equipaggiamento da indossare in caso di interventi particolari. Sono le 20 e la cena stasera comincia un po’ più tardi.
Da oggi occhi aperti e un clima più teso durante i turni di guardia. Siamo ancora a 200 miglia dalla zona SAR di fronte alla Libia. Ma già  qui, di fronte alle coste tunisine non è infrequente incrociare barconi e gommoni di migranti.
A un certo punto vediamo una nave che non è segnalata dagli strumenti. Saliamo sul pennone dove c’è un binocolo più potente. Il marinaio esperto guarda e dice: pescano tonni…intanto ho agganciato le celle telefoniche tunisine. E sono riuscito a chiamare casa, finalmente.
25 Luglio 2018
La mattina comincia con un delfino. Ne vedremo altri nel corso della giornata. Ma il primo, un grosso esemplare ci salta intorno per un bel po’. Attraversa la linea di navigazione da destra a sinistra più volte. Sotto la prua. E Salta. E sembra che si giri in acqua per guardarti e salutare. Corro a fargli una foto per mandarla a mio figlio.
Intorno alle 15 dopo quasi 72 ore di navigazione ininterrotta, siamo arrivati nella zona SAR libica.
Fino ad adesso nessun avvistamento e nessuna comunicazione rilevante intercettata dalla radio. Solo qualche peschereccio e qualche barca di avvoltoi. Mi spiegano che capita spesso di vederne. Sono piccole imbarcazioni che escono per pescare ma cercano, tra una battuta e l’altra, qualche gommone vuoto da rivendere. In fondo, chiosa Riccardo Gatti, si tratta soltanto di poveracci. Altri disperati. Adesso operare qui è più difficile.
Prima era MRRC di Roma a chiamare e inviare le coordinate per orientare le ong. Ora, mi dicono, non accade più. Spetta ai libici,come vuole il governo italiano.
Ma cosa fanno i Libici, come operano e come intendono il soccorso lo abbiamo visto con la vicenda drammatica del salvataggio del 17 luglio. Durante la missione 47 della Open Arms e della Astral, dove era imbarcato Erasmo Palazzotto.
La verità  è che i Libici non sono attrezzati e soprattutto che quando intercettano una barca che fugge dalle loro coste, quello che fanno, anche senza lasciar persone in mare, non si chiama salvataggio ma cattura. Qui c’è una questione fondamentale. Chi parla di fermare, azzerare, impedire gli sbarchi, aggiungendo che si tratta del solo modo di evitare la morte in mare, non ha alcun interesse per la vita di chi fugge. Per la loro storia, individuale e unica.
Non per nulla le convenzioni internazionali, proibiscono come un crimine il respingimento collettivo. Ma soprattutto, non fa i conti con una verità  semplice da capire, se capire resta un obbiettivo.
Le partenze, almeno quelle che prevedono il rischio molto concreto di perdere la vita propria e di quanto si ha di più caro come un figlio o una figlia, si fermano se si azzerano le ragioni che ti spingono a una scelta tanto disperata.
E quelle ragioni hanno un nome. Che spesso fa rima con Occidente e dunque anche con Italia. Si chiamano guerra (magari combattuta con bombe e armi vendute anche da noi), persecuzione, ma anche fame. Povertà  assoluta. Assenza di qualsiasi prospettiva di futuro.
Ci penso mentre ricomincia il mio turno di guardia. Quello serale. Mi hanno insegnato a usare il binocolo per guardare l’orizzonte. E il mare, questo mare nostro, è bellissimo e grande. Di una grandezza che cogli solo se ci stai in questo modo. Pensare di chiuderlo, trasformarlo in un enorme cimitero a cielo aperto, è un crimine contro l’umanità . La storia. Le culture millenarie che lo circondano. Chi è complice, chi non trova il modo di reagire, ne risponderà . Davanti alla Storia.
26 Luglio 2018
Sveglia alle 5:30. Alle 6 comincia il turno di guardia. Salgo sul ponte e mi accorgo che siamo quasi fermi. Ricardo Sandoval mi spiega che andiamo a 3 nodi. È la velocità  di pattugliamento. Sul radar abbiamo alla nostra destra un piccolo puntino. Stiamo aspettando per capire se “entra”. Se si dirige verso di noi. Cioè verso nord, verso le coste dell’Europa. Navighiamo poco oltre le 24 miglia. È il limite di sicurezza. Il nuovo limite. 12 miglia sono la distanza che misura le acque territoriali vere e proprie.
Entro le 24 però, lo stato frontaliero può esercitare una serie di diritti, tra cui quello di costringerti a seguire in porto le proprie unità . E con i Libici i rapporti non sono buoni. Prima era tutto diverso. Interventi e salvataggi si svolgevano anche molto più vicino alle coste. Vicino. Se cadi in mare e non sai nuotare, un miglio diventa già  una distanza insormontabile.
Difficile, per la verità , anche se sai nuotare. Stiamo discutendo della possibilità  di mandare una lancia. Sono gommoni veloci con cui si effettua la fase più immediata e complessa del salvataggio. Arrivano rapidamente nel punto sensibile e, se trovano persone, le riportano a bordo della nave, che, nel frattempo, può avvicinarsi.
Mentre scrivo avvistiamo una nave della guardia costiera libica. Si muove parallelamente a noi…

N. Fratoianni
(da “Huffingtonpost“)

This entry was posted on giovedì, Luglio 26th, 2018 at 15:06 and is filed under denuncia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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