AVVOCATI E PM COALIZZATI PER INSABBIARE INCHIESTE, 15 ARRESTI
UN SISTEMA DI CORRUZIONE PER INVENTARE COMPLOTTI, SCREDITARE COLLEGHI, SCIPPARE DOSSIER AD ALTRE PROCURE PER POI ARCHIVIARE INDAGINI
Un’associazione a delinquere di stampo giudiziario, con avvocati e pubblici ministeri che si sarebbero
coalizzati per inventare complotti, screditare e minacciare i colleghi, scippare ad altre Procure o simulare, per poi archiviare, indagini su fatti delicati di livello internazionale.
Una maxi-inchiesta su un sistema di corruzione dentro i palazzi di giustizia mette insieme tre Procure, Messina, Roma e Milano, per spezzare una trama da spy-story. Nel mirino pure l’Eni.
Prima fermata, Siracusa
La Procura di Messina, coordinata da Maurizio De Lucia (15 gli arresti ordinati dal Gip), si è mossa in parallelo a quella di Roma, coordinata dal maestro professionale di De Lucia, Giuseppe Pignatone, e d’intesa pure con Milano, con il procuratore Francesco Greco e l’aggiunto Fabio De Pasquale.
La competenza della Città dello Stretto nasce dal coinvolgimento di un magistrato del distretto di Catania, Giancarlo Longo, 48 anni, già in servizio a Siracusa e oggi giudice civile a Napoli, finito in carcere assieme agli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, di 48 e 38 anni, e all’imprenditore Alessandro Ferraro, di 46. Gli altri 12 sono ai domiciliari.
Anche Longo, come in precedenza i colleghi Ugo Rossi e Maurizio Musco (quest’ultimo di nuovo nella città aretusea, nonostante una condanna penale definitiva per abuso d’ufficio), era finito nel mirino della giustizia disciplinare. Per questo aveva ottenuto il trasferimento a richiesta.
Nel caso dell’ex procuratore Rossi e di Musco, adesso più volte intercettato con il collega Longo, le questioni ruotavano attorno a interessi prettamente economici e a presunti affari comuni con gli avvocati: ora invece è venuto fuori il “sistema”. Il cui scopo sarebbe stato quello di tentare di determinare, tra l’altro, fortune e malasorte dei vertici Eni.
L’affaire Eni e Wikipedia
L’inchiesta sul pm di Siracusa è nata dall’esposto di otto magistrati dello stesso ufficio e a fare la differenza col passato, nella prospettiva dell’accusa, è l’organizzazione meticolosa, puntuale, ramificata, estesa, un meccanismo praticamente perfetto, in cui Longo era un ingranaggio fondamentale, per la spregiudicatezza con cui, per limitarsi a un solo esempio, avrebbe finto di interrogare un sedicente teste-chiave della vicenda Eni-Nigeria, come il tecnico petrolifero Massimo Gaboardi.
Gli accertamenti tecnici sulle origini e sugli orari di creazione e ultima modifica del file hanno fatto emergere infatti che il verbale dell’1 marzo 2016, redatto apparentemente nel pomeriggio, era stato preconfezionato e consegnato al suo amico Longo dall’avvocato Calafiore, la mattina alle 9, per non essere più modificato.
Gaboardi, secondo quanto confessato dall’ex cognato, Alberto Castagnetti, costretto ad ammettere dopo essere stato intercettato, si sarebbe reso disponibile a firmare quelle accuse in cambio di soldi, uno stipendio mensile da cinquemila euro: «Mi disse — racconta Castagnetti — che quella sorta di emolumento gli veniva dato dal “ciccione” per rendere dichiarazioni e testimonianze finalizzate a “sponsorizzare” la sostituzione dell’amministratore delegato di Eni Descalzi a favore di un altro di cui io non ricordo il nome».
E il “ciccione” sarebbe stato Ferraro. Nello stesso verbale i consulenti dei pm avevano trovato un «riferimento ipertestuale»: in sostanza, per scoprire chi fosse il personaggio nigeriano oggetto delle dichiarazioni, l’autore del documento aveva interrogato Wikipedia.
Gli agenti nigeriani
Nel settembre scorso la collaborazione tra le Procure di Messina e Milano aveva fatto venire fuori che contro l’ad di Eni Claudio Descalzi in realtà la congiura era assai presunta.
Lui era infatti indagato da Greco e De Pasquale per affari poco chiari in Nigeria, con fatti di corruzione internazionale che vedevano implicato pure l’ex vertice della compagnia petrolifera di Stato, Paolo Scaroni.
Un contesto molto opaco: l’ipotesi degli inquirenti è che, per accreditare la tesi di un Descalzi vittima di trame oscure, sarebbero state in qualche modo utilizzate le Procure di Trani e Siracusa, destinatarie di esposti anonimi e «testimonianze» — come quella di Gaboardi — che avevano suggerito trame complesse quanto fumose, la presunta azione coordinata portata avanti da 007 nigeriani e imprenditori iraniani, l’asserito ruolo di complottisti di un pool di avvocati Telecom legati all’ex presidente Franco Bernabè, al petroliere (e ora banchiere di Carige) Gabriele Volpi e all’imprenditore Marco Bacci, indicato nelle carte come vicino all’ex premier Matteo Renzi.
Se però Trani era stata coinvolta senza che vi fosse alcuna complicità interna alla Procura (e difatti il procuratore, Carlo Capristo, aveva poi ceduto il passo), Siracusa sarebbe stata chiamata in causa in virtù di un presunto traffico di pietre preziose provenienti dalla Nigeria, che si sarebbe svolto proprio nella città siciliana.
Come nei film, Ferraro, in pieno agosto del 2015, sarebbe stato sequestrato per alcune ore da agenti nigeriani: dopo la sua denuncia, Longo, data l’assenza per le ferie del procuratore Francesco Paolo Giordano e del suo aggiunto, Fabio Scavone, si sarebbe autoassegnato il relativo procedimento. In realtà lo scopo ultimo sarebbe stato quello di fingere di approfondire per archiviare poi tutto.
Milano non ci sta
L’obiettivo di scippare o depistare Milano fu mancato miseramente. Secondo la ricostruzione del Gico e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, Longo, pilotato dall’avvocato Amara, consulente legale di Eni, avrebbe cercato di far credere che Descalzi e Scaroni fossero stati bersaglio dei loro avversari interni all’Eni, i consiglieri Luigi Zingales e Karina Litvack, ma pure di Umberto Vergine, ad della controllata Eni Saipem, che sarebbe stato interessato a subentrare a Descalzi.
Sul finire del 2016 il fascicolo era passato di mano e da Siracusa era andato alla sua sede naturale, Milano, grazie all’intervento del procuratore Giordano. A Milano, Amara e Ferraro erano finiti indagati (con Gaboardi) per associazione a delinquere, messa su — sostiene l’accusa — per realizzare un «vero e proprio depistaggio, intralciando lo svolgimento dei processi in corso a Milano contro Eni e i suoi dirigenti» e per screditare Zingales, che si era dimesso, e Litvack, prima allontanata e poi richiamata dal gruppo. L’inchiesta va ancora avanti. E non più solo a Milano.
(da “La Stampa”)
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