Maggio 27th, 2021 Riccardo Fucile
DA QUI L’ESIGENZA DELLA CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE
Secondo il magistrato “sussiste il pericolo concreto e prevedibilmente prossimo della
volontà degli indagati di sottrarsi alle conseguenze processuali e giudiziarie delle condotte contestate, allontanandosi dai rispettivi domicili e rendendosi irreperibili”.
Ci sarebbe quindi il pericolo di fuga degli indagati alla base della decisione della Procura della Repubblica di Verbania di procedere al fermo di Luigi Nerini, titolare della società di gestione della funivia del Mottarone, Enrico Perocchio direttore di esercizio e Gabriele Tadini, capo servizio. Lo si legge nel decreto di fermo.
Confermando le valutazioni espresse più volte in questi giorni dal procuratore capo di Verbania Olimpia Bossi, nel decreto di fermo dei tre indagati per il disastro della Funivia del Mottarone, che domenica è costato la vita a 14 persone, si sottolinea che “i fatti contestati sono di straordinaria gravità in ragione della deliberata volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza dell’impianto di trasporto per ragioni di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza finalizzate alla tutela dell’incolumità e della vita” dei passeggeri”.
(da agenzie)
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Maggio 27th, 2021 Riccardo Fucile
“INGIUSTIFICATI RIFERIMENTI ALLA LINGERIE INDOSSATA DALLA VITTIMA E STEREOTIPI SESSISTI”
La sentenza della Corte d’appello di Firenze che nel 2015 ha assolto sei imputati accusati
di uno stupro di gruppo avvenuto nella Fortezza da Basso nel 2008 utilizza “un linguaggio e argomenti che veicolano pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana” e, in alcuni passaggi, “non rispetta la vita privata e l’integrità personale” della vittima.
Per questo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dei diritti di una presunta vittima di stupro, accordando un risarcimento per danni morali di 12mila euro.
A ricorrere alla Corte di Strasburgo la stessa presunta vittima della violenza, che nel 2016 aveva fatto ricorso non per l’assoluzione dei sei giovanissimi, tutti tra i 20 e i 25 anni all’epoca dei fatti, ma proprio per il comportamento delle autorità nazionali che, secondo la ragazza, non avevano “tutelato il suo diritto al rispetto della vita privata e la sua integrità personale”. Il ricorso, inoltre, denunciava discriminazioni in base al sesso e pregiudizi sessisti durante il procedimento penale.
I giudici della Corte, che si sono espressi in maggioranza di sei contro uno, si legge nella sentenza, ritengono che i diritti della ragazza non siano stati “adeguatamente tutelati” nella sentenza della Corte d’Appello di Firenze.
Violazione che invece non risulta negli atti precedenti, gli interrogatori della presunta vittima e il processo in Aula. Secondo Strasburgo però, il problema è proprio in alcuni passaggi delle quattro pagine di motivazione della sentenza in cui le autorità “hanno omesso di proteggere” la ragazza “dalla vittimizzazione secondaria”.
Ingiustificati, secondo la Corte, “i riferimenti fatti alla lingerie rossa ‘mostrata’ dalla ricorrente durante la serata” del presunto stupro, ma anche “le osservazioni riguardanti la bisessualità, le relazioni, il rapporto sessuale sentimentale e occasionale” della ragazza prima del fatto.
Secondo i giudici, inoltre, i giudizi sulla scelta della vittima di denunciare la presunta violenza, che secondo la Corte d’Appello sarebbe scaturita “dalla volontà di ‘stigmatizzare’” un suo stesso “momento di fragilità e debolezza”, e il riferimento alla sua “vita non lineare”, sono da considerare “deplorevoli e irrilevanti”.
Insomma, quelli della sentenza sono osservazioni, linguaggi e argomenti che, sottolineano i giudici, “trasmettono pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana” rischiando quindi di “ostacolare una protezione efficace dei diritti delle vittime di violenza” nonostante un quadro legislativo “soddisfacente”.
Secondo la Corte, infatti, l’azione penale e le sanzioni, in particolare, “svolgono un ruolo cruciale” sia nella “risposta istituzionale alla violenza” sia nella “lotta alla disuguaglianza” di genere”. Per questo proprio le autorità dovrebbero “evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali”, evitando anche di esporre le donne alla “vittimizzazione secondaria” con “parole colpevoli e moralistiche” che rischiano di “scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia”.
Da una parte quindi Strasburgo riconosce che “nel caso di specie la questione della credibilità” della ragazza “era particolarmente cruciale” e per questo era possibile “riferirsi alle sue relazioni passate” con gli imputati o “ad alcuni suoi comportamenti durante la serata” del presunto stupro.
Dall’altra la Corte “non vede come la condizione familiare” della ragazza “i suoi rapporti sentimentali o orientamenti sessuali o le sue scelte di abbigliamento” così come “l’oggetto delle sue attività artistiche” possano essere rilevanti per la “credibilità dell’interessato”.
Quindi, secondo Strasburgo, in questo caso, sulla libertà dei giudici di esprimersi e sull’indipendenza della magistratura doveva prevalere la protezione delle presunte vittime di violenza di genere, e cioè il dovere di “tutelarne l’immagine, la dignità e la privacy” compresa “la non diffusione di informazioni e dati personali estranei ai fatti”.
Nella sentenza di assoluzione della Corte d’Appello, in sostanza, la vicenda veniva definita “incresciosa”, “non encomiabile per nessuno”, ma “penalmente non censurabile”. Secondo i giudici, il comportamento della ragazza, che nel 2008, all’epoca dei fatti, aveva 23 anni, faceva supporre “anche se non sobria” fosse comunque “presenta a se stessa”.
Il racconto della giovane, inoltre, nelle motivazioni della sentenza, veniva ritenuto ricco di “contraddizioni” e la versione quindi era “vacillante” e smentita “clamorosamente” dai riscontri. All’epoca già l’avvocato della ragazza, Lisa Parrini, aveva denunciato che nella sentenza c’erano diversi “giudizi morali”.
Come il passaggio sulla vita “non lineare” della ragazza, o la definizione della giovane: “Un soggetto fragile ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali di cui nel contempo non era convinta”
Un’accusa, quella mossa nel 2015 dalla legale della ragazza, oggi appoggiata anche dalla sentenza della Corte europea che nelle conclusioni scrive: “Pur riconoscendo che le autorità nazionali hanno garantito l’articolo 8 della Convenzione nelle indagini e negli interrogatori, la Corte ritiene che i diritti e gli interessi dello stesso articolo non sono stati adeguatamente tutelati nel contenuto della sentenza della Corte d’Appello di Firenze. Ne consegue che le autorità nazionali non hanno tutelato il ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento di cui la sentenza è parte integrante e di grande importanza, vista la sua natura pubblica”.
(da il Fatto Quotidiano)
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Maggio 27th, 2021 Riccardo Fucile
LA TELEFONATA DOPO L’INCIDENTE
Gabriele Tadini, caposervizio della Ferrovie del Mottarone, società che gestisce l’impianto
della funivia che corre a pochi passi dal Lago Maggiore “ha ammesso” le proprie responsabilità rispetto ad alcune contestazioni, in particolare rispetto alla decisione di aggirare le norme relative al sistema frenante di sicurezza che domenica scorsa non è entrato in funzione portando alla morte di 14 persone.
“Li avevamo tolti per evitare che la cabina si bloccasse di continuo”, ha spiegato ai Carabinieri della stazione di Stresa
Una scelta, a dire della procura di Verbania, “consapevole e concordata” con il proprietario della struttura Luigi Nerini ed Enrico Perocchio, consulente esterno per la funivia e dipendente della Leitner che nell’impianto di Stresa ha in carico la manutenzione straordinaria e ordinaria.
Una volontà dettata dai tre – fermati per omicidio colposo plurimo e lesioni plurime – dalla necessità di fronte a delle “anomalie” senza ricorrere alla chiusura della funivia che avrebbe comportato danni economici.
Tadini, ascoltato in caserma a Stresa, avrebbe risposto alle domande del procuratore capo Olimpia Bossi e del pm Laura Carrera, i difensori degli altri due fermati invece precisano che la scorsa notte non sono mai stati sentiti dalla magistratura. Secondo il racconto di Tadini, riportato sul Fatto i superiori erano a conoscenza dell’inserimento dei forchettoni, il secondo è stato ritrovato ieri:
Chiama in causa i suoi superiori che, racconta, erano stati informati del problema, che “andava avanti dalla riapertura”, e cioè dal 26 aprile del 2021. Queste dichiarazioni, fra le 3 e le 4 del mattino di mercoledì, fanno scattare i fermi per altre due persone, anch’es -se convocate come testimoni: Luigi Nerini, 56 anni, amministratore e proprietario della società Funivie del Mottarone srl, ed Enrico Perocchio, 51 anni, ingegnere dipendente della Leitner, che in questo caso risponde per il ruolo di responsabile tecnico Precipita una cabina della funivia Stresa – Mottarone
Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini, i tre fermati accusati dalla procura di Verbania di omicidi colposo plurimo per la tragedia sulla funivia del Mottarone, in concorso tra loro, “omettevano di rimuovere i forchettoni rossi aventi la funzione di bloccare il freno” della cabinovia quindi “destinato a prevenire i disastri”, così “cagionando il disastro da cui derivava la morte delle persone”, secondo quanto si legge nel capo di imputazione della procura di Verbania nei confronti del gestore della funivia, del consulente esterno e del capo servizio dell’impianto in cui domenica scorsa hanno perso la vita 14 persone.
Il Fatto racconta che Tadini subito dopo l’incidente aveva telefonato a Perocchio spiegandogli che “la fune aveva i ceppi”, ovvero i forchettoni che bloccano l’azione dei freni:
“Enrico, ho una fune a terra. La fune è giù dalla scarpata. La vettura aveva i ceppi”. La chiamata si interrompe subito e a Perocchio, ingegnere con 25 anni di esperienza alle spalle nel settore, si gela il sangue nelle vene. È nella sua casa nel biellese, in quel momento. Si mette immediatamente in macchina. E alle 12.20, mentre è già in auto verso Stresa, il cellulare suona una seconda volta. È ancora Tadini. È agitatissimo e gli ripete la stessa cosa: “La vettura aveva i ceppi”.
I freni erano stati disattivati da fine aprile, per evitare che la cabina 3, quella precipitata nel vuoto, si fermasse di continuo. Anche la cabina 4, spiega Olimpia Bossi, la Procuratrice di Verbania che ha disposto i fermi, presentava in parte le stesse anomalie.
Perocchio però, per voce del suo avvocato Andrea Da Prato nega di essere stato a conoscenza della procedura per escludere i freni: “Portare persone con i forchettoni è una pratica suicida, una circostanza che il mio cliente respinge nel modo più assoluto. Non ne aveva idea”.
Proprio lui prima di essere indagato avrebbe mandato una mail alla Procura di Verbania per spiegare che aveva appreso informazioni da un dipendente riguardo “l ’utilizzo improprio del sistema frenante”.
(da NextQuotidiano)
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Maggio 27th, 2021 Riccardo Fucile
LA PROCURATRICE: “PROVIAMO DOLORE E SCONCERTO, HANNO MESSO A REPENTAGLIO LA VITA DI ESSERI UMANI PER IL PROFITTO”
“In questa vicenda la parola soddisfazione non potrà mai esserci. Piuttosto abbiamo provato altro dolore e un amarissimo sconcerto quando ci siamo resi conto che il mancato funzionamento del sistema frenante era esito di una scelta. Qua non c’entra la negligenza, il pressappochismo, quell’errore umano che non rende immuni da responsabilità ma almeno genera una certa comprensione. Ci troviamo davanti a chi, a fronte di un proprio interesse, ha preferito mettere a repentaglio la vita degli altri”. Così, in un’intervista a La Stampa, Olimpia Bossi, procuratrice della Repubblica di Verbania che indaga sul disastro della funivia del Mottarone, costato la vita a 14 persone.
“L’intuito dei carabinieri – afferma Bossi – ha portato subito a un approfondimento e martedì pomeriggio abbiamo convocato i dipendenti di Ferrovie del Mottarone per capire da loro di cosa esattamente si trattava. Lo hanno spiegato ed è emerso in modo inequivocabile: tutti sapevano che il freno restava aperto anche se non doveva”.
Il caposervizio Gabriele Tadini ha ammesso questa consapevolezza?
“Sì, ha risposto alle domande e ha dichiarato che si era fatta quella scelta perché si era sicuri che mai il cavo traente si sarebbe spezzato. Le anomalie erano state riscontrate al sistema frenante della cabina 3, quella schizzata nel vuoto, e in parte nella 4, che fortunatamente domenica si è fermata senza schiantarsi. Da quello che abbiano desunto la 3 viaggiava col freno disattivato da fine aprile, quando è ripreso il trasporto dei passeggeri. Tadini in azienda ha una posizione subordinata al titolare e al direttore dell’esercizio. Noi sosteniamo quindi che anche Nerini e Perocchio sapevano e volevano che si procedesse così per non fermare l’impianto per un controllo approfondito. Quando l’altra notte sono emersi gravi indizi di colpevolezza, abbiamo convocato anche loro due e ho assunto la decisione di procedere con il fermo. Al momento gli altri dipendenti non sono indagati”.
(da agenzie)
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Maggio 26th, 2021 Riccardo Fucile
L’INTERROGATORIO DEL RESPONSABILE DEL SERVIZIO TADINI
Durante gli interrogatori andati avanti per tutta la notte, le persone arrestate all’alba per la strage della funivia Stresa-Mottarone hanno ammesso che «il freno non è stato attivato volontariamente».
A confermarlo è stato il tenente colonnello dei carabinieri Alberto Cigonani dopo i fermi del gestore dell’impianto Luigi Nerini, titolare della Ferrovie del Mottarone, il direttore dell’esercizio Erico Perocchio – che secondo il suo legale non sarebbe ancora stato sentito dagli inquirenti – e il responsabile del servizio, l’ingegnere Gabriele Tadini.
I tre sono accusati di omicidio colposo plurimo, disastro colposo e rimozione degli strumenti atti a prevenire gli infortuni aggravato dal disastro e lesioni gravissime.
I tre fermi per la procuratrice Bossi sono «uno sviluppo consequenziale, molto grave e inquietante, agli accertamenti che abbiamo svolto. Nella convinzione che mai si sarebbe potuto verificare una rottura del cavo si è corso il rischio che ha purtroppo poi determinato l’esito fatale».
La funivia Stresa-Mottarone era tornata in funzione dallo scorso 26 aprile e da «più giorni viaggiava in quel modo e aveva fatto diversi viaggi» ha spiegato la procuratrice Bossi.
Le anomalie sull’impianto però erano note anche prima della ripartenza dello scorso mese. Nel frattempo però erano scattate le riaperture a livello nazionale, con l’allentamento delle misure restrittive anti Covid.
L’attività è comunque tornata operativa nonostante «gli incidenti si sono verificati con cadenza se non quotidiana comunque molto frequente». Lo scorso 3 maggio erano quindi partite le richieste per una serie di interventi tecnici, che però hanno solo rimediato al problema «ma non erano stati risolutivi».
L’interrogatorio
Tadini, il responsabile del funzionamento della Funivia del Mottarone, durante l’interrogatorio ha raccontato che quella del blocco della funivia era diventata una «preoccupazione»: per questo, con gli altri gestori, stava «studiando quale poteva essere la soluzione per risolvere il problema» al sistema frenante di sicurezza.
«Quella cabina aveva problemi da un mese o un mese e mezzo» e per cercare di risolverli sono stati effettuati «almeno due interventi tecnici», ha poi ammesso in un interrogatorio che è durato circa 4 ore.
Ipotesi di nuovi indagati
Potrebbero esserci presto nuovi indagati nell’inchiesta sulla strage di Mottarone. Secondo quanto si apprende in ambienti legali, gli inquirenti stanno infatti valutando la posizione di altre persone. Al momento sono tre le persone accusate di omicidio colposo plurimo, arrestati all’alba del 26 maggio per avere disattivato i freni d’emergenza della funivia. Il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, ha parlato di «una scelta deliberata e assolutamente consapevole» riferendosi all’inserimento del forchettone che avrebbe impedito alle ganasce dei freni di entrare in funzione.
«Per quello che ci risulta oggi il forchettone è stato inserito più volte, non sono in grado di dire se in maniera costante o solo quanto si verificavano questi difetti di funzionamento. Certamente domenica non è stato il primo giorno e questo è stato ammesso». Un azzardo voluto e ripetuto, quindi, che avrebbe messo a rischio la vita di decine di persone salite sulla funivia di Stresa.
«Non si è trattato di una omissione occasionale o di una dimenticanza», ha continuato Bossi, «ma la scelta precisa di disattivare questo sistema di emergenza per ovviare quelli che erano degli inconvenienti tecnici, che si stavano verificando sulla linea, dovuti proprio ad un malfunzionamento del sistema frenante di emergenza. Disattivandolo la cabina poteva fare le sue corse senza problemi».
Nella mattina di oggi è stato trovato anche un secondo forchettone nei boschi del Mottarone. Alle indagini dunque si aggiunge un ulteriore elemento utile a chiarire le dinamiche e le responsabilità della tragedia.
I due interventi tecnici che non hanno risolto il problema
Secondo gli inquirenti, sarebbero stati eseguiti due interventi tecnici sull’impianto dall’azienda incaricata della manutenzione. «Uno è del 3 maggio scorso» spiega Bossi, «e uno precedente». Ma il problema non sarebbe stato risolto, da lì «la decisione di bypassare la questione e di disattivare il sistema di frenata d’emergenza».
La sindaca di Stresa: «Strage che si poteva evitare»
«La notizia di questa mattina è un’ulteriore mazzata», ha detto la sindaca di Stresa Marcella Severino che nelle ultime ore si è recata a Torino per far visita al piccolo Eitan, unico sopravvissuto alla strage, attualmente ricoverato presso l’Ospedale infantile Regina Margherita. «Questa volta sappiamo che la tragedia si poteva evitare. Il buono e il cattivo c’è ovunque, persone così spero ce ne siano pochissime» ha aggiunto riferendosi ai tre arrestati. Severino ha raccontato di non aver potuto vedere Eitan ma di aver parlato con i medici e con la zia del bambino di cinque anni. «La zia Aya è una gran bella persona che sta trovando tutta la forza che serve per stare vicino al nipotino, Eitan è in buone mani».
(da Open)
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Maggio 25th, 2021 Riccardo Fucile
CHIAMATO “U TAMUNGA”, HA TRAFFICATO DROGA PER 30 ANNI ED ERA AL SECONDO POSTO NELLA LISTA DEI DIECI CRIMINALI PIU’ RICERCATI AL MONDO, DOPO MESSINA DENARO
Rocco Morabito, originario di Africo (Reggio Calabria) è stato arrestato ieri in Brasile. Morabito era evaso dal carcere di Montevideo nel 2019 nel quale era stato ristretto dal 2017 quando fu arrestato dai carabinieri e dalla polizia uruguaiana.
Il boss era nella lista dei dieci criminali più ricercati al mondo, al secondo posto dopo Matteo Messina Denaro.
I carabinieri del Ros erano sulle tracce del superboss della ‘ndrangheta Rocco Morabito dal 2019, quando era riuscito a evadere insieme ad altri tre detenuti dalla terrazza del carcere “Central” di Montevideo, in Uruguay, forse grazie all’aiuto di membri dei Bellocco residenti tra Buenos Aires e Montevideo.
Gli investigatori hanno seguito le sue tracce lungo tutto il Sudamerica, fino a riuscire a catturarlo a San Paolo, dove lo hanno arrestato insieme a Vincenzo Pasquino. Fino a ieri si trovava nella città di Joao Pessoa, capitale dello Stato di Paraiba. Lo ha riferito l’emittente uruguaiana “Telenoche” in un messaggio su Twitter.
Il boss è evaso il 23 giugno del 2019 dal carcere Centrale di Montevideo insieme ad altri tre detenuti. Lo hanno arrestato in un’operazione congiunta Interpol, polizia, carabinieri e polizia federale brasiliana, così come riferito dal portale “Wikilao”.
I tre fuggitivi che accompagnavano Morabito nell’evasione a Montevideo sono stati catturati nei giorni successivi. Dell’italiano si erano perse le tracce fino ad ieri. Nell’inchiesta sulla fuga i carabinieri hanno arrestato successivamente anche dei presunti fiancheggiatori di nazionalità russa, che avrebbero favorito l’uscita di Morabito dall’Uruguay.
Il boss, condannato in contumacia dalla magistratura italiana a 30 anni di carcere per traffico di droga, era in attesa di essere trasferito dopo che la giustizia locale aveva concesso l’estradizione nel mese di marzo del 2019. Il boss si celava dietro la falsa identità di un imprenditore brasiliano di 49 anni, di nome Francisco Cappelletto. La giustizia uruguaiana tuttora indaga sulle eventuali complicità interne che hanno favorito la rocambolesca fuga attraverso la terrazza del carcere e da lì ad un appartamento al quinto piano di un edificio adiacente.
Il boss, esponente di spicco della cosca Morabito – Bruzzaniti – Palamara di Africo Nuovo (RC), è affiliato alla locale di Volpiano (To). Dall’anno della sua evasione da un carcere dell’Uruguay, nel 2019, il Ros è stato sulle sue tracce senza mollare mai fino a oggi. La squadra di circa 20 uomini arrivata in Brasile è riuscita a far scattare la trappola e a catturare Morabito a San Paolo. Con lui c’era un altro narcotrafficante latitante, Vincenzo Pasquino.
Morabito, cugino del boss Giuseppe Morabito, detto “‘u tiradrittu’, ha gestito, secondo gli inquirenti, un gigantesco traffico di droga che dal Sudamerica si diramava verso la Sicilia, quindi la Lombardia e la Calabria, inondando l’Italia di cocaina.
In Uruguay, dove da carcerato (dopo 23 anni di latitanza) riuscì a fuggire, lo conoscevano col nome di “Souza”. Il boss, infatti, come accertò la polizia, era riuscito a procurarsi documenti brasiliani su cui compariva il nome di Francisco Antonio Capeletto Souza di Rio de Janeiro. Nell’ottobre del 1994 era riuscito a sfuggire alla cattura, per poi trasferirsi in Sudamerica.
(da agenzie)
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Maggio 25th, 2021 Riccardo Fucile
L’INDAGATO SI E’ AVVALSO DELLA FACOLTA’ DI NON RISPONDERE… SI CERCANO POSSIBILI COMPLICI DELLE VIOLENZE SESSUALI
Hanno raccontato di essere state sequestrate per “giorni” o addirittura “settimane”
due delle ragazze sentite ieri dai pm di Milano nell’inchiesta su Antonio Di Fazio, imprenditore in carcere da venerdì con l’accusa di aver narcotizzato e violentato una 21enne.
A quanto si è saputo, dai verbali delle due giovani (anche una terza ieri ha parlato coi pm) emergerebbero racconti descritti come da “film dell’orrore”.
Le tre ragazze avrebbero descritto sempre lo stesso “modus operandi” da parte di Di Fazio, ossia l’invito in azienda e a casa con l’offerta di uno stage formativo e poi la narcotizzazione con tranquillanti sciolti nelle bevande e infine gli abusi e le fotografie.
Due delle giovani, studentesse dalla vita ‘ordinaria’ alla ricerca di un impiego, hanno descritto, in particolare, di essere state tenute sotto sequestro anche per diversi giorni, addirittura “settimane”, è stato chiarito dagli inquirenti, perché erano state drogate con le benzodiazepine e versavano, poi, in uno stato di “soggezione psicologica”, perché avevano paura di quell’uomo.
L’imprenditore, usando dosi massicce di tranquillanti, aveva l’obiettivo anche di cancellare tutti i loro ricordi.
Una terza ragazza, da quanto si è saputo, sarebbe riuscita a sfuggire prima dal suo aguzzino, mentre la 21enne, la cui denuncia nei mesi scorsi ha portato all’arresto quattro giorni fa dopo le indagini dei carabinieri, rimase in balia di Di Fazio dal tardo pomeriggio fino a dopo mezzanotte.
Investigatori e inquirenti, nel frattempo, stanno già raccogliendo riscontri utili a confermare i racconti delle giovani, mentre altre ragazze hanno già contattato gli investigatori e sarebbero pronte anche loro a denunciare.
Si indaga, intanto, anche su una presunta “rete” di complici che potrebbero aver aiutato il manager ad avvicinare le studentesse e il sospetto di chi indaga è che pure altre persone potrebbero aver preso parte agli abusi.
(da agenzie)
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Maggio 23rd, 2021 Riccardo Fucile
“HO SOLO RIMOSSO DELLE BICICLETTE DALL’ANDRONE DEL COMUNE”… MA LA DENUNCIA DEGLI IMMIGRATI AI CARABINIERI HA PORTATO AL RITROVAMENTO DI UNA BICI A CASA DEL SINDACO
Sarà la giustizia a dare il verdetto su ciò che è accaduto al sindaco di Stirano, in
provincia di Napoli, in un caso che farà discutere: un furto di biciclette
“Non ho commesso nessun furto, mi sono limitato a rimuovere alcune biciclette ferme, , nell’androne del Comune e poste in modo da ostruire anche il regolare passaggio. Non sapevo a chi appartenessero quei mezzi”
Questa è la difesa del sindaco Antonio Del Giudice, raggiunto insieme ad altre due persone (volontari di protezione civile) da un avviso di conclusione indagini con un’ipotesi precisa di reato: furto pluriaggravato.
Perché secondo la Procura della Repubblica di Torre Annunziata e secondo i carabinieri della compagnia oplontina che hanno svolto le indagini dopo la denuncia presentata da uno dei proprietari delle bici, quei mezzi sarebbero stati portati via intenzionalmente e sapendo precisamente a chi appartenessero.
Ovvero ad alcuni immigrati che data la vicinanza del Comune con la stazione della Circumvesuviana fermavano lì i loro mezzi di trasporto per poi partire alla volta di Napoli, dove lavorano come ambulanti in aree mercatali.
Siamo a metà novembre: stando alle conclusioni a cui sono arrivati gli inquirenti, il sindaco si arma di una grossa tronchese e, facendosi aiutare dagli altri due indagati, spezza le catene che assicurano le biciclette dalle azioni dei malintenzionati.
Alcune foto finiscono sui social e alimentano quello che diventa un dibattito politico che durerà diversi giorni
La discussione finisce anche in consiglio comunale, dove l’opposizione non risparmia critiche ad Antonio Del Giudice nemmeno sull’appartenenza politica, lui che è espressione di Fratelli d’Italia.
Sta di fatto che quando i proprietari sono tornati e non hanno più trovato le loro bici, dopo aver chiesto spiegazioni ottenendo a quanto pare solo risposte poco convincenti, hanno deciso di rivolgersi ai carabinieri.
Le indagini porteranno al ritrovamento delle biciclette, una delle quali sarebbe stato recuperata proprio a casa del sindaco Del Giudice.
Ora la nuova svolta, con la notifica del provvedimento di conclusione delle indagini, provvedimento a seguito del quale i tre indagati potranno presentare proprie memorie difensive entro venti giorni.
(da Fanpage)
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Maggio 23rd, 2021 Riccardo Fucile
A OSCAR LANCINI PIGNORATI I CONTI CORRENTI DAL TRIBUNALE DI BRESCIA
Danilo Oscar Lancini, eurodeputato della Lega, ha ricevuto una denuncia da parte
della moglie per violazione degli obblighi di mantenimento.
L’ex sindaco di Adro finito oggi componente del gruppo Identità e democrazia a Strasburgo ha partecipato a un evento del Family Day. La donna ha ottenuto il pignoramento dei conti correnti dal tribunale di Brescia.
Lancini, racconta oggi Il Fatto, era all’evento sulla famiglia sotto attacco e sbandiera i valori della famiglia tradizionale. La moglie lamenta mancati versamenti per oltre ventimila euro. Lancini si è opposto al pignoramento che però resterà in atto fino al 23 giugno. Ovvero la data dell’udienza in cui il leghista spera di vedere accolto il suo ricorso. Nel frattempo, la moglie – con cui sta portando avanti le pratiche di separazione – si vuole tutelare anche con la denuncia penale.
E, assistita dall’avvocato Pierantonio Paissoni, contesta al leghista di non aver pagato quanto dovuto per circa 10 mesi a cavallo tra il 2020 e il 2021. Contattato dal Fatto, Lancini ne fa una questione di privacy: “Sono cose personali che non c’entrano nulla con la mia attività politica”. Neanche con le sue battaglie in favore dei sani principi familiari? “I miei valori non vengono meno se capita una cosa del genere nella mia vita privata”
Lancini oggi convive con un’altra donna, con cui ha avuto due figli. Qualche anno fa si parlò di lui perché, da sindaco di Adro, nel bresciano, inaugurò una scuola elementare totalmente griffata Lega Nord: il simbolo del Sole delle Alpi ricopriva arredi, porte, finestre, persino bidoni dell’immondizia. Dopo un paio di mancate elezioni al Parlamento, Matteo Salvini gli ha concesso la promozione a Bruxelles.
(da agenzie)
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