CELODURISMO, ARMI E MAGA: ECCO PERCHE’ ADESSO IL GOVERNO RISCHIA IL VIETNAM
LA LEGA HA MANI LIBERE, L’UCRAINA E TRUMP POSSONO SPACCARE LA MAGGIORANZA
Conta il risultato, dice Giancarlo Giorgetti, ed è il mantra che da tre anni la
maggioranza ripete ogni volta che si segnalano divergenze interne. Conta il risultato, conta il voto finale, e alla fin fine sull’Ucraina, sulla manovra, su tutto, la Lega ha sempre votato con gli altri e Forza Italia pure. Molto rumore per nulla, scrivono i quotidiani d’area, tempesta in un bicchier d’acqua dicono i portavoce in coro. Tempi rispettati, corsa di fine anno come al solito, è sempre successo così. E tuttavia è proprio l’eccesso di rassicurazioni ad amplificare le sirene d’allarme che
suonano da settimane. In sintesi: un 2026 a rischio Vietnam per il centrodestra.
Perché il 2026 è anno pre-elettorale, e nella prospettiva di una riforma proporzionale ciascuno dovrà mostrare i muscoli al suo elettorato. Perché Matteo Salvini non avrà un Ponte da magnificare nelle slide, e vai a vedere che pure sul Pnrr ferroviario non prenda una batosta, e dunque qualcosa dovrà inventarsi per muovere il consenso. Perché Antonio Tajani è stato più volte chiamato a una prova di protagonismo e autonomia dalla famiglia Berlusconi, e non potrà più fare finta di niente. Perché la stessa Giorgia Meloni si gioca tutto e il “non sono ricattabile” con cui ha inaugurato il suo premierato dovrà essere confermato, anche a spese degli junior partner in cerca di rimonta.
Ci sono almeno tre controprove della frana del patto di responsabilità che ha tenuto in asse la maggioranza per 36 lunghissimi mesi.
La prima è il trucco da Prima Repubblica con cui la Lega si è aggiudicata una facile vittoria sul tema pensioni: ha mandato avanti un emendamento che non condivideva, ha lasciato che il Mef lo mettesse nero su bianco con la controfirma di Giorgetti, poi appena si sono accesi i riflettori ha fatto saltare il banco. Poteva mettersi di traverso prima, bloccare tutto fin dall’inizio, ma non avrebbe raccolto il risultato a cui puntava: riqualificarsi come paladina dei diritti dei pensionandi, la forza coraggiosa che minacciando la crisi (ma figuriamoci!) è riuscita a rimettere in riga il governo. Il solo aver costretto Giorgia Meloni alle forche caudine di un vertice notturno, giovedì scorso, dopo il tour de
force a Bruxelles su Ucraina e beni russi congelati, è già un successo dal punto di vista di Matteo Salvini: la prova generale di quel che potrà dire, fare, combinare nell’anno “delle mani libere” che si sta per aprire.
Il secondo riscontro alla prospettiva Vietnam è l’aperto conflitto esploso sul decreto Ucraina. Che esistessero convinzioni differenti lo si sapeva da un pezzo, ma mai era successo che idee diametralmente opposte sul ruolo dell’Italia fossero portate in pubblico attraverso interviste e dichiarazioni in dissenso. “Serve discontinuità”, dice apertis verbis Claudio Borghi, il miles gloriosus che Salvini manda avanti quando vuole dare segnali. E dunque aiuti civili e “strumentazioni solo difensive a differenza di quanto avvenuto finora”. Servono “anche armi” controbatte Antonio Tajani parlando con La Stampa, e così anche il compromesso immaginato – un contorto paragrafo che possa essere liberamente interpretato un minuto dopo il voto – diventa banco di prova: misurerà la capacità di interdizione della Lega e il potere effettivo del suo leader. Vale la pena ricordare che fin dal suo debutto nel 2022 il governo di centrodestra ha presentato l’invio di armi all’Ucraina come ovvio atto di coerenza rispetto alle linee di politica estera del Paese. “I vari governi che si susseguono – disse Guido Crosetto al suo esordio come ministro della Difesa – implementano le scelte ed onorano gli impegni che i governi precedenti hanno sottoscritto”. Dunque la discontinuità invocata dalla Lega, comunque si manifesti nel testo del decreto, non sarebbe cosa da poco: segnalerebbe il cambio di una storica e pluri-confermata posizione della Repubblica italiana.
Il terzo segnale è esterno. È nell’escalation degli attacchi russi alle istituzioni italiane. È negli spifferi americani che indicano l’Italia come uno dei Paesi su cui puntare per infrangere l’unità europea in nome della dottrina Maga. Indicano sollecitazioni alla nostra politica, ai nostri partiti, ai loro uomini e alle loro donne, e dunque nuovi terreni di scontro poco decifrabili ma concreti e densi di conseguenze. Nel 2026 anche questo potrà rivelarsi detonatore di guerriglie finora tenute a bada dai compromessi in cui la maggioranza è specialista: dire Vietnam magari è esagerato, ma la navigazione senza scosse degli ultimi tre anni è già adesso un ricordo, difficilmente potrà essere ripresa.
(da La Stampa)
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