GARANTE DELLA PRIVACY, LA TRISTE STAGIONE DELLE LIBERTA’ VARIABILI
IL COSTITUZIONALISTA AINIS: “LE AUTORITA’ SONO SENTINELLE DEI DIRITTI, MA DEVO APPARIRE INDIPENDENTI, NON E’ QUESTO IL CASO”
Il tentativo — malevolo e maldestro — di mettere un bavaglio a Report non è che l’ultimo episodio. Ne è stato artefice il Garante della privacy, che a quanto pare si preoccupa di tutelare la propria privacy, anziché la nostra. Però la trasmissione di Ranucci è andata in onda, mentre il Garante è finito sotto un’onda. Recando un danno non soltanto alla libertà d’informazione, ma al suo stesso ruolo. Le autorità indipendenti sono altrettante sentinelle dei diritti, tuttavia possono riuscirci a condizione d’apparire davvero indipendenti dai potentati economici e politici. Non è questo il caso. E d’altronde l’assalto alla libertà di stampa registra ogni giorno una nuova puntata.
Qualcuno dirà: nulla di nuovo. La volontà di reprimere il dissenso è antica quanto l’esperienza del potere, si ripete perciò lungo tutti gli itinerari della storia. Ne fu vittima Cristo, processato e ucciso per le sue parole; ma si può inoltre ricordare la persecuzione di Socrate, o più tardi di Giordano Bruno, o di mille altri martiri della libertà. Del resto la repressione delle voci antagoniste agisce in molte forme, non soltanto con la forca. E ha raccolto paladini autorevoli come Thomas Hobbes, che avallò il potere dello Stato di proibire la diffusione di opinioni pericolose per la pace sociale.
Sennonché la circolazione di opinioni dissonanti giova a tutti, a chi è d’accordo e a chi non è d’accordo. Non foss’altro che per la ragione illustrata nell’Ottocento da Alexis De Tocqueville, dato che ciò frappone un argine alla «tirannia della maggioranza».
È questo, infatti, il lascito del costituzionalismo, della cultura dei
diritti che ha aperto l’età contemporanea. Ma questo lascito adesso si è appannato, benché sopravvivano — almeno sulla carta — le garanzie giuridiche che proteggono l’informazione nel suo duplice aspetto: la libertà d’informare, senza altri limiti che quelli dettati dalla deontologia dei giornalisti; la libertà d’essere informati.
Se però si viaggia dal paradiso della Costituzione all’inferno della vita reale, il paesaggio è di tutt’altro stampo. Stando alla classifica sulla libertà di stampa stilata ogni anno da Reporter sans frontières, nel 2025 il risultato italiano è stato il peggiore dell’Europa occidentale, scivolando dal 46° al 49° posto rispetto al 2024.
Per quali ragioni? Da un lato, «il tentativo della classe politica di ostacolare la libera informazione in materia giudiziaria attraverso una legge bavaglio» (ossia il decreto legislativo n. 198 del 2024, che vieta la pubblicazione testuale delle ordinanze d’arresto). Per altri versi, «la prassi di azioni legali intentate per intimidire, imbavagliare o punire coloro che cercano di esprimersi su questioni di interesse pubblico».
Alla crisi della libertà di stampa s’accompagnano altresì molteplici episodi di censura contro le voci non allineate, specialmente dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Provocata dall’invasione russa, e avversata giustamente dall’Europa, fornendo assistenza all’esercito ucraino. Ma un conto è la politica, un conto è la cultura. Ci si può opporre a Putin, non all’arte russa. Né silenziare chi manifesti un’opinione divergente
rispetto alle verità ufficiali.
Eppure in questi ultimi mesi sono stati annullati prima un concerto alla Reggia di Caserta di Valery Gergiev, direttore d’orchestra russo di fama internazionale; poi un’esibizione all’Arena di Verona del baritono russo Ildar Abdrazakov. E sempre con il beneplacito del ministro della Cultura, Alessandro Giuli: «L’arte è libera, ma la propaganda è un’altra cosa». Mentre nei giorni scorsi è caduta sotto la scure del censore una conferenza a Torino di Angelo d’Orsi, allievo di Bobbio e storico illustre, su “Russofobia, russofilia, verità”.
Sorvegliare e punire, recita un celebre saggio di Foucault. E negli ultimi anni la vigilanza occhiuta dello Stato italiano si concentra sui giornalisti scomodi e sugli oppositori radicali, come mostra il caso Paragon. Quando abbiamo scoperto che i loro cellulari erano stati infettati da uno spyware messo a punto dalla società israeliana Paragon Solution, che lo ha fornito alle agenzie di intelligence di vari Paesi, fra i quali l’Italia. Dal canto suo, il governo ha subito negato ogni implicazione. Negare sempre, anche di fronte all’evidenza: la strategia eterna dei fedifraghi.
Michele Ainis
(da repubblica.it)
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