IGNAZIO LA RUSSA: QUANDO L’ARBITRO DIVENTA TIFOSO
PIU’ CHE IL NUMERO DUE DELLA REPUBBLICA, PENSA DI ESSERE IL NUMERO UNO DELLA CURVA NORD
Era il 13 ottobre di tre anni fa, un giovedì piovoso. Quel giorno, salendo sullo scranno più alto del Senato, Ignazio La Russa pronunciò «una sincera promessa». Questa: «Cercherò con tutte le mie forze di essere il Presidente di tutti. Ve lo giuro». Allora pensammo che volesse seguire gli esempi dei suoi più illustri precedessori. Che volesse fare come Amintore Fanfani, che si autoconfinò in una posizione istituzionale sobria e defilata. O come Francesco Cossiga, che evitò accuratamente ogni riunione di partito. O piuttosto come Giovanni Spadolini, che si tenne lontano da qualunque evento politico, anche come semplice spettatore. O magari aveva in mente i modelli di comportamento
di autorevolissimi presidenti della Camera. Quello di San dro Pertini, per esempio, che non prese mai parte alle manifestazioni del Psi. O quello di Nilde Iotti, che nei suoi 12 anni alla guida di Montecitorio rifiutò tutti gli inviti ai comizi del Pci. O quello di Giovanni Leone, che addirittura si autosospese dalla sua corrente democristiana.
«Sono sempre stato un uomo di partito, ma in questo ruolo non lo sarò», giurava La Russa. Solenne il tono, ferma la voce, franco lo sguardo. Provammo a prenderlo sul serio. Anche uno che ha guidato i militanti missini a Milano, pensammo, anche uno che teneva in casa il busto di Mussolini, può essere investito dalla grazia di Stato nel momento in cui viene eletto alla seconda carica della Repubblica. E magari lo pensava anche lui. Poi, si sa come vanno queste cose, man mano che passavano i giorni, le settimane e i mesi La Russa deve aver pensato che quella promessa non andava presa alla lettera. Che ne andava colto solo lo spirito. La buona intenzione, ecco. Senza stare a guardare il capello.
Così a poco a poco ha ripreso a muoversi e a parlare come militante di partito. L’elenco delle sue uscite sotto la bandiera di
Fratelli d’Italia è troppo lungo. Limitiamoci all’ultimo mese. Il 19 ottobre manda un videomessaggio alla convention a Catania: «State lavorando molto bene, complimenti». Il 26 chiude la manifestazione di Assago: «La fiamma c’è ancora, abbiamo tutti una radice». Il 6 novembre si presenta a Pagani per la campagna elettorale di Edmondo Cirielli: «Non potevo esimermi dal testimoniare la sua dirittura morale». Il 14 novembre torna in Campania, tra i militanti con la versione napoletana del berretto trumpiano (“Make Naples Great Again”), per sostenere l’ex ministro Sangiuliano: «Ha fatto di più Gennaro in pochi mesi che gli altri dieci ministri che l’hanno preceduto».
Un giorno, a chi gli ricordava quella promessa di tre anni fa, ha risposto serafico: «Se uno non è presidente della Repubblica ha l’obbligo di essere super partes solo nell’esercizio delle sue funzioni». Ma anche di queste parole deve essersi dimenticato, quando ha annunciato con l’esultanza di un tifoso l’esito della votazione decisiva sulla contestatissima riforma della giustizia: «Il Senato approva! Bene, bene, bene!».
Il suo modo di fare è così naturale, così spontaneo, così coerente con sé stesso, che lascia l’impressione che le istituzioni si
debbano adattare a lui, non lui alle istituzioni. Rivelatrice è la sua polemica con il ct degli azzurri, Gattuso: «Non si può dire vergogna allo spettatore che fischia». Perché tra la Nazionale e i tifosi, lui sta dalla parte dei tifosi. È uno di loro. Il problema è tutto qui: più che il numero due della Repubblica, La Russa pensa di essere il numero uno della curva Nord.
(da lespresso.it)
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