IL VOTO E LA BOLLA DEL RISENTIMENTO
ALLE ORIGINI DEL SUCCESSO DI FRATELLI D’ITALIA
Vogliamo capire la politica solo con gli strumenti della politica? Sinceramente? Uhm, mi sembra vano, forse velleitario, certamente insufficiente.
La politica oggi -per così dire- ha ragioni che la politica non spiega. C’è bisogno d’altro. Sono fra quanti amano la razionalità della politica. Talvolta addirittura mi sfugge di dire che “la politica è matematica”, ma non lo è, almeno se non amplifichiamo, e di molto, le parole, la misura e i concetti della razionalità politica. Cioè, se non ci accontentiamo di restare nel tradizionale e confortante lessico dell’interpretazione politica usuale: destra vs sinistra; liberalismo vs. socialismo e così via. Dobbiamo andare oltre.
Vediamo prima i fatti, poi l’interpretazione. Possiamo davvero dire che la crescita di Fratelli d’Italia, che nelle Europee del 2014 aveva meno del 4%; quattro anni dopo, alle Politiche, aveva ancora il 4,4%; e nel 2019, cioè tre anni fa, aveva appena il 6,4% e oggi i sondaggi gli attribuiscono qualcosa vicino al 25%, sia una crescita interpretabile con i vecchi criteri di giudizio della politica?
Cioè destra contro sinistra, ideologia contro ideologia, e così via? Al netto delle abilità della sua leader, delle posizioni atlantiste nell’aggressione russa all’Ucraina, e degli errori degli altri, ci dev’essere dell’altro alla base di questa crescita. Ancora qualche dato e poi affrontiamo il cuore della questione.
Allo stesso modo, bastano criteri politici tradizionali per capire l’ascesa e la caduta del Movimento Cinque Stelle?
Fuori dal panorama tradizionale dei partiti, esordisce sul piano nazionale alle Europee del 2014 con il 21,1%, per arrivare al 32,7% nelle politiche del 2018, dopo di che, in appena un anno, si vede dimezzare i consensi (17,1%) e oggi i sondaggi gli attribuiscono qualcosa intorno al 10%. È possibile che in tre anni (al netto della prova negativa del governo) un partito perda, più o meno, i due/terzi dei suoi elettori?
Veniamo al Pd che, sempre nel 2014, aveva raggiunto il 40,8% dei voti, per poi dimezzarli quattro anni dopo (18,8%), risalendo poi al 22,7% nel 2019, con i sondaggi che gli attribuiscono oggi qualcosa intorno al 24%. Stesso movimento dei Cinquestelle si registra per la Lega, che in cinque anni, passa dal 6,5% al 17,4% e poi arriva al 34,3% nelle Europee del 2019.
In sostanza, se guardiamo ai minimi e ai massimi nelle elezioni nazionali, tralasciando quelle locali, dove alcune differenze diventano addirittura abissali, per ogni partito abbiamo scarti incredibili, impossibili da intendere come cambi ideologici, o di strategia politica, o semplicemente interpretabili lungo l’asse tradizionale sinistra-destra.
Veniamo allora alla soluzione dell’enigma, senza citare studi, ragionamenti più complessi e con un’analiticità incompatibile con la natura breve del post.
Dopo la crisi economica del 2008, che ha rotto l’incanto della globalizzazione, in Europa e negli Stati Uniti è cresciuta una bolla pre-politica fatta di un miscuglio di emozioni, il cui dato fondamentale è il risentimento.
Risentimento verso un nemico che ha preso molte facce: contro il globalismo; contro l’immigrazione, come suo portato diretto e necessario (la globalizzazione si differenzia dal tradizionale liberismo perché prevede non solo lo spostamento delle merci, ma anche quello del capitale e del lavoro); contro il multiculturalismo (come difesa identitaria delle proprie radici, religiose, di stile di vita, di gerarchia dei valori); e contro una serie abbastanza lunga di componenti connessi o conseguenze del fenomeno generale.
Il risentimento nasce dalla percezione di una sottrazione ingiusta: dei centri urbani contro le periferie; delle categorie intellettuali contro quelle dei lavoratori a più basso reddito; delle imprese globali contro le piccole imprese.
Il fenomeno del risentimento è alimentato dalla politica e dai leader temporanei che, volontariamente o involontariamente, se ne fanno interpreti, ma è resa possibile solo dalle connotazioni cognitive con cui viene giudicato il mondo.
Se sono convinto che sia un complotto a determinare il futuro del mondo; se sono convinto che l’immigrato è un pericolo (anche se ho in casa qualcuno di loro che aiuta nelle vicende domestiche o che serve nelle professioni più umili); se sono convinto che il sapere è semplicemente un modo per ottenere il potere, allora alla razionalità politica si sostituisce qualcosa di molto diverso, più emotivo, intimamente connesso al modo in cui si acquisiscono e si interpretano i fatti del mondo.
Questa bolla si manifesta in politica in tanti modi, e sicuramente uno dei modi attraverso cui guardare alla qualità della leadership di un politico è proprio come “governa” la bolla.
Nel 2012-14 si sintonizza con la “rottamazione” di Matteo Renzi: vede la critica radicale alla classe dirigente; vede una parola d’ordine accordata con un sentire comune; vede una nuova presenza nel campo politico che poteva scardinare l’ordine esistente.
Subito dopo, repentinamente, la bolla si sposta però sul Movimento Cinquestelle. La sua critica radicale, iconoclasta, contro la classe dirigente si fa ancora più netta e l’offerta (poi clamorosamente delusa) di palingenesi generale permette a Grillo di superare il 30%.
In meno di un anno la bolla si sposta poi su Salvini. È il momento in cui il “nemico” è l’immigrato, perciò l’insieme informe di paure, attese e ansie che prende una differente traduzione politica, e perciò la Lega diventa il primo partito appena un anno dopo.
In questi ultimi mesi la bolla si sposta su Meloni, l’unica non ancora alla prova del governo, che interpreta l’insoddisfazione verso idee e trasformazioni della società lontane dalla tradizione e dall’identità del Paese.
Il risentimento è un magma indistinto nei suoi esiti politici, perché ne può prendere di vari e opposti, ma non sulle sue ragioni di fondo.
Il sentimento prevalente è quello di una “espropriazione” della “sovranità” popolare di determinare il futuro del Paese, da forze e valori che appaiono estranei, quando non nemici.
Ha una componente economica (e d’altro canto ogni statistica, in ogni paese occidentale, segnala la crescita delle diseguaglianze); ha una componente valoriale; ha una componente antropologica, tanto che si vota chi appare più vicino a sé, a prescindere dalla “razionalità” politica. Si vota per somiglianza, o per l’apparire somiglianti, non per l’analisi dei programmi.
Dicevo all’inizio che non bastano gli strumenti della politica per capire la politica, ma qui c’è da prendere atto che la politica, l’appartenenza politica, la partecipazione politica, il “fare politica” sono molto diversi da quelli immaginati dalla maggior parte degli osservatori di cose politiche.
Ogni volta razionalizzano gli eventi attribuendoli ora a questa abilità; ora a questa congiuntura; o peggio ancora, alla conseguenza delle manovre politiche.
C’è qualcosa che muove oggi la politica e che sfugge a questi meccanismi. Si tratta allora di lavorare sui bias cognitivi, che per definizione è lavoro profondo e non istantaneo; di capire che un’offerta politica non sarà mai sufficiente, se non conterrà una componente emozionale, magari di utilizzo e di trasformazione del risentimento; di una distinzione tra i fatti, che chiedono decisioni (ad esempio come rispondere alle ineguaglianze) e l’ideologia che vi è costruita intorno che, erroneamente, chiede solo protezione, come se quello che succede in una società siano solo giochi a somma-zero, in cui occorra solo battersi per avere, qui e ora, la propria parte.
Lavoro complicato, la cui parte iniziale, e fondamentale, è proprio la comprensione di quel che sta succedendo. Le situazioni nuove obbligano a strumenti nuovi di comprensione e di fare politica, altrimenti si sta dentro la bolla, e non si sa.
(da la Repubblica)
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