Ite Missa est.
Ite Missa est. E subito si accende un fragore di tuoni e lampi e la tempesta si abbatte spietata sulla Chiesa e, naturaliter (che bello il latino!) , sul Papa che è il suo parafulmine.
Dal 14 settembre scorso, festa dell’Esaltazione della Santa Croce – la data non è stata scelta a caso – i fedeli che desiderano seguire la messa in latino non dovranno più riunirsi come carbonari, di nascosto, vergognandosi, agli occhi della nostra società così colta, così smart e hi-tech, di questa loro debolezza da catacomba.
Benedetto XVI ha fatto quello che anche il suo predecessore, Giovanni Paolo II, avrebbe approvato e a cui aveva iniziato a porre mano.
Con il Motu Proprio sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, il Pontefice ha di fatto ribadito – perchè l’uso del vecchio Messale romano non era mai stato vietato nè tanto meno abolito – la possibilità di celebrare la messa seguendo, appunto, il Messale Romano promulgato da San PioV e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII. “Sono infatti due usi dell’unico rito romano”, ha tenuto a precisare Benedetto XVI.
Verrebbe da dire: ma benedetto Papa Benedetto, non ne avevi abbastanza di aborto, eutanasia, famiglia, scuola per metterti anche a dare una rispolveratina al vecchio rito? Non potevi lasciare le cose come stavano, almeno in campo liturgico, in modo che i cosiddetti progressisti, all’esterno e, purtroppo , anche all’interno della Chiesa si baloccassero ancora un po’ con l’idea che la Tradizione, quella con la “t” maiuscola, fosse stata seppellita almeno sotto l’altare rivolto verso l’assemblea?
Verrebbe da dire così a chi non ha missioni da compiere, a chi non ha avuto il pesante e pur lieve deposito della fede da custodire e un gregge bizzoso e ribelle da ricondurre all’ovile.
Ma lui, Benedetto, questo compito lo ha avuto, ha chinato la testa e si è rimboccato le sacre maniche.
E ha fatto tutto con la consueta delicatezza, spinto da un cuore di padre che si preoccupa non solo della maggioranza dei suoi figli, ma anche di quelli che sono una piccola minoranza e pascolano un po’ più in là .
Il modo di operare di questo nostro, davvero benedetto Papa, la sua paterna sollecitudine, si può verificare, nero su bianco, nella lettera che ha inviato ai Vescovi come nota esplicativa al Motu Proprio. Una specie di istruzioni per l’uso in modo che tutto sia compiuto per la maggior gloria di Dio, senza fratture o incomprensioni.
Nella lettera il Papa ricorda che “il Messale del 1970, quello di Paolo VI, rimane la forma ordinaria della Liturgia Eucaristica” l’altro invece “potrà essere usato come forma straordinaria della Celebrazione”. Il Papa mette poi in rilievo come l’uso del vecchio Messale “non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, restò sempre permesso”. “Al momento dell’introduzione del nuovo Messale – continua il Papa – non è sembrato necessario emanare norme proprie per l’uso del Messale anteriore” perchè “si suppose che si sarebbe trattato di pochi casi singoli che si sarebbero risolti, caso per caso, sul posto” invece, aggiunge “nel frattempo è emerso chiaramente che anche molti giovani scoprono questa forma liturgica, si sentono attirati da essa e vi trovano una forma,particolarmente appropriata per loro, di incontro con il mistero della Santissima Eucarestia”.
Sarebbe una lettera da leggere integralmente e chiunque può farlo richiedendone una copia alle librerie cattoliche o spulciando da Internet. Ne vale davvero la pena perchè, tra queste righe , si scopre una grande ricchezza di umanità e di amore per la Chiesa.
Sicuramente la maggioranza dei laici dirà , quando va bene, “affari loro”, altri si sentiranno invece in diritto di dire al Papa come fare il Papa, con toni più o meno minacciosi, ma Benedetto non si smuove di un millimetro perchè sa di cosa parla, e, soprattutto, sa in nome di Chi parla e agisce.
La questione è che della Liturgia in sè, ai suoi detrattori, non importa un fico secco, neppure sanno cosa sia e cosa rappresenti, giudicano con metro umano qualcosa che umano non è, un insieme di gesti e parole che travalica il piano naturale e accosta, per un breve spazio di tempo e di luogo, il modo della terra con quello del Cielo.
Ne dà conto perfettamente il padre benedettino Franà§ois Cassingena-Trèvedy in un suo bellissimo libretto (“La bellezza della liturgia”): “Diamo alla Liturgia tutto lo spazio e il tempo di cui ha bisogno, lasciamo alla Parola, alla preghiera, alle melodie, ai raggi di luce, all’incenso, il tempo e lo spazio per toccare Dio e toccare l’uomo, il tempo e lo spazio per andare a tornare.
Tutta la Liturgia sta in questo va e vieni, in questo spazio aerato, questo respiro, questo interstizio dove si intrufolano gli angeli. Lasciamo agli angeli il tempo e lo spazio: essi concelebrano con noi, come ci assicura tutta la tradizione liturgica … Lasciamo a Dio tutta la libertà di raggiungerci e diamo anche a noi stessi tutta la libertà di raggiungerlo sulla scala a doppio senso delle parole, dei gesti e dei segni”.
E’ di questo che sarebbe bello parlare e ragionare, senza scagliarsi a testa bassa contro la Chiesa, ma pensando, almeno una volta, che forse esiste qualcosa che ci sovrasta e che meriterebbe un po’ più di attenzione.
“Chi può capire, capisca” (Mt. 19,12).
Flora
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