KHELIF LOTTERA’ PER L’ORO, MA IL SUO CALVARIO NON FINISCE. LEI SORRIDE: “E’ STATA DURA, MA HO DIMOSTRATO CHE SONO IMANE”
IL PUBBLICO FA IL TIFO PER LEI, BANDIERE E CORI IN UNA BOLGIA, MOLTE DONNE SUGLI SPALTI PER SOSTENERLA CONTRO LA FOGNA SOVRANISTA
Cos’è questa animazione al Roland Garros alle dieci e mezza di sera? Cosa ci fa un ring là dove due giorni fa si sono affrontati Nadal e Djokovic? Cosa sono tutte queste bandiere algerine? Cos’è questa diffusa curiosità, certo legittima, ma talora più da voyeurs che da tifosi?
Doveva esserci un’atmosfera del genere nella Parigi della Restaurazione: era il 1815 quando una donna di colore veniva esibita negli «zoo umani», che riscuotevano all’epoca grande successo. Si chiamava Saartjie Baartman, piccola Sara in afrikaner. Era nata in Sudafrica, parlava olandese, e aveva caratteristiche diffuse nella sua etnia, i khoikhoi: le natiche molto carnose e le piccole labbra della vagina prominenti. La chiamarono la Venere ottentotta, pagavano per vederla, ridevano di lei e nel contempo ne avevano paura. Le distrussero la vita. Alla sua morte, parti del suo corpo furono esposte nel Museo dell’Uomo al Trocadero, fino al 1974, quando il nuovo presidente Giscard le fece togliere e custodire nei depositi. Liberato dalla prigionia ed eletto capo del nuovo Sudafrica, Nelson Mandela chiese e ottenne la restituzione. Quel che resta di Saartjie Baartman oggi riposa nella sua terra. Portano il suo nome una nave e un centro per le donne vittime di violenze. Nel 2010 un regista francese di origine tunisina, Abdellatif Kechiche, le ha dedicato un film, Venere nera.
Imane Khelif ha subito un calvario meno drammatico e che avrà certo un esito diverso; ma sempre di calvario si è trattato. E la campagna contro di lei ha colpito un’altra donna nelle sue stesse condizioni, la taiwanese Lin Yu Ting: l’avversaria bulgara da lei sconfitta nei quarti è scesa dal ring tracciando con le dita una X, come a dire che lei è femmina, e Lin no (la semifinale della taiwanese è stasera).
Se è per questo, la pugile ungherese che la Khelif ha sconfitto nei quarti ha postato la propria foto alle prese con un diavolo cornuto. Putin e Trump – non due passanti: il dittatore della Russia e il favorito dei sondaggi alla presidenza degli Stati Uniti – hanno sentenziato che Imane è un uomo. Non è vero, i documenti lo provano: è una donna con un livello alto di testosterone, che il Comitato olimpico non ha considerato incompatibile con la sua partecipazione ai Giochi; ma all’ideologia non importa nulla della realtà. Purtroppo più di un ministro della Repubblica italiana si è unito alla campagna, anzi l’ha rinfocolata.
Occorre individuare con maggiore chiarezza la soglia oltre la quale un eccesso di testosterone rende diseguale la competizione, e pericolosa se si tratta di uno sport da combattimento? Certo che sì. Ma lì dovrebbe finire la questione. Invece Imane si è trovata in mezzo a una guerra molto più grande di lei, tra la cultura gender e i suoi nemici, e per estensione tra sinistra e destra, che si stanno combattendo su un caso in cui ideologia e politica non c’entrano nulla.
Altro che «di questo passo un novantenne che si sente bambino potrà andare all’asilo», «un uomo che si sente gatto tenterà di arrampicarsi sugli alberi», e altre stupidaggini per fortuna sfuggite a Imane, che non sa l’italiano (da salvare invece la battuta scherzosa di Vittorio Feltri: «Imane ha più testosterone di Depardieu» non è male).
Lei di questa storia ha parlato pochissimo. Ha solo ricordato di aver già incrociato i guantoni con Angela Carini, in allenamento ad Assisi. Ieri sera Imane ha affrontato un’avversaria dura e dai tratti non esattamente femminei, la thailandese Janjaem Suwannapheng.
L’atmosfera al Roland Garros è infuocata. Mai visto finora un tifo così per un’atleta non francese. La comunità algerina è forte e calorosa, ma stavolta c’è un motivo in più: orgoglio nazionale e solidarietà femminile (moltissime le donne in tribuna, velate e no). Gran Pavese di bandiere bianche e verdi con la mezzaluna rossa. Raffica di buuu per la thailandese. Che però non fa tante storie. Tiene la guardia alta, bada innanzitutto a evitare i colpi. La prima ripresa è di studio. I giudici la assegnano all’unanimità alla Khelif. Gremitissima pure la tribuna stampa. Un collega algerino che segue Imane da sempre, tipo Gianni Minà con Muhammad Ali, assicura che è una pugile molto tecnica, che la sua arma migliore è la velocità di braccia. Quando il maxischermo annuncia che ha vinto all’unanimità pure la seconda ripresa, sugli spalti partono le danze kabyle. Il collega adorante spiega che il suo punto debole è che non ama essere aggredita, perché è fisicamente un po’ fragile (il che appare sinceramene eccessivo). Nella terza ripresa la Khelif tocca duro l’avversaria, che viene contata. Netta vittoria ai punti: Imane è in finale. Le due si abbracciano. La tribuna stampa si svuota.
Negli spogliatoi, Imane parla arabo. Ha una voce decisamente femminile e, vista da vicino, nel suo atteggiamento nulla giustifica tanto rumore. Ringrazia il presidente algerino che l’ha sostenuta con un tweet. Racconta: «Ho passato giorni molto duri, le pressioni sono state pesanti, da più parti. Ma ora sono perfettamente a mio agio. Ho dimostrato una cosa semplicissima: Imane è Imane».
Oggi la polemica, che si sarebbe spenta se Khelif avesse perso, si riaccenderà. Ma la Francia è stata teatro anche di storie che danno speranza. Il 7 gennaio 1601, a Rouen, la città dove era stata arsa viva Giovanna d’Arco, si doveva bruciare una donna, Marie, che aveva una relazione con un’altra donna. Arrivò un medico coraggioso, Jacques Duval, visitò la condannata e dimostrò che era un ermafrodito, che si sentiva uomo e infatti si faceva chiamare Marin. I giudici capirono e lo mandarono libero. L’ermafrodito di Rouen è il primo caso attestato di una persona che decide da sé il proprio sesso. Il caso di Imane è ancora diverso: non è una persona ermafrodita; è una donna, è una pugile, è una finalista olimpica. É un’atleta che ha incarnato lo spirito dei Giochi, di competizione e di libertà, meglio dei tanti a cui di lei e dei Giochi non importa nulla, ma che li stanno usando per il loro interesse e il loro potere.
(da Il Corriere della Sera)
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