L’INFERNO DEI 12 CENTRI DI “ACCOGLIENZA” LIBICA DI CUI L’ITALIA SE NE FOTTE
TORTURE, SOVRAFFOLLAMENTO, MALNUTRIZIONE, MALATTIE: MA PER IL GOVERNO SONO CAZZI LORO
Ora, non sono più solo “merce” buona per ingrossare gli affari milionari dei trafficanti di esseri umani. Ora, la massa di disperati che affolla la rotta mediterranea è diventata anche “merce” politica utilizzata dai signori della guerra libici, mascherati da improbabili statisti, per essere riconosciuti dall’Europa come i nuovi “Erdogan”.
Sono almeno dodici, a quanto risulta all’HuffPost attraverso l’incrocio di fonti vicine al parlamento di Tobruk e a quello di Tripoli, i centri di detenzione nei quali vengono ammassati, in condizioni disumane, decine di migliaia di persone, senza distinzioni di età e di sesso, che dall’Africa subsahariana hanno raggiunto il Paese nordafricano.
Che vi sia una collusione tra elementi, anche ai livelli più alti, della Guardia Costiera libica e le organizzazioni dedite al traffico di esseri umani, l’HuffPost lo aveva denunciato in tempi non sospetti, e ora questa collusione è confermata anche dalle accuse della Procura di Trapani.
Ma il punto di svolta, quello su cui si fatica ancora a ragionare, è che una tragedia umanitaria si sta trasformando in un’arma del fare politica nello Stato fallito, e tripartito, di Libia.
Le fonti che hanno parlato con HuffPost concordano nel ricostruire un quadro nel quale affari e politica s’intrecciano indissolubilmente, chiamando in causa tutti i principali attori che, armi alla mano, si muovono nel caos libico.
Una parte, almeno sette, di questi centri di detenzione si trovano sul territorio controllato da milizie-tribù che ancora hanno giurato fedeltà al governo di Accordo nazionale guidato da Fajez al-Serraj, il premier sostenuto dall’Italia e riconosciuto, a parole, dall’Onu.
Gli altri cinque centri si trovano, invece, sulla costa attorno a Sirte e ai confini tra la Libia e la Tunisia, dove ad operare sono milizie e tribù che hanno come riferimento l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar e, nel deserto tra Libia e Tunisia, nella sporca partita ci sono anche milizie jihadiste legate all’Isis.
Una delle più agghiaccianti case dell’orrore si trova a Sabratha, uno dei porti clandestini d’imbarco dalla Libia verso l’occidente, circa 70 chilometri a ovest di Tripoli e meno di 100 dal confine con la Tunisia. I migranti vengono rinchiusi in questo casermone, costretti a subire per mesi la crudeltà dei trafficanti di essere umani.
Altri due famigerati centri di detenzione si trovano nella località di Zuwara,, mentre tre si trovano in località Tajura. Zuwara è la nota località di imbarco utilizzata dalle bande di trafficanti, si trova a ovest di Tripoli. Tajura è 30 chilometri a est della capitale libica. Uno scafista marocchino, tunisino o egiziano riceve tra i 20 e i 30 mila euro per un viaggio e se riesce a riportare indietro la barca viene pagato il doppio.
Se lo scafista è qualcuno dei paesi sub sahariani non riceve alcun pagamento ma può viaggiare gratis. Controllare i centri di detenzione è diventato un aspetto fondamentale della battaglia che vede contrapposti Tobruk e Tripoli, Haftar e Serraj, come, se non di più, del controllo delle aree dove sono presenti i più importanti centri petroliferi della Libia.
Il “modello turco” sta facendo scuola in Libia: il “Sultano di Ankara”, al secolo il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, ha usato i quasi 3 milioni di profughi siriani come arma di ricatto nei confronti dell’Europa, ottenendo in cambio 6 miliardi di euro oltre che il silenzio complice rispetto alla “Grande purga” perseguita da Erdogan all’interno. Ankara ha garantito un “tappo” alla rotta balcanica, come voleva la Germania, e ora sia Haftar che Serraj intendono replicare quel modello sulla rotta mediterranea. I disperati intercettati in mare e rispediti indietro diventano così ostaggi nelle mani dei potentati “politici” di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, oltre che arricchire gli schiavisti del Terzo millennio.
Dall’inferno libico giungono altre testimonianze che danno conto di una situazione sempre più degradata: i centri di detenzione sono paragonabili a veri e propri lager, nei quali le persone sono costrette.
“Una realtà – spiega Oxfam – fatta di abusi, torture e detenzioni illegali vissuta dalla gran parte dei migranti arrivati in Libia per mano di milizie locali, trafficanti e bande criminali”, già denunciata a luglio da Oxfam insieme ai partner Borderline Sicilia e Medu (Medici per i Diritti Umani). “Persone che arrivano in Libia – paese che non prevede alcun sistema di richiesta di protezione internazionale – fuggendo dalla violenza perpetrata nei loro confronti per trovare solo altra violenza”.
“A voi amici miei che vi trovate dalle parti dell’Algeria e del Marocco. In Libia non si scherza adesso, amici miei, non cercate neanche di metterci piede. E’ disastroso, 80 morti in un massacro non più di una settimana fa. Uccidono i neri per nulla”.
Sono le parole scritte sul profilo facebook di un immigrato di origini camerunensi ospite di un centro di accoglienza del Centro Sud Italia, parole corredate da una serie di foto raccapriccianti: uomini di colore decapitati, altri con il cranio fracassato, o cadaveri avvolti in coperte.
Tutti, comunque, abbandonati in strada, in un quartiere di Tripoli: la mattanza, spiega la nostra fonte, sarebbe avvenuta nel quartiere Gargaresh.
Bande criminali in lotta per il controllo del traffico di droga e prostituzione avrebbero aperto una faida in cui sarebbe morto anche un agente di polizia. Per questo le forze di sicurezza all’indomani sarebbero arrivate sul posto per dare una lezione alle gang, coinvolgendo però molti migranti che lì vivono: “C’è un posto in quel quartiere che si chiama Chad, dove ogni mattina i neri si riuniscono per recarsi a lavoro. E’ lì che è avvenuta la strage. Sono arrivati coi veicoli blindati, armati fino ai denti, ed hanno massacrato persone innocenti”.
“Fino a che non ci sarà in Libia uno Stato di diritto e un sistema di asilo funzionante bisogna assolutamente sospendere ogni collaborazione con la Libia”, ribadisce Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
La stessa Amnesty International non può entrare nel Paese: “Non ci sono le condizioni per una nostra presenza, nè dal punto di vista della sicurezza, nè dal punto di vista politico”, spiega Noury.
Nel frattempo, Amnesty sta raccogliendo centinaia di testimonianze di persone scappate dalla Libia e tutte raccontano storie di schiavitù, compravendita di esseri umani, violenze verso le donne, in particolare quelle cristiane: vengono interrogate sul Corano e, se non sanno rispondere, vengono torturate e stuprate.
Se hanno un crocifisso al collo la loro sorte è segnata. E poi ci sono anche i rapimenti a scopo di estorsione: non rilasciano fino a che la famiglia del sequestrato non paga il riscatto. “Queste sono le persone che hanno urgenza di partire dalla Libia e che i Paesi europei stanno invece cercando di bloccare là “.
Cartoline dall’inferno. “Quando arrivi in Libia, quello è il momento in cui inizia tutto, quando cominciano a picchiarti”, racconta Ahmed, 18 anni, proveniente dalla Somalia e arrivato in Libia nel novembre 2016 attraverso il Sudan. I trasportatori si rifiutavano di dare da bere e a volte sparavano a chi supplicava un goccio d’acqua, come è successo a un gruppo di siriani che stava morendo di sete. “Il primo siriano morto era un giovane, poteva avere 21 anni. Dopo ci hanno dato da bere ma nel frattempo era stato ucciso un altro siriano di 19 anni”.
I trasportatori hanno rubato gli oggetti personali dei due siriani morti e non hanno permesso di seppellirli. Paolos, 24 anni, un eritreo arrivato in Libia nell’aprile 2016 attraverso Sudan e Ciad, ha raccontato che i trasportatori hanno abbandonato un disabile nel deserto, poco dopo essere entrati in Libia diretti a Sabha. “Hanno gettato un uomo dal pick-up lasciandolo nel deserto. Era ancora vivo. Era un disabile”, racconta Paolos.
“Sono stato arrestato da una banda armata mentre stavo camminando per la strada a Tripoli”, racconta H.R., 30 anni dal Marocco: “Mi hanno portato in una prigione sotterranea e mi hanno detto di chiedere il riscatto alla mia famiglia. Mi hanno picchiato e ferito diverse volte con un coltello. Violentavano regolarmente gli uomini”.
“Un giorno, un gruppo di soldati è entrato nella nostra casa”, ricorda K.M., 27 anni, originaria della Costa d’Avorio. “Mi hanno picchiata e sono stata violentata davanti a mio fratello e mia figlia”. Ramya, un’eritrea di 22 anni, è stata stuprata più di una volta dai trafficanti che la tenevano prigioniera in un campo nei pressi di Ajdabya, nel nord-est della Libia, dove era entrata nel marzo 2015.
“Dopo aver bevuto alcool e fumato hashish, le guardie entravano e sceglievano le donne. Poi le portavano fuori. Loro cercavano di opporsi ma quando hai una pistola puntata alla testa, non hai altra scelta se vuoi sopravvivere. Mi hanno stuprata due o tre volte. Non volevo perdere la vita”.
Antoinette, 28 anni, proveniente dal Camerun, ha descritto i trafficanti che la tenevano prigioniera nel marzo di quest’anno: “Non gliene importa nulla se sei una donna o un bambino. Ci picchiano coi bastoni, sparano in aria per metterci paura… Avevo con me un bambino, forse per quello non mi hanno stuprata, ma l’hanno fatto alle donne incinte e a quelle che viaggiavano sole”.
“Abbiamo sentito storie di migranti che sono stati costretti a seppellire vivi degli amici perchè si erano fatti male e non potevano camminare e i trafficanti, non volendo fardelli, li hanno costretti a seppellire vive queste persone, chiaramente sotto la minaccia delle armi e i loro amici non hanno potuto fare altrimenti”, afferma Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim).
Storie di corpi cosparsi di benzina e dati alle fiamme. Bastonate sulle piante dei piedi fino a spaccarli. Lesioni alle gambe, alle braccia. Sevizie di ogni tipo. Cadaveri abbandonati come spazzatura per le strade.
“Noi dalla pelle nera, ci chiamano animali. E ci trattano da animali”, racconta un ragazzo eritreo di 16 anni che ha trascorso quasi un mese e mezzo in un centro di detenzione. Racconta don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia per la cooperazione e lo sviluppo: “Sono centinaia i profughi tenuti in condizioni di schiavitù a Kufra”, dove “sono costretti ai lavori forzati da uomini armati, che li costringono a maneggiare armamenti pesanti, pulire carri armati, senza cibo ne’ con un comunicato denunciava le inumane condizioni dei centri di detenzione libici dove, arbitrariamente, sono rinchiusi migranti, rifugiati e richiedenti asilo.
La scarsa ventilazione, il sovraffollamento e il trattamento degradante agito nei centri di detenzione a Tripoli e Misurata stanno provocando malnutrizione, malattie della pelle e delle vie respiratorie oltre a gravi problemi di salute mentale.
“In 40 anni di carriera non ho mai visto un orrore simile”, ha affermato il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, facendo riferimento ai racconti di torture e violenze di cui è accusato Osman Matammud, ritenuto il presunto aguzzino di un campo di raccolta migranti in Libia.
Gli orrori peggiori, durante i quali molti perdono la vita, raccontano di torture atroci come la cosiddetta “falaka”, effettuata colpendo le piante dei piedi con fruste o oggetti simili, che provocano ferite talmente profonde da impedire alle persone di camminare. E.I. 28 anni, dalla Nigeria, ha ancora i segni di indurimento della pelle perchè è stato costretto a continuare il viaggio trascinandosi sulle ginocchia. Vanno per la maggiore anche la tortura da film horror nota come sospensione “da macelleria”, appesi con i piedi in alto e la testa in basso o costretti ad assumere altre posizioni stressanti (ammanettamento, in piedi per un tempo prolungato).
Cartoline dall’inferno. Cartoline dalla Libia, dove trafficanti, generali e premier si arricchiscono o usano “politicamente” i disperati della terra.
(da “Huffingtonpost”)
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