Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
UN TESTIMONE RACCONTA: “QUANDO È ARRIVATA ERA PIENA DI OGNI TIPO DI DROGHE, POI HA INIZIATO A IMPAZZIRE E HA SMESSO DI MANGIARE…”… LE BRUCIATURE SUI PIEDI, LE ABRASIONI SU FIANCHI E TESTA E LA COSTOLA ROTTA
«Vika era così. Capace di farti delle scenate pazzesche se non le mettevi il pezzo o se glielo cambiavi. Spariva anche per settimane, poi tornava con una scatola di dolci. Come quella di cioccolatini Raffaello che è rimasta sulla mia scrivania dopo che l’hanno presa».
Sevgil Musaieva tiene la voce ferma mentre racconta al Corriere, di cui è stata ospite nel 2022, in occasione del premio Cutuli. Ma è stata lei, caporedattrice di Ukrainska Pravda, tra le prime a ricevere la notizia che quel corpo scambiato dai russi, tornato indietro senza organi per nascondere i segni delle torture era il cadavere di una delle sue reporter più brave.
Ventisette anni, appassionata di boxe, grande bevitrice di caffè, spigolosa, tosta come poche, col fisico minuto e la volontà d’acciaio, Viktoriia Roshchyna, detta Vika, viene catturata una prima volta dall’Fsb nel marzo 2022 mentre lascia Berdiansk in direzione di Mariupol.
Viene trattenuta per 10 giorni e poi liberata dopo essere stata costretta a registrare un video in cui dichiara che le forze russe le hanno salvato la vita.
Nell’estate del 2023, si imbarca in quella che è una delle missioni più pericolose da fare per un giornalista ucraino: andare dietro le linee nemiche. Hromadske, il suo principale datore di lavoro, smette di collaborare con lei: troppo rischioso quello che fa.
«Le avevo detto anche io di non farlo», spiega ancora Musaieva. «Ma lei mi rispondeva: “Devo andare perché sono l’unica giornalista che ci va”. E poi mi mandava una nuova bozza. Era stata quattro volte nei territori occupati».
Poco prima di partire per l’ultima missione passa da Kryviy Rih, la città natale del presidente Volodymyr Zelensky, e gli dice «Vado». Roshchyna lascia l’Ucraina per l’ultima volta il 25 luglio 2023. Alle 14:09 di quel giorno il suo telefono si collega a una rete mobile polacca.
Dalla Polonia, attraversa la Lituania e passa in Lettonia. E poi in Russia, attraverso il valico di frontiera di Ludonka, secondo quanto ricostruito l’inchiesta collettiva realizzata da Forbidden Stories, che ha ricostruito tutto l’accaduto e la prigionia attraverso decine di interviste e fonti.
Viaggia per 1.600 chilometri, fino a Melitopol e poi Enerhodar, la città dormitorio vicino alla centrale elettrica di Zaporizhia, dove affitta un appartamento. Paga in anticipo per tre notti e dopo aver lasciato lo zaino, esce alla ricerca di notizie. Usa diversi cellulari per proteggere le fonti. Scrive file che si auto cancellano dopo che li ha inviati al desk. Sa quello che fa. Il 3 agosto suo padre si accorge che non è più connessa in rete. E dà l’allarme. I russi l’hanno presa.
Vika viene portata prima a Melitopol. La torturano nel «garage», un centro di smistamento di prigionieri. E lì — raccontano i testimoni, altri prigionieri sentiti da Forbidden Stories — subisce torture di ogni tipo: scosse elettriche, pugnalate, botte. Poi viene trasferita a Taganrog. Qui, viene detenuta in un centro di detenzione preventiva noto come Sizo 2.
«Quando è arrivata era piena di ogni tipo di droghe, poi praticamente ha iniziato a impazzire», racconta un altro testimone. Nelle stanze di tortura di quel carcere, soldati e civili vengono sottoposti a waterboarding, percossi e sottoposti a scosse elettriche sulla sedia elettrica. Una volta fuori dalle celle, sono costretti ad assumere una posizione stressante nota come “del cigno”: piegati in avanti con le mani giunte dietro la schiena all’altezza del petto.
Il cibo viene severamente razionato, con quattro cucchiai e mezzo per piatto. Per Roshchyna, l’effetto è catastrofico. Smette di mangiare. «Le parlavamo, ma era persa nei suoi pensieri, con gli occhi terrorizzati», ricorda una sua compagna di cella.
Il suo peso scende a 30 chili. Il padre riesce a parlarle al telefono. Nell’aprile 2024, dopo quasi otto mesi senza notizie, le autorità russe e il Comitato Internazionale della Croce Rosse confermano la notizia dell’arresto di sua figlia. Poi, riceve una telefonata di quattro minuti dalla figlia in cui prova a convincerla a mangiare.
«Nel frattempo avevo saputo da mie fonti che Vika avrebbe dovuto essere rilasciata il 13 settembre», spiega Musaieva. Ma il 10 ottobre, la caporedattrice riceve una chiamata dal padre di Roshchyna. Le autorità russe gli hanno comunicato per lettera la morte della figlia. Poi, più niente.
Negano perfino che Vika sia stata detenuta a Taganrog. Fino al 14 febbraio scorso, quando analizzando le liste dei corpi scambiati, gli intermediari della Croce Rossa Internazionale in una lista in fondo all’ultima pagina, vedono una voce misteriosa: «NM SPAS 757». È un’abbreviazione che sta per «uomo non identificato» e «danni estesi alle arterie coronarie».
Segni di bruciature sui piedi causati da scosse elettriche, abrasioni su fianchi e testa e una costola rotta. I suoi capelli, che amava portare lunghi e tinti di biondo sulle punte, sono stati rasati. Fonti vicine all’inchiesta ufficiale hanno anche rivelato che l’osso ioide del collo è stato rotto.
È il tipo di danno che può verificarsi durante lo strangolamento. Tuttavia, la causa esatta della sua morte potrebbe restare ignota perché, quando il suo corpo è stato restituito era privo di alcuni organi: in particolare il cervello, gli occhi e la laringe. Asportati, per nascondere i segni di tortura. Asportati, per cercare di nascondere un altro terribile crimine di guerra.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
IL 16 OTTOBRE 2023 SI È OFFERTO VOLONTARIO COME OSTAGGIO AD HAMAS IN CAMBIO DELLA LIBERAZIONE DEGLI OSTAGGI ISRAELIANI NELLE MANI DEI TERRORISTI… FRANCESCANO, UOMO DEL DIALOGO, HA SOLO 60 ANNI
Quando, nei primi anni Novanta, Pierbattista Pizzaballa era un frate francescano poco
più che trentenne, studioso di teologia e innamorato della Terra Santa, tanti nella comunità cattolica latina di Gerusalemme lo consideravano un «filo-sionista». Mentre era normale allora per tutti gli uomini di chiesa arrivati dall’Europa studiare arabo, Pizzaballa scelse invece di seguire i corsi di ebraico all’Università ebraica di Monte Scopus.
Erano gli anni del patriarcato del palestinese Michel Sabbah. La Chiesa locale guardava con sospetto alle ripercussioni tardive del Concilio Vaticano II, che finalmente anche qui volevano aprire al dialogo con gli ebrei «fratelli maggiori», come li aveva chiamati papa Wojtyla. Le violenze della prima Intifada pesavano sui rapporti tra israeliani e palestinesi.
I cristiani locali frequentavano messe celebrate in arabo. E tanti in cuor loro non potevano digerire l’avvio nel 1993 dei pieni rapporti diplomatici tra Israele e Santa Sede. Un evento epocale, conseguenza degli accordi di Oslo tra Ytzhak Rabin e Yasser Arafat.
Ma soprattutto un passo che, per la prima volta dal 1948, vedeva la Chiesa di Roma riconoscere la legittimità di uno Stato che sino ad allora aveva osteggiato per motivi sia teologici sia sulla base di valutazioni di opportunità politica in rapporto al mondo arabo.
Ma la novità portata da Pizzaballa era proprio la sua apertura alla lingua e alla cultura del mondo ebraico. Grazie alle sue conoscenze, studiò le scritture dei Profeti e la teologia dei rapporti tra l’universo della Bibbia e il primo cristianesimo.
Tradusse in ebraico i libri della liturgia latina per la piccola comunità di cattolici locali, che avevano studiato nelle scuole israeliane e dunque parlavano ebraico. Poteva celebrare la messa nella loro lingua.
Nel seguente quarto di secolo questo intellettuale dello spirito, figlio del sentimento religioso «semplice e spontaneo», come lui stesso descrive le radici della sua famiglia immersa nel cattolicesimo tradizionale della provincia
bergamasca, è diventato una delle figure di riferimento centrali della variegata e spesso controversa realtà delle Chiese a Gerusalemme. Pochi sono stati capaci come lui di favorire il dialogo interreligioso.
Non solo tra le comunità, con i pellegrini e i fedeli, ma anche nei seminari di studio, tra gli esperti di teologia, storia e filosofia. Quando lo si incontra non è difficile cogliere una sua certa ritrosia alle cerimonie. E infatti anche oggi, che assieme al cardinale Matteo Zuppi e al segretario di Stato Pietro Parolin è indicato come uno dei «papabili» d’origine italiana, il sessantenne Pizzaballa viene descritto da chi lo conosce come «molto lontano dai giochi interni alla curia romana».
Uomo del dialogo, si è ritrovato a dovere affrontare un universo sempre più minacciato dalla violenza e dalla guerra seguite all’aggressione di Hamas contro le basi militari e le comunità israeliane attorno a Gaza il 7 ottobre 2023. Possiede adesso gli strumenti per capire e reagire.
In tutti questi anni è diventato docente all’Università ebraica, quindi allo Studio biblico francescano. Dal 2004 è stato per 12 anni il 167esimo Custode di Terra Santa, la massima autorità francescana. L’8 giugno 2016 per conto di papa Francesco organizzò in Vaticano il momento di preghiera tra l’ex presidente israeliano Shimon Peres e il capo dell’Autonomia palestinese a Ramallah, Mahmoud Abbas.
La carica nel 2017 di vicepresidente vicario della Conferenza dei vescovi latini nelle regioni arabe l’ha spinto a conoscere da vicino il dramma del progressivo assottigliarsi della comunità cristiana in questa parte del mondo. Un’attività continua, assidua. Ogni tanto voci non verificate parlano di una sua certa esasperazione, forse vorrebbe partire, fare altro. Ma poi i risultati ci sono: la sua autorità è indiscussa. Tanto che nel 2020 è diventato Patriarca latino di Gerusalemme e dal primo maggio 2024 è cardinale.
Ma intanto il gravissimo attacco di Hamas sconvolge tutto. «Nulla sarà più come prima», dice: lo dichiara apertamente in interviste, scritti, omelie e colloqui interconfessionali. La sua conoscenza profonda, intima, del mondo ebraico gli fa comprendere il dramma di una società che parla apertamente di un «nuovo Olocausto». Il 16 ottobre 2023 si offre volontario come ostaggio ad
Hamas in cambio della liberazione degli ostaggi nelle loro mani.
Ma poi la durissima reazione israeliana, i bombardamenti su Gaza, gli attacchi agli ospedali, il terrore quotidiano, la morte di decine e decine di migliaia di civili, lo vedono in tutto e per tutto a fianco delle reazioni critiche contro Israele di papa Francesco. Pizzaballa conosce bene le gravi ingiustizie commesse dagli estremisti ebrei, vede i crimini, sa delle aggressioni compiute dai coloni in Cisgiordania, comprende da tempo gli effetti devastanti del muro che lacera il tessuto della società palestinese.
Molti di loro sono minorenni, tanti arrivano dalla diaspora americana. Le bandiere azzurre e blu dei nazionalisti messianici invadono aggressive la via Dolorosa, gli accessi al Santo Sepolcro. «Il grave attacco di Hamas non avviene nel vuoto. C’è un prima e un dopo», dice, quasi ripetendo le denunce all’Onu di Antonio Guterres. Il suo sermone la notte di Natale del 2023 nella Chiesa della Natività a Betlemme è anche un atto di accusa al governo Netanyahu. Lo ripete nel 2024.
Oggi parla della necessità della «speranza nella ripresa del dialogo». Sa che è difficilissimo. Pizzaballa è ormai figlio della Chiesa precipitata nel fronte della guerra, denuncia la «religione usata e strumentalizzata dalla politica». Non sappiamo quante possibilità abbia di essere eletto dal Conclave. Certo è che, se diventasse Papa, sarebbe davvero un pontificato tutto da seguire.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
PURE IN FRATELLI D’ITALIA C’È INSOFFERENZA PER L’USCITA DEL LEGHISTA CHE CONTINUA A ESONDARE IRROMPENDO DI CONTINUO NELLA POLITICA ESTERA, SPESSO CON UN APPROCCIO ANTITETICO A QUELLO DELL’ESECUTIVO
«È una sua opinione, la mia è differente». Antonio Tajani liquida così, da Valencia, l’ultima sortita di Matteo Salvini, che ieri ha magnificato la mossa dell’Ungheria di uscire dalla Corte penale internazionale, biasimata dall’Ue. Una scelta «di giustizia e libertà, di sovranità e coraggio» quella di Orbán, a sentire il leghista, che via X pare quasi caldeggiare l’opzione anche per l’Italia
Ecco perché il ministro degli Esteri è costretto a intervenire, a margine del congresso del Ppe sulla costa orientale della Spagna. Per Tajani quella di Budapest è una posizione naturalmente «legittima», una «decisione libera» anche perché «non si deve obbligare nessuno » ad aderire alla Cpi.
Ma Roma non è destinata a ricalcarne le orme: l’Italia «deve rimanere» nell’organo de L’Aia, mette a verbale il capo di Forza Italia. Che prende le distanze anche dal primo ministro magiaro, gemellato con la Lega nei Patrioti. Per il titolare della Farnesina «l’Ungheria è un caso nell’Ue da un po’, hanno pure aperto la procedura dell’articolo 7», cioè la clausola dei trattati che sanziona la violazione sistematica dei valori fondamentali dell’Unione
Attorno all’eventualità che l’Italia esca dalla Corte penale internazionale si consuma l’ultimo strappo a destra in politica estera. E non è solo una bizza tra i due vice di Giorgia Meloni. Pure nel partito della premier c’è insofferenza per l’uscita del leghista. Dalla mattina, FdI impartisce l’ordine di scuderia: restare fuori da questa polemica.
Però a microfoni spenti diversi big della fiamma fanno capire che no, la possibilità che Roma strappi con la Cpi non è nemmeno contemplata. E questo non significa, riferiscono diversi colonnelli di Fratelli d’Italia, che il primo partito della maggioranza sposi in pieno le decisioni della corte.
Tutt’altro. Ma un conto «è criticare un organismo che ha mostrato di non funzionare», un altro è suggerire una rottura clamorosa e anche molto, molto difficile da mettere in pratica. Gli attriti con L’Aia restano. Per il caso Almasri l’Italia è sotto procedura d’infrazione, che dovrà essere votata a breve dal consiglio generale. Per ora è arrivata l’incolpazione della procura, per la prima volta nella storia del nostro Paese.
È la spia più evidente di un rapporto comunque complicato, lo si è visto in questi giorni, alla vigilia dei funerali di Papa Francesco, quando ancora non era chiaro se Vladimir Putin avesse voluto presenziare alle esequie. In quel caso, non sarebbe stato arrestato a Roma. Perché l’Italia ha sì ricevuto il mandato di cattura per crimini contro l’umanità emesso nei confronti del leader di Mosca, ma il guardasigilli Carlo Nordio ha deciso di non trasmetterlo alla procura generale, nonostante il parere dei suoi uffici.
La posizione espressa ieri da Tajani era stata comunque concertata con Meloni da settimane, molto prima che l’Ungheria ufficializzasse l’addio, quando Donald Trump aveva annunciato sanzioni contro alcuni funzionari della corte penale, “rei” di avere intrapreso azioni contro gli Usa e contro Israele. E anche se nessuno, in maggioranza, è convinto che la linea di Salvini possa sul serio trovare un minimo seguito, tra gli alleati della Lega resta un senso di fastidio.
Perché il ministro dei Trasporti continua a esondare rispetto ai compiti del suo dicastero, irrompendo di continuo nella politica estera, spesso con un approccio antitetico a quello dell’esecutivo.
FdI finora si è mostrata tollerante, su certi deragliamenti del socio lumbard, perché era alle prese con il congresso del Carroccio. Ma da quell’assise ormai è passato quasi un mese. Dunque l’irritazione cresce.
(da La Repubblica)
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Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
TAGLE, NATO IN UNA FAMIGLIA BENESTANTE DELLE FILIPPINE (LA NONNA DA PARTE DI MADRE ERA CINESE), È CONSIDERATO UN “PROGRESSISTA SENZA ECCESSI”
Quel 27 febbraio del 2013 si incontrarono all’attesa delle valigie all’aeroporto di
Fiumicino, e nessun altro si rese conto che erano due cardinali. Jorge Mario Bergoglio, appena arrivato da Buenos Aires dopo un volo di quattordici ore, era vestito da semplice prete, Louis Antonio Tagle, arrivato da Manila con un viaggio durato quindici ore, jeans e la classica camicia filippina barong.
I due porporati dovevano prendere parte al Conclave convocato dopo le dimissioni di Benedetto XVI, si conoscevano da anni e chiacchierarono un po’. «Cosa ci fa qui questo ragazzo? », domandò l’argentino. «E cosa ci fa qui
questo vecchio? » rispose scherzando il filippino: «Qualche giorno dopo ho dovuto chiamarlo Sua Santità».
Tagle, 67 anni, ha stile semplice ma alle spalle una formazione di spessore e una carriera importante. Viene dal più grande paese cattolico d’Asia: quando Francesco celebrò messa a Manila ad assisterlo c’erano sette milioni di fedeli. «Quanto hai pagato quelle persone?» domandò con il suo consueto humour Bergoglio.
«Ho risposto che avevo promesso loro la vita eterna se avessero salutato il Successore di Pietro», ha raccontato Tagle nella messa in suffragio di Francesco. «Diventando serio, il Papa disse: “Non sono usciti per vedere me. Sono venuti per vedere Gesù”».
Il porporato è nato in una famiglia benestante delle Filippine, la nonna da parte di madre era cinese: un dettaglio che si è rivelato non indifferente nel momento in cui papa Francesco, nel 2018, ha siglato un accordo sulle nomine episcopali con la Cina, e il filippino è stato uno dei collaboratori che meglio ha interpretato e difeso questo passaggio storico dalle molte critiche piovute sul Vaticano.
“Chito” Tagle, questo il suo soprannome, ha studiato filosofia e teologia a Manila, ha ottenuto un dottorato alla Catholic University of America di Washington, più tardi è entrato a far parte del comitato editoriale dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna, impegnato nella stesura della Storia del Concilio Vaticano II. Giovanni Paolo II lo ha nominato vescovo, Benedetto XVI lo ha promosso arcivescovo di Manila e creato cardinale.
Progressista senza eccessi, oratore capace, teologo apprezzato ben al di là delle Filippine, Tagle è sempre stato attento ai giovani e ai poveri. Nei giorni scorsi i siti oltranzisti statunitensi hanno ritirato fuori un video in cui Tagle canta Imagine di John Lennon, criticando sia lo stile informale che il contenuto poco ortodosso della canzone.
Il porporato, in un incontro con le Pontificie opere missionarie, ha raccontato che era in un campo estivo per giovani, una ragazza gli ha chiesto di cantare, lui ha risposto: «Fai domande sensate e poi canterò per te». Un anno dopo, tra quei ragazzi c’era chi ancora ricordava quel momento, e decisamente non aveva
perso la fede.
Papa Francesco nel 2015 gli ha affidato l’incarico di presidente di Caritas internazionale (nel 2022 Bergoglio ha commissariato l’ufficio romano per porre fine a un ambiente lavorativo tossico creato dal segretario generale dell’epoca) e nel 2019 lo ha chiamato a Roma per guidare Propaganda Fide, la potente congregazione che governa le Chiese di mezzo mondo, quelle che un tempo erano terra di missione e oggi paesi in via di sviluppo, tanto che il prefetto, che da cardinale veste di rosso, è soprannominato il “Papa rosso”.
Arrivò a Roma a febbraio del 2020, poche settimane dopo in Italia scattò il lockdown: appena assunto un incarico gravoso Tagle si ritrovò confinato in una residenza nuova, senza ancora avere intrecciato nuove relazioni. I maligni sparsero la voce che il porporato filippino era incline all’abbattimento, la verità è che sarebbe stata una situazione complicata per chiunque.
Nel corso degli anni Tagle ha governato bene il dicastero per l’Evangelizzazione dei popoli, un incarico impegnativo sia dal punto di vista pastorale che manageriale. Gran lavoratore, sorridente e discreto, profilo basso ma idee chiare, Tagle è uno dei non numerosi cardinali conosciuti in tutto il mondo, e specie in quel global south che rappresenta ormai il 50 per cento del Conclave.
La stima di Bergoglio nel corso degli anni non è calata, e lo ha nominato in almeno altri otto dicasteri o strutture amministrative del Vaticano, oltre a portarlo con sé in numerosi viaggi internazionali, ogni volta che la meta era un paese che rientrava nella giurisdizione del “papa rosso”. C’è chi scommette che dopo il primo Papa latino-americano sia l’ora di un Papa proveniente dal continente dove il cristianesimo cresce di più. E che quel rosso, ora, diventi bianco.
(da agenzie)
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Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
CONCLAVE, CARDINALI E UNA LEGGEREZZA PROVVIDENZIALE
C’è il cardinale che svuota il frigobar della sua stanza pensando che sia gratis e poi scopre che i liquori mignon gli sono stati messi sul conto. C’è quello che gioca a tennis e sul match-point per l’avversario fa un cenno al suo assistente, il quale irrompe in campo a telefonino sguainato millantando una chiamata urgente, così la partita viene sospesa. E ci sono i due porporati in gelateria che attaccano un cono alla crema, ma si accorgono che alcuni avventori si sono inginocchiati e allora con una mano impartiscono la benedizione e con l’altra reggono il cono, che sotto il sole di Roma comincia inesorabilmente a sciogliersi sulle maniche della tonaca.
Siamo debitori al nostro Fabrizio Caccia, e all’arcivescovo Pecorari che gliele ha raccontate, di queste spigolature che qualcuno considererà irriguardose, quando invece servono solo a ricordarci la complessità dei fenomeni umani.
Il Conclave è un evento unico al mondo: oltre centrotrenta maschi attempati si rinchiuderanno in una stanza per decidere chi tra loro dovrà diventare di colpo l’uomo più famoso del pianeta, mentre tutti gli altri usciranno da lì alla chetichella.
Anche per chi non crede nell’intervento del suggeritore celeste, resta una straordinaria terapia di gruppo.
Sapere che molti cardinali la stanno affrontando con spirito vacanziero, non toglie serietà al loro lavoro, ma vi infonde una leggerezza, è il caso di dirlo, provvidenziale.
(da corriere.it)
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Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
NEGLI ULTIMI ANNI GLI INVESTIMENTI IN RINNOVABILI SONO AUMENTATI, QUELLI NELLE INFRASTRUTTURE DI RETE NO
Sono passate poco più di 24 ore da quando Spagna e Portogallo hanno ripristinato la
fornitura di energia elettrica. Ancora non si sa con esattezza cosa abbia causato l’imponente blackout che lunedì 28 aprile ha lasciato al buio l’intera penisola iberica. Dopo che Red Eléctrica – il gestore della rete spagnola – ha escluso le ipotesi di un attacco informatico o di un evento meteorologico anomalo, è iniziato un vero e proprio processo alle rinnovabili. In particolare da chi ha sempre guardato con scetticismo alle politiche di transizione energetica e ora invoca un ritorno ai combustibili fossili.
In realtà, spiegano gli esperti, la questione è più complessa di quanto potrebbe
sembrare. E i precedenti blackout – in Europa e non solo – suggeriscono che ciò che è accaduto in Spagna e in Portogallo nei giorni scorsi potrebbe avvenire ovunque. Anche in Paesi che si affidano meno all’eolico e al solare.
Il processo (politico) alle rinnovabili
Secondo Michael Hogan, esperto di energia del think tank Regulatory Assistance Project, blackout così vasti come quello che si è verificato nella penisola iberica «sono stati praticamente sempre innescati da guasti alla rete di trasmissione, non dalla generazione, a prescindere che fosse rinnovabile o meno». Nel 2003, quando un blackout lasciò al buio l’intera città di Londra, la rete era alimentata principalmente da combustibili fossili e l’interruzione della fornitura di energia era stata causata da un trasformatore guasto. Quello stesso anno, un altro blackout lasciò al buio tutta l’Italia. Il problema, in quel caso, era un guasto a una linea idroelettrica.
Spagna e Portogallo sono due dei Paesi che più stanno trainando la transizione europea verso le energie rinnovabili. Il 16 aprile 2025, l’intera domanda di elettricità spagnola è stata soddisfatta esclusivamente da fonti rinnovabili. E il 28 aprile, pochi minuti prima del blackout, eolico e solare coprivano circa l’80% del fabbisogno. Eppure, questo non sembra avere molto a che fare con il blackout che si è verificato nei giorni scorsi. «Non è corretto mettere in relazione l’incidente così grave di lunedì con la penetrazione delle rinnovabili» nel sistema elettrico spagnolo», ha ribadito Beatriz Corredor, la presidente della Rete Elettrica Spagnola.
L’importanza della «riserva»
La colpa del blackout, insomma, non va cercata nella transizione verso fonti di energia pulite. «Incolpare le rinnovabili non restituisce la complessità della questione. Con un importante afflusso di energia intermittente la resilienza delle reti è fondamentale», spiega Chiara di Mambro del think tank Ecco. Una posizione simile l’ha espressa anche Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, in un’intervista al QN: «Il sistema elettrico spagnolo – ha spiegato – è invidiato da tutto il mondo per i prezzi bassissimi e le fonti pulite. Ma proprio per questo è assolutamente più complesso da gestire, sia per l’eccesso di produzione delle rinnovabili sia perché all’ora del blackout la richiesta era
elevatissima».
La complessità degli attuali sistemi elettrici rende indispensabile poter contare su una adeguata capacità di produzione, cosiddetta «di riserva», da fonte programmabile, come termoelettrico e idroelettrico, pronti a intervenire in caso di emergenza. Il fatto che il sistema elettrico iberico abbia una quota così rilevante di rinnovabili ha un effetto positivo sui prezzi dell’energia, molto più bassi della media europea, ma deve anche essere supportato da una quantità «di riserva» per poter garantire la tenuta del sistema. Il giorno del blackout, in Spagna i prezzi dell’energia erano bassissimi, prossimi allo zero. Un fatto certamente positivo, ma che presenta anche dei risvolti spesso dimenticati, per esempio il fatto che le fonti programmabili – necessarie in caso di emergenza – siano escluse dal mercato perché troppo costose.
Tanti investimenti in rinnovabili, pochi sulle infrastrutture di rete
Il blackout che ha colpito Spagna e Portogallo serve anche a ricordare quanto sia importante investire sulle reti. Ed è proprio questo, secondo molti esperti, il vero nocciolo della questione. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, gli investimenti in rinnovabili sono praticamente raddoppiati, mentre gli investimenti nelle reti sono rimasti tutto sommato piatti. Per quanto riguarda i Paesi Ue, la Commissione europea ha stimato che in questo decennio saranno necessari circa 584 miliardi di euro per ammodernare le infrastrutture di rete. Gli obiettivi sono essenzialmente due: reggere il peso della crescente domanda di energia elettrica (non solo per lo sviluppo dell’IA, ma anche per l’elettrificazione di trasporti e consumi) e rendere il sistema più flessibile, proprio per gestire il crescente peso delle rinnovabili – più instabili delle fonti fossili – nei mix energetici dei Paesi Ue.
Un blackout simile può verificarsi anche in Italia?
Dopo il blackout del 2003, l’Italia si è dotata di sistemi di gestione del rischio, come lo stoccaggio centralizzato dell’energia e la regolazione delle rinnovabili, e oggi può vantare un’infrastruttura tra le più avanzate e digitalizzate di tutta Europa. Terna, la società italiana operatrice delle reti di trasmissione dell’energia elettrica, progetta inoltre di investire 23 miliardi di euro sulla rete nei prossimi dieci anni. Le possibilità che si verifichi un blackout sono
impossibili da azzerare, ma gli investimenti per ammodernare le infrastrutture di rete contribuiscono senz’altro a ridurre il rischio.
Secondo l’associazione Gis (Gruppo Impianti Solari), un blackout come quello dei giorni scorsi «non sarebbe possibile in Italia, poiché gli impianti da fonte rinnovabile sono connessi alla rete secondo regole e criteri ben precisi che impediscono criticità in caso di guasto». La Spagna, a differenza dell’Italia, ha un parco rinnovabili più datato e le regole di connessione, fino a pochi anni fa, non erano così restrittive come lo sono oggi. In Italia, spiega ancora l’associazione di produttori di fotovoltaico, «Terna ha più volte aggiornato il codice di rete implementandolo con l’obbligo di funzioni e dispositivi di controllo a carico del produttore, che sono stati pensati proprio per evitare situazioni potenzialmente critiche ed impatti sulla stabilità della rete elettrica nazionale».
L’integrazione tra le reti europee
Un’altra possibile soluzione per prevenire i blackout è la maggiore integrazione delle reti elettriche europee. Spagna e Portogallo hanno un sistema molto integrato tra loro, ma sono anche isolati dal resto d’Europa. Gli unici collegamenti sono con alcune zone al confine con la Francia, che infatti sono state coinvolte dal blackout del 28 aprile e hanno reagito alla situazione disconnettendosi dalla rete spagnola non appena è diventata instabile. «Avere un sistema interconnesso è un vantaggio per tutti», ha affermato un alto funzionario dell’Ue a Politico. Questo perché le connessioni aiutano a mantenere la rete in equilibrio e a prevenire i blackout, riducendo il rischio che altri Paesi europei debbano vivere le stessa situazione che si è verificata nei giorni scorsi in Spagna e Portogallo.
(da Open)
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Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
IL DISCORSO DI MATTARELLA PER IL PRIMO MAGGIO
Il discorso di Sergio Mattarella per il Primo Maggio ci ricorda alcune cose importanti, al di là dell’argomento specifico che ha affrontato, i salari insufficienti (non bassi: proprio «insufficienti» alla vita), la sicurezza sul lavoro e il rifiuto della cultura dello scarto, che fu anche una delle grandi lezioni di Bergoglio. La prima cosa è che il senso morale di una comunità, persino in
questi tempi complicati, esiste e resiste anche nel perimetro della laicità. Il richiamo al valore della dignità, sul lavoro e ovunque, non è prerogativa dell’autorità religiosa ma è il fondamento dell’edificio democratico e di ogni dibattito politico che non sia pura propaganda. Il secondo dato è la nostra fortuna. Siamo fortunati ad avere una voce super partes che gli italiani possano ascoltare senza pensare che stia tirando la volata a questo o a quello. Mica era scontato. La tribalizzazione della politica da almeno tre lustri sta producendo quasi esclusivamente figure da trincea, colonnelli e generali amatissimi dalla loro parte e detestati dall’altra. La famosa categoria “riserve della Repubblica” non solo è ridotta al lumicino ma è costantemente delegittimata come élite di privilegiati senza voti e senza qualità, se non quella di tenersi nelle retrovie aspettando un’occasione.
Ci sono piaciuti i Beppe Grillo, e poi i Donald Trump, gli Javier Milei, i Nicolas Maduro, a molti piace persino Vladimir Putin, gli esagerati e i pirotecnici, insieme con le loro ricette ideologiche indifferenti alla vita concreta degli esseri umani. Ci piacciono quelli con i cappellini e con la motosega. Essere “divisivi” – cioè capaci di eccitare la propria parte e di indignare gli avversari – è diventato un plus competitivo e una credenziale di sicuro successo elettorale. Parlare a tutti non è più di moda e non rende. E tuttavia proprio in questi giorni la commozione italiana, europea e planetaria per la morte di un Papa ci ha rivelato che l’umanità ha ancora bisogno di messaggi universali e che una visione nitida dei valori essenziali è il solo rifugio immaginabile nella tempesta dei tempi. La domanda è: può la politica permettersi questo tipo di approccio, può coltivare un’idea condivisa di ciò che “viene prima” dello spirito di fazione, quei capisaldi morali che la Costituzione indica con chiarezza?
Sergio Mattarella ci dice che sì, è possibile, e invita chi lo ascolta – i partiti, le istituzioni, l’impresa e il sindacato, almeno si spera – ad agire di conseguenza. Nessuno, in una Repubblica fondata sul lavoro fin dall’incipit del primo articolo costituzionale, dovrebbe rassegnarsi alla realtà di tante famiglie che lavorano ma non riescono più a vivere del loro lavoro. Nessuno dovrebbe giudicare normale l’emigrazione di migliaia di giovani italiani, il caporalato, la mortificazione del lavoro immigrato con salari che sono inferiori di un quarto
rispetto agli italiani, e figuriamoci il lavoro “che consegna alla morte”, magari per risparmiare su qualche voce di manutenzione o accelerare processi che i dispositivi di sicurezza rallentano. «Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano», dice il Presidente citando uno degli ultimi appelli di Bergoglio, una frase del messaggio pasquale che il Papa solennizzò affacciandosi, allo stremo delle forze, dalla loggia di San Pietro poche ore prima di morire. La sintonia tra l’appello di un grande e amatissimo leader religioso e il custode dei valori laici della nostra Repubblica ci ricorda che l’essenza dell’agire pubblico non è stabilire chi è più forte o più applaudito o il più capace a schiantare gli avversari, ma chi è più capace di dare concretezza all’universo di valori a cui apparteniamo sia come credenti, per chi lo è, sia come cittadini, e lo siamo tutti.
(da agenzie)
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Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
PARADOSSI: CIOE’ CHE VENNE DETTO NEL NOME DELLA LOTTA AL CAPITALISMO ORA VIENE RIPETUTO IN NOME DEL LIBERO SCAMBIO
Quando la Cina di Mao diceva “l’America è una tigre di carta” ero un ragazzino. A
cavallo tra i Sessanta e i Settanta il comunismo cinese aveva una forte attrazione sui giovani occidentali in piena ribellione anticapitalista. Era più radicale o forse solo più esotico del comunismo sovietico, che già allora sembrava comatoso
Niente o molto poco si sapeva delle violenze, delle crudeltà e delle deportazioni della Rivoluzione culturale, grande campagna maoista contro i “revisionisti controrivoluzionari” (leggi: i riformisti) che ebbe fine solo con la morte di Mao
e l’arresto della Banda dei Quattro.
Io dovevo essere poco ribelle già allora — forse il riformismo è un vizio innato — perché alle Guardie Rosse preferivo Berlinguer, che nei cortei studenteschi era schernito in quanto fifone, nemico della rivoluzione, reggicoda dei padroni.
Mezzo secolo dopo quelli della mia età non possono non avere un sussulto leggendo le parole del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, a proposito dell’America di Trump: «Tutti i bulli sono solo tigri di carta. Gli Usa non rappresentano il mondo intero, il loro commercio è meno di un quinto del totale mondiale. Quando il resto del mondo è unito nella solidarietà, gli Stati Uniti sono solo una piccola barca alla deriva».
Per uno dei tanti paradossi della storia, ciò che venne detto nel nome della lotta al capitalismo (l’America è una tigre di carta) viene ripetuto oggi nel nome del libero scambio.
La Cina non è più il paese contadino affamato dei tempi di Mao, è una potenza mondiale, anch’essa imperiale nella gittata dei suoi traffici. Ha i suoi interessi e le sue mire, e lo sappiamo. Ma non una sola delle parole del ministro Wang Yi suona stonata.
(da repubblica.it)
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Aprile 30th, 2025 Riccardo Fucile
“E’ UNA DERIVA DI TUTTO L’OCCIDENTE”
L’Italia sta vivendo una deriva fascista? «Bisogna essere chiari. È certo che nessuno, oggi, voglia di nuovo dichiarare guerra agli Stati Uniti o farci marciare in camicia nera. I neofascisti non sono questo. Ma c’è chi ha serbato un rancore, coagulato negli anni, che ora è venuto fuori. Chi l’ha covato per anni oggi dice: “Ora ci siamo noi”. E agisce».
È una platea di 500 persone quella che accoglie lo storico Alessandro Barbero al piccolo festival resistente dell’associazione culturale Comala di Torino. Appuntamento alle 19, nessuna prenotazione. E per questo c’è chi è rimasto in coda per ore pur di ascoltare lo storico. Centinaia sono rimasti fuori, in piedi, lontani dal palco ma a sentire la sua lezione su fascismo e Resistenza. E
Barbero risponde così alla domanda sul suo punto di vista di fronte alle politiche attuali, tra Ddl Sicurezza e repressione in piazza: «Quel rancore oggi porta a un progetto di una società controllata, a politiche repressive, ad andare contro le proteste in piazza. Ma non è una peculiarità dell’Italia e della sua eredità fascista: è una deriva di tutto l’Occidente».
Barbero è stato invitato a parlare di Resistenza a poche ore dalle celebrazioni per gli 80 anni della Liberazione. E ammette: «Qui, a Torino, quei valori si sentono più che altrove. Perché qui, come in molte altre parti del Nord Italia, la Resistenza si è combattuta in prima linea, si rischiava la vita per la libertà». Ma, per lui, in Italia c’è solo una cosa rimasta «specificatamente fascista. Ed è non voler ammettere che il fascismo era sbagliato». Tutto il resto è parte di quella «deriva conservatrice dell’intero Occidente». Che oggi più che mai parla di riarmo e vive il conflitto in Ucraina: «Ho vissuto tutta la mia giovinezza in un Paese la cui convinzione comune era che la guerra non ci sarebbe mai più stata. Ora non è più così. Viviamo in un Paese e in un mondo in cui si dice addirittura “entro il 2030 ci sarà la prossima guerra”. E si pensa al riarmo. È come essere tornati a fine Ottocento o inizio Novecento: siamo in quella direzione, e queste sono le classiche profezie che si autoavverano».
(da La Stampa)
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