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PERCHÉ UN PAESE CHE SI SBATTE PER ARRIVARE ALLA FINE DEL MESE, DA OLTRE VENT’ANNI HA PERSO LA TESTA PER UN MILIARDARIO DONNAIOLO CHE ALL’ETICA DELLE ISTITUZIONI HA SEMPRE PREFERITA LA COTICA DEI PROPRI AFFARI? PERCHÉ INCARNA L’ARCI-ITALIANO

COME IL CAVALIERE, OGNI ITALIANO SEMBRA ESSERE TUTTO E IL CONTRARIO DI TUTTO: FURBO E FESSO, MAMMONE E MASCHILISTA, DRAMMATICO E MELODRAMMATICO, GENIALE E PASTICCIONE, CORAGGIOSO E VIGLIACCO, RAZZISTA E TOLLERANTE, CREDENTE E MISCREDENTE, COLTO E IGNORANTE, VITALE E CIALTRONE, DI DESTRA E DI SINISTRA

Certo che è dura. Durissima dover ammettere che un Peron con i tacchetti, uno Stalin mediatico, un Silvio Bellico a rotelle, un fabbricante di miliardi col volto perennemente grigliato come un pollo dai raggi Uva, un bignè in doppiopetto sempre truccato e tricologicamente trapiantato, un seduttore tradito dalla prostata, con cinque figli e due mogli, sgradevolmente donnaiolo, che ne ha combinate di cotte e di crude, è stato e rimarrà, per chissà quanto tempo, l’incarnazione dell’Arci-italiano.
La grande Natalia Aspesi non si fa troppi problemi ad ammetterlo: “Sono terrorizzata dagli italiani. Più il Paese corre verso l’autodistruzione, più loro adorano i propri carnefici – tuona la giornalista – è come se si fossero trasformati in tanti piccoli lemuri che si precipitano entusiasti in fondo al burrone”.
Ma la domanda, a questo punto di non ritorno, è un’altra ed è terribile: come mai una tale moltitudine di italiani, tra Destra e Sinistra, si è gettata gettarsi sul “Centro-frivolo” del berlusconismo senza limitismo? Perché un paese che si sbatte dalla mattina alla sera per arrivare alla fine del mese, da oltre vent’anni ha perso la testa per un miliardario donnaiolo che all’etica delle istituzioni ha sempre preferita la cotica dei propri affari?
Perché dentro di noi c’è il folle e sovente inconfessabile desiderio di essere un Berlusconi. Come canta Giorgio Gaber: “Non temo Berlusconi in sé. Temo Berlusconi in me”. Massì: come il Cavalier Pompetta, ogni italiano sembra essere tutto e il contrario di tutto: furbo e fesso, mammone e maschilista, drammatico e melodrammatico, geniale e pasticcione, coraggioso e vigliacco, razzista e tollerante, credente e miscredente, colto e ignorante, vitale e cialtrone, di destra e di sinistra. Un Berluscone che, quando gli chiedono qual è il complimento più bello che abbia mai ricevuto, risponde radioso: “La volta che, all’uscita da San Siro, un ultrà si gettò contro il parabrezza della mia auto gridando: sei una bella figa!”.
Sondare l’anima di Berlusconi è peggio che difficile. E’ inutile. Simpaticissimo come tutti i mascalzoni, implacabile negli affari come un rullo compressore (”Una volta per riagganciare un cliente gli ho anche tolto la forfora dalla giacca”, professionalmente così frenetico che faceva apparire un battaglione di marines come un gruppo di perdigiorno (“Una volta all’Edilnord ho disegnato persino le fogne. Pensavo: se ho sbagliato le pendenze si sveglieranno tutti nella cacca”), narci-effervescente naturale fino alle bollicine (“E’ importantissimo la mattina guardarsi allo specchio e piacersi, piacersi, piacersi”), Berlusconi ha intuito fin dall’inizio che il vero mistero del mondo è ciò che si vede, non l’invisibile.
A mo’ di lezione, aggiunge: “Ricordiamoci che il nostro pubblico ha fatto la terza media e non era neanche fra i primi della classe”. La mejo, da incorniciare: “Gli sfigati non esistono. Esistono solo dei diseducati al benessere”. Da qui i suoi modi da piazzista che sa mettere insieme cose dissimili, incongrue, se non addirittura incompatibili: come trasformare una azienda in un centro di potere, una cena in una congresso elettorale, un partito in un party, un contratto in una fregatura.
Come quella volta che, giovane editore in ascesa, firmò di venerdì un accordo per dividersi gli spazi pubblicitari con la Rai che sarebbe scattato dal lunedì successivo. Subito dopo riunì in ufficio i suoi agenti di Publitalia: “Avete sabato e domenica per acchiappare tutta la pubblicità che potete”. E quando il lunedì l’accordo entrò in vigore, non c’era più niente su cui accordarsi.
Quante gliene hanno dette in questi anni, giudici e giornalisti, a quest’uomo unico al mondo (noi italiani, si sa, non ci facciamo mai mancare niente). Da “Psico-nano” (Beppe Grillo) a “Caimano” (Nanni Moretti), da “Banana” (Altan) a “Al Tappone” (Travaglio). Ma la miglior descrizione del fenomeno appartiene ad Aldo Busi: “Tutti dicono che se non ci fosse stato Craxi non ci sarebbe stato Berlusconi, ma questo si può dire di qualsiasi imprenditore italiano. Nessun imprenditore di fama ha la coscienza a posto con lo Stato italiano. Sono tutti dei criminali. E allora perché criminalizzare solo Berlusconi? Pensiamo al Banco Ambrosiano. Io non credo che Berlusconi abbia lo zampino nella più grande catastrofe che sia successa in Italia e che ancora è irrisolta, cioè piazza Fontana. Come si può demonizzare Berlusconi quando ci sono molti altri demoni prima di lui che devono prendere corpo?”.
Verità o leggenda? Con Berlusconi la verità è leggenda e viceversa, lui stesso non è che le distingua sempre bene. “Da giovane dicevo: pensa quante donne al mondo vorrebbero venire a letto con me e non lo sanno. La vita è un problema di comunicazione”. Ecco perché, già prima del Biscione, era presente come comparsa in un Carosello. Quando nel novembre del ’79 un colpo di fulmine scoccato da Cupido lo trafisse era seduto al teatro Manzoni di Milano: Veronica Lario, 23 anni, era protagonista della commedia di Crommelynck “Il magnifico cornuto”. Impazzito d’amore Silvio fece interrompere le repliche della commedia. Come? Comperando il Manzoni.
Ah, la vanità. “Raccontano i collaboratori che è un terribile accentratore: se avesse una puntina di seno, sarebbe anche tentato di sostituire l’annunciatrice”, scrive Enzo Biagi. D’altra parte, visto dall’alto, la Natura è stata davvero taccagna. Quando scoprì che il centravanti Galderisi era alto come lui proibì ai collaboratori di chiamarlo “nanu”. Lui si gonfia così: “Ho fatto l’Italia un po’ più bella”. Oppure: “Vedo tutto d’istinto, come ha detto una volta la mia mamma. Sono una specie di strega”. Ancora: “Io sono come quel gran condottiero rinascimentale di Bergamo. Sì, come quel Bartolomeo Colleoni che da madre natura ne ebbe tre e non due”.
Troppo testosterone. Avido di donne, di divertimento, di strapazzi mondani, perennemente avvolto dal consenso femminile, non si chiude in Parlamento ma in Camera (da letto). Polaroid ’99 della prima volta di Silvio nel salottificio capitolino dell’avvocato Giuseppe Consolo. Eccolo che parlotta al telefonino, quindi lo passa a Gianfranco Fini che fa: “Veronica, stai tranquilla. Silvio sta con me”.
Ah, la fregola del cavaliere… Racconta Enzo Mirigliani, patron di Miss Italia: “Nel ’79 appare per la prima volta al concorso anche Silvio Berlusconi, in maglietta e bermuda, accompagnato da Giorgio Medail e alla guida di una piccola troupe della neonata Telemilano”.
Cerca la risata altrui. Sempre. Ovunque. Senza temere di esserne seppellito. E’ più forte di lui: abbia di fronte Clinton, i suoi apostoli di Forza Italia o il temibile comunista di turno, Silvio Berlusconi quando ce l’ha-ce l’ha (la barzelletta), la deve sparare. Ne ha un repertorio vastissimo. Che modella, personalizza, strumentalizza. Ricicla, se necessario. A volte oscilla pericolosamente tra il cattivo gusto e la gaffe: e allora sono smentite, sottili distinguo.
Non esistono colonne d’Ercole che la vena barzellettiera del Cavaliere non oltrepassi. A suo rischio, naturalmente. Come nell’agosto del ’94 quando, da pochi mesi a palazzo Chigi, sentendosi perseguitato dai giornalisti, sfogò così la sua insofferenza: “Al Pontefice cade il breviario in acqua e il premier, camminando sulle acque, glielo va a prendere. Titoli dei quotidiani: “Il presidente del Consiglio non sa nemmeno nuotare”. Il Vaticano tacque per qualche giorno poi, con tono vagamente piccato, fece sapere che il Papa l’aveva già sentita nell’83 quella barzelletta, in Polonia, dopo il colpo di Stato: al posto di Berlusconi c’era il generale Jaruzelski.
Con quel gaudente di Clinton, invece, il Cavaliere è sempre andato a nozze. Come quando, in pieno caso Lewinsky, non esitò a raccontargli di quello che si era fatto disegnare un neo sul pene: “L’ho fatto perché così, quando mi eccito, il neo diventa un moscone”. E l’altro: “Io invece mi sono fatto tatuare le lettere “So”: così, quando mi eccito, compare la scritta “Saluti da San Benedetto del Tronto”.
La controffensiva della barzelletta fu affidata al Manifesto: “Berlusconi muore e va in Paradiso. C’è una lunga coda, il Cavaliere pretende da San Pietro una corsia preferenziale. San Pietro telefona al Padreterno: “C’è uno che vuole passare davanti agli altri. Dice di chiamarsi Berlusconi”. E Dio: “E’ un impostore. Berlusconi sono io”.
I guai maggiori il Cavaliere li ebbe con quella dei banditi che entrano nell’ufficio, gridano “questa è una rapina» e un impiegato risponde: “Meno male, credevo fosse la Guardia di Finanza”: si beccò una querela dalla Fiamme Gialle. O quando sciorinò la storia del malato di Aids al quale il medico aveva consigliato di fare le sabbiature £così si abituerà a stare sotto terra”: insorse mezza Italia.
Era fatto così. Ho avuto occasione di incontrarlo due volte. La prima, nel ’92, a casa di Mario Cecchi Gori, con il quale Berlusconi aveva fondato la Penta Cinematografica, come autore di un filmetto, “Mutande Pazze”. C’era mezzo cinema italico, da Benigni a Verdone. Quando ci incrociammo parlammo di “Quelli della notte”, di Arbore che mai avrebbe lasciato la Rai per Mediaset, poi sparò due conveniveli con Chiara, la mia compagna di allora, infine ci chiese: “siete innamorati?”, ricevuto l’inevitabile risposta affermativa congiunse le nostre mani e ci dichiarò marito e moglie, tra un calicino e una pizzetta…
La seconda volta, quindici anni dopo, a casa di Sandra Carraro. Dopo i soliti convenevoli, mi prese da parte e mi chiese, serie serio: “Hai tatuato anche il tuo pisello?”. Al telefono, vista la grande schiera di ottimi imitatori della sua cadenza brianzola, non sapevo mai se avevo come interlocutore davvero “il presidente”, come veniva annunciato.
Politicamente, lo stregone del Bunga Bunga, egocentrico in stile “Dall’Io all’eternit”, ha fallito. Cannibalizzando delfini e pretendenti al trono, per ritrovarsi oggi con un partito nanizzato all’8 per cento. Se esiste uno spostamento a destra anche dell’elettorato democristo-conservatore, specie al Nord, egli ne porta la responsabilità. Per circa venticinque anni ha occupato il palcoscenico e non è riuscito o non ha voluto costruire un vero partito di centro, con una struttura organizzativa e una classe dirigente. In fondo Giorgia Meloni ha occupato un vuoto. Il suo vuoto.
(da Dagospia)

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