VIVERE CON BERLUSCONI
ANEDDOTI SU CHI SI DEFINIVA UNA FATA TURCHINA
«Le do una dritta: quando uscirà la notizia della mia morte, prima di prenderla per buona lasci passare tre giorni…». Un po’ ci spero, perché si fa fatica a immaginare una vita senza Silvio Berlusconi.
Mi tenne compagnia fin dalla prima giornata di lavoro. Era il 1986 e il mio vicino di scrivania, un fiero comunista che sembrava disegnato da lui — lanciava una scarpa contro il televisore ogni volta che apparivano i baffoni di Lech Walesa, gridando «servo della Cia» — mi mostrò una foto del neopresidente del Milan che sorrideva in mezzo a Baresi e Maldini: «Vedrai che, entro sei mesi, al posto di Maldini e Baresi ci saranno due carabinieri!». La sinistra non ci ha proprio mai preso, con quell’uomo.
Sei mesi dopo, al posto dei carabinieri, c’erano due prelati che gli sussurravano: «Dottore, come da accordi, lei parlerà prima del Santo Padre…». Ci trovavamo in un salone dei palazzi vaticani per l’udienza del Milan con Papa Wojtyla. Altro che «accordi»: dalla smorfia di Berlusconi compresi che nessuno lo aveva avvertito. Gli restavano dunque soltanto dieci minuti per improvvisare un discorso al Sommo Pontefice. Lo seguii di nascosto, lungo i velluti di un corridoio laterale: mi incuriosiva vederlo all’opera in una situazione inaspettata. Camminava avanti e indietro, contorcendo la bocca e componendo arabeschi con le mani. Alla fine della passeggiata indossò il suo miglior sorriso celentanoide e affrontò il Papa con poche e leggendarie parole.
«Santità, Lei assomiglia al mio Milan», fu il suo esordio, a cui Wojtyla reagì rimanendo impassibile, mentre qualche porporato oscillò vistosamente. «Anche Lei, come noi, è spesso in trasferta, a portare in giro per il mondo un’idea vincente, che è l’idea di Dio».
Mai nessuno aveva osato definire Dio «un’idea vincente». Non in quei palazzi, almeno. Berlusconi si era trascinato al seguito una falange di milanisti, giornalisti e inserzionisti del suo impero – il Gruppo, come si chiamavano tra loro – e li presentò al Papa uno alla volta: «Santità, questo è il grande Nils Liedholm, 359 presenze nel Milan da giocatore, 81 gol e un solo passaggio sbagliato». Wojtyla abbozzò un sorriso di cortesia. «E questo invece è Gigi Vesigna, direttore di Sorrisi e Canzoni: un milione di copie, molte più di Panorama!», il settimanale della Mondadori, che ancora non gli apparteneva. Il Papa si illuminò: «Panorama! Io leggo sempre Panorama!». Berlusconi ci rimase talmente male che credo abbia deciso in quel momento di comprare la Mondadori.
Avevo ventisei anni e mi faceva già così ridere e così paura. Era il cumenda moderno, simpatico e spietato, generoso e megalomane, circondato da ondate concentriche di servilismo e devozione a cui faceva di tutto per non sottrarsi. Calava sull’allenamento del Milan da un elicottero direttamente sul prato di gioco (ma lui diceva «giuoco»), si toglieva l’impermeabile beige e lo lanciava alle sue spalle, dove c’era sempre un aspirante portiere pronto alla parata. Quando gli chiesi qual era stato il momento più bello della sua vita, non ebbe dubbi: «La volta in cui nell’antistadio di Como un tifoso mi urlò: Silvio sei una bella f…».
Già allora esisteva un doppio Berlusconi: quello «con il sole in tasca» delle apparizioni in pubblico e il personaggio enigmatico che aveva potuto disporre a meno di trent’anni di prestiti ingenti.
Nei lunghi pomeriggi di Milanello, a tenere banco tra i cronisti sportivi erano due storie extracalcistiche. Una riguardava il famoso esperimento sul tasso di credulità degli italiani. Berlusconi aveva piazzato il suo autista all’ingresso di una convention di imprenditori scafatissimi, presentandolo a tutti come «Ingegner Kwai, autore del ponte sul fiume omonimo». Sebbene si trattasse di una palese citazione cinematografica, sosteneva che oltre la metà degli illustri convenuti aveva stretto calorosamente la mano all’«ingegner Kwai», facendogli grandi complimenti. E chiosava: «È incredibile come persino le persone intelligenti finiscano per bersi qualsiasi balla». Chissà perché gli interessava tanto scoprirlo.
L’altra storia riguardava il famoso patto di Segrate: quando Canale 5 e Retequattro, non ancora sua, avevano firmato un accordo solenne di venerdì pomeriggio per spartirsi la pubblicità televisiva a partire dal lunedì seguente. Dopo le foto di rito, Berlusconi rientrò nei suoi uffici e, così almeno narra la leggenda, si rivolse ai collaboratori come in un film d’azione: «Sincronizzate gli orologi: abbiamo poco più di 48 ore prima che l’accordo entri in vigore. Rastrellate tutta la pubblicità che c’è in giro!». Arrivò il lunedì e i proprietari di Retequattro si trovarono senza più neanche uno spot, tanto che di lì a qualche tempo dovettero vendergliela. Questo aneddoto, forse un po’ romanzato (magari proprio da lui) è il test che ho utilizzato negli anni per capire gli orientamenti politici dei miei interlocutori. Chi reagiva dicendo «vergogna, che disprezzo per le regole!» votava a sinistra. Ma la maggioranza commentava: «Intanto lui nel week-end ha lavorato».
Lasciai Milano per Roma, convinto che non lo avrei incrociato mai più. Lo rividi una notte a Barcellona, con la Coppa dalle grandi orecchie fra le braccia, mentre catechizzava la folla: «Un giorno vorrei fare l’Italia come il Milan!». Tutti a darsi di gomito, tranne i giornalisti sportivi che lo seguivano da una vita. Loro sapevano di che cosa fosse capace.
Una sera di novembre (del 1993) il giornale mi mandò in Parlamento per raccogliere pareri sul suo ventilato ingresso in politica. Montecitorio era deserta, ma da una porticina apparve l’allora capogruppo del Pds, Massimo D’Alema: «Smettetela con queste sciocchezze. Berlusconi non fonderà mai un partito. M-a-i!». Compresi che la discesa in campo era questione di ore.
Nei mesi successivi l’Italia intera scoprì le sue manie e le sue megalomanie, ma anche la sua genialità. Le videocassette con la finta libreria dietro le spalle e la calza vera sopra la telecamera. Il miracolo italiano e la «narrazione» irresistibile dell’uomo di successo che viene dalla «trincea del lavoro». L’inno con le parole intercambiabili scritte da lui: «E Forza Italia per fare per credere…». Le frasi memorabili: «Non esistono i poveri, ma solo i diseducati al benessere».
Ero esterrefatto. A cosa era servito scappare dallo sport, se me lo ritrovavo di nuovo addosso? «Prova a parlare d’altro», mi scongiuravano i lettori, ma non esisteva argomento in cui non c’entrasse Berlusconi.
La politica? Lui.
Il calcio? Lui.
La tv? Lui.
La pubblicità? Lui.
Il cinema? Lui.
La cronaca rosa? Lui.
La giudiziaria? Lui.
L’economia? Lui, lui, lui.
Per distrarmi, un giorno comprai una rivista di botanica: c’era una sua foto nel giardino di Arcore mentre potava le rose. Dopo l’ennesimo exploit, scrissi: «Che cosa potrà ancora inventarsi quest’uomo per stupirci? Giuro che non me ne occuperò più, a meno che non faccia esplodere un vulcano». Era giugno. Resistetti fino a Ferragosto, quando dalla Costa Smeralda arrivò un’agenzia di stampa: «Scoppia finto vulcano nella villa di Berlusconi, panico tra i villeggianti».
Difficile non trasformarlo in un’ossessione. Il culmine lo raggiunsi durante la mia prima e ultima vacanza in un paradiso esotico, nell’anno della vittoria elettorale dell’Ulivo. Bagno notturno, la luna, gli amici, il mormorio del mare. Curzio Maltese (scomparso quest’anno anche lui) mi si avvicinò con aria corrucciata: «Stavo pensando che se Prodi non fa subito la legge sul conflitto di interessi…». «Ti prego, basta Berlusconi! Almeno qui…». Però aveva ragione Curzio: gli ulivisti non fecero la legge.
Forse erano su qualche spiaggia esotica anche loro. Entrai nella fase dell’apostolato: volevo convincere il prossimo che Berlusconi non era un liberale, ma un monopolista. Mi arresi subito, durante un trasloco, quando un operaio mi abbordò con una certa preoccupazione: «Dottò, lei che segue la politica, non è che Berlusconi pensa di vendere le televisioni?». «Ne dubito, ma se succedesse diventeremmo un Paese normale, non crede?». «Se vende le tv, io non lo voto più. Finché le ha, è ricco. E finché è ricco, non ruba». «Ma così farà sempre e soltanto gli affari suoi». «Sì, ma facendo i suoi, sarà costretto a fare un po’ anche i nostri. Se invece vende le tv, diventa un politico come gli altri».
La sinistra sosteneva che l’italiano medio era vittima delle bugie di Berlusconi. Invece in molti casi era solo un Berlusconi più povero. Il suo nome restava il più amato o il più osteggiato, comunque il più evocato. Mai nessuno aveva diviso tanto gli italiani. Un fanatico dei girotondi di Nanni Moretti mi scrisse di avere rinunciato a corteggiare una donna che gli piaceva dopo avere scoperto che aveva votato per lui. La democrazia si era trasformata in un referendum continuo, pro o contro una singola persona che incarnava un mondo che gli uni consideravano sguaiato e gli altri vitale. E quella persona era il cumenda che tanti anni prima avevo visto spiegare Dio al Papa e lanciare l’impermeabile all’aspirante portiere del Milan.
Siamo invecchiati insieme, nel senso che mentre io perdevo i capelli, lui li ritrovava. Non ha mai cercato di convertirmi. Solo una volta, saputo dei miei trascorsi liberali, mi chiese: «Ma se non è un comunista, perché non sta con noi?».
Berlusconi era un genio della semplificazione: per lui era comunismo tutto ciò che stava a sinistra di Emilio Fede. Vedeva gli italiani per come sono. Mussolini avrebbe voluto farne dei soldati-contadini come gli antichi romani, la Dc dei cittadini probi e laboriosi, e anche il Pci aveva un fondo pedagogico e moralista. Invece Berlusconi li esortava ad andare fieri dei loro difetti, considerandoli sintomi di libertà. Ne dava egli stesso l’esempio, con soprassalti di individualismo e cadute di gusto che indignavano gli stranieri e chi tale si sentiva anche in patria, ma confermavano nei suoi elettori la convinzione che lui fosse «uno di noi». Non li ha peggiorati. Li ha sdoganati. La sua eredità culturale resta racchiusa nell’esortazione che rivolgeva agli autori dei suoi programmi: «Ricordatevi che una parte del nostro pubblico ha fatto la seconda media e non era neanche tra i primi della classe». Quel pubblico che la Rai democristiana e comunista cercava di spingere verso il liceo a colpi di prediche e polpettoni, Berlusconi lo ha trattenuto nel paese dei Balocchi, ammannendo svago e facilità come l’omino di burro che trasforma Pinocchio in un ciuchino. Anche se, quando glielo dissi, mi rispose che il personaggio della favola in cui più si riconosceva era la Fata Turchina.
Massimo Gramellini
(da il Corriere della Sera)
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