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PRIMO MAGGIO E LAVORO, ECCO PERCHE’ I GIOVANI NON VOGLIONO PIU’ RINUNCIARE ALLA QUALITA’ DELLA VITA

LE STORIE DI SARA, GIACOMO, GIORGIA, VINCENZA E LUCA, CINQUE RAGAZZI RACCONTANO LA LORO ESPERIENZA

C’è chi è partito in cerca di una prospettiva. Chi crede in un futuro in Italia e sta per tornare a casa, portandosi dietro esperienze. Chi non riesce a non farsi ogni giorno la stessa domanda: «Ne vale la pena?». Ogni anno il Primo Maggio diventa l’occasione per riflettere su ciò che non funziona nel mercato del lavoro italiano, fatto di bassi salari, poche tutele e prospettive di futuro quasi azzerate. Ogni anno la speranza è che questo giorno non sia solo un ricorrenza di frasi fatte, ma sia l’occasione per impegnarsi concretamente a far cambiare le cose. Per fare questo, partiamo dalle storie di cinque giovani, su cui il far west del mercato del lavoro pesa di più. Storie di ventenni e trentenni stanchi di sentire la retorica del sacrificio: giovani che hanno il coraggio di fare scelte per la qualità del loro lavoro, che vuol dire la qualità della loro vita.
Sara Della Rovere, 25 anni, praticante avvocato
«Siamo davvero dei professionisti che, per spiccare, devono vivere per lavorare?». Nonostante Sara Della Rovere una risposta a questa domanda ce l’abbia, le continua a rimbombare in testa tutti i giorni, combattuta dalla passione per il suo mestiere e le rinunce che le richiede. Una mattina di qualche settimana fa ha deciso di metterla nero su bianco su LinkedIn, con un post in cui ha raccontato la conversazione con una collega. «Se vuoi essere un ottimo avvocato, visto quanti ce ne sono – è la risposta che ha ricevuto dalla collega -, devi dedicarti completamente al lavoro, altrimenti rimarrai sempre mediocre». Ma per Sara, 25 anni appena compiuti, la qualità della vita di un bravo professionista non può essere misurata in ore passate alla scrivania.
Di origini friulane, si è trasferita a Milano durante gli studi universitari e per permettersi la vita nella metropoli più cara d’Italia ha sempre fatto «lavoretti – racconta -, dalla cassiera alla Lidl all’addetta alle vendite da Pandora». Finché, dopo la laurea in Giurisprudenza, non ha iniziato la pratica forense con il sogno di diventare avvocato. «Sogno che ogni giorno si scontra con una realtà fatta di compromessi e rinunce – rimarca -: la rinuncia a un equilibrio vita-lavoro, a dei ritmi di vita sostenibili, a un’indipendenza economica. Spesso, anche la rinuncia alla sanità mentale». Da Milano si è trasferita a Monza non solo per i costi ma anche perché lavorare in uno studio di periferia le permette di avere una vita che è quasi «un’utopia per il mio settore», commenta. La sveglia suona tutti i giorni alle 8 meno 15, alle 8 e mezza esce di casa per entrare in studio verso le 9. Lavora otto ore con una pausa pranzo di due che le permette alcuni giorni di andare in palestra. «Rispetto alle esperienze di miei amici ed ex colleghi, che non escono dall’ufficio mai prima delle 21 e fanno pranzi davanti al computer – spiega -, io ho preferito l’umanità».
Per i 18 mesi di praticantato percepisce un rimborso spese «attorno ai 400 euro». Una cifra che non le permette di mantenersi a Milano ma nemmeno a Monza. «Ad oggi è obbligatorio il compenso per legge – aggiunge – ma non viene stabilito un minimo: alcuni miei colleghi prendono 150/200 euro mensili, gli studi si giustificano dicendo che usciti dall’università non siamo una risorsa ma quasi un peso». Difronte a questa realtà «sono combattuta se quello che sto facendo sia effettivamente quello che voglio fare – conclude Sara -: questa prima parte di formazione è sicuramente la più dura e non aiuta il fatto che si tratti di una professione quasi satura. Quotidianamente mi chiedo se ne valga la pena. Poi i miei dubbi si risolvono in virtù di quella che è la passione per questo mestiere. Ma credo che sia necessario un intervento».
Giacomo Collini, 33 anni, ingegnere
Cinquantacinque. Quarantasette. A volte quarantasei. Giacomo Collini ha perso il conto delle ore che passava in ufficio a Bologna. Ma non è il tempo passato davanti a un computer o in macchina per raggiungere la sede di lavoro ad averlo fatto scappare in Germania. Ingegnere appassionato del suo mestiere, a 33 anni come tanti ragazzi guarda avanti, sogna. E in Italia, dice, è questo che manca: la prospettiva. Lo spiega riprendendo la metafora che usava il suo datore di lavoro: «Ci diceva di pensare a una partita di pallavolo in cui il nostro compito era buttare di là la palla. Dovevamo solo fare questo: buttare la palla di là. Non c’era pianificazione, non c’erano prospettive». Da settembre Giacomo si è trasferito a Dusseldorf con la sua compagna, dove tra lo stipendio più alto – «e il costo della vita è pari a quella di Bologna», sottolinea -, e le maggiori libertà – «la settimana lavorativa è di 37 ore» – riesce a immaginarsi un futuro. «Ci siamo interrogati sul tornare o meno a Bologna – confessa -, ma non rientreremmo mai per il solo sgravio fiscale, vorremmo anche lo stesso work/life balance che possiamo avere qua».
Originario di Ravenna, dopo aver fatto il muratore e l’elettricista durante il periodo scolastico, all’Alma mater di Bologna si è laureato in Ingegneria meccanica. Ha iniziato subito a lavorare per una multinazionale con sede sotto le Due Torri, con un contratto a tempo indeterminato «e un buono stipendio – riconosce -, per gli ingegneri è abbastanza la normalità». Per un anno e mezzo ha fatto il collaudatore, finché non è passato all’ufficio commerciale come specialista di prodotto. «Da lì è diventato un lavoro più gestionale e ho iniziato a fare le grandi trasferte: sono andato a Wuhan quando ancora nessuno la conosceva». Sono passati velocemente sei anni, in cui oltre il lavoro c’era poco spazio per dedicarsi ad altro. «Lavorando con l’Asia alle 8 di mattina c’erano già riunioni, poi il pomeriggio c’erano quelle con il mercato americano. La mia settimana lavorativa durava mediamente 48 ore». Si è trasferito da Bologna a Faenza quando ha incontrato la donna che sarebbe diventata sua moglie. «Ho fatto presente in azienda la necessità di fare un’ora di macchina all’andata e al ritorno tutti i giorni – ricorda -, mi è stato risposto che l’auto aziendale non me l’avrebbero data, ma che ci sarebbero state possibilità di carriera. Promesse non mantenute e da lì ho iniziato a guardarmi intorno».
Dopo lunghe settimane passate a mandare curricula, da un cliente è arrivata la proposta di trasferimento in Germania. Accettata dopo mesi di ripensamenti. Da settembre Giacomo vive a Dusseldorf e la sua vita è stata stravolta, in senso positivo. «Qui la settimana è di 37 ore, il venerdì pomeriggio è libero. Non ci sono orari standard, basta rientrare nel bilancio delle ore annuali – spiega -. Se esci 10 minuti prima non devi chiedere un permesso, se ritardi non ti devi giustificare. Tutta questa libertà mi ha sconvolto: non ce l’avevo mai avuta». Non solo. «Ci sono tanti servizi per le famiglie e agevolazioni per i giovani- aggiunge -. Il mercato del lavoro italiano è senz’altro disallineato rispetto alle aspettative delle persone: non puoi offrire mille euro al mese perché la vita adesso ha un costo elevato – sottolinea Giacomo -. Ma oltre a un problema di stipendi, manca la garanzia di un futuro». Quell’auto aziendale a Dusseldrof è arrivata. «Quello che in Italia ci sembrava impossibile, qui è automatico».
Giorgia Vezzani, 27 anni, specialista di sostenibilità ambientale
«Sono tornata a Copenaghen e …piove». Sono passati quattro anni ma Giorgia Vezzani, 27enne di Reggio Emilia, non si vuole abituare. Il brutto tempo, il sole che da novembre a marzo sorge alle 8 e tramonta alle 15, uscire di casa nel buio e rientrare nel buio. Si è trasferita in Danimarca nel novembre del 2019, dopo una laurea magistrale in Economia dell’ambiente. A Copenaghen «la mancanza di sole si fa sentire», insiste, ma si è costruita una vita che in Italia sarebbe difficile da immaginare. «Non mi piace dire che sono i Paesi più felici al mondo perché non penso sia così – sottolinea -, ma come indicatori di benessere sono sempre in alto. Qui c’è la consapevolezza che abbiamo diritto a una vita oltre al lavoro». Se alla pioggia non ci si abitua, alla libertà sì. E ora che sogna di tornare in Italia non nasconde di avere qualche timore: «La mia paura è lavorare per sopravvivere – confessa -. Qua ho trovato una qualità della vita elevata e la libertà economica, ma l’amore per la mia famiglia e per i miei amici di una vita non può essere sostituito».
Ancora prima di avere una laurea in tasca, in Danimarca Giorgia ha percepito uno stipendio di disoccupazione che le ha permesso di mantenersi finché non ha trovato lavoro come specialista di sostenibilità ambientale da Postnord, «l’equivalente delle Poste Italiane in Danimarca – spiega -. Sono responsabile di calcolare la co2, cercare di capire come ridurre le emissioni e aumentare la sostenibilità aziendale». La settimana dura 37 ore: lavora dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 16.30, con pause pranzo di mezz’ora. Un orario che le permette di non rinunciare ad allenarsi per il triathlon, vedere gli amici e il fidanzato. «Ognuno si organizza come vuole – spiega – perché si può scegliere a che ora iniziare a lavorare: c’è chi attacca alle 7 ed è libero alle 14.30». Non c’è bisogno di permessi né di giustificazioni. «Se devo andare dal medico me lo lasciano fare, se voglio lavorare da casa posso farlo sempre – chiarisce -. La differenza tra la società danese e quella italiana è che la prima è basata sulla fiducia e sembra funzionare».
A farla desistere finora dal rientrare in Italia sono state anche quelle che definisce “storie horror” raccontate dagli amici. «Ho amiche che attaccano alle 9 e finisco tra le 20 e le 21. E viene dato per scontato. In Italia sembra che il datore di lavoro ti faccia un favore ad assumerti, mentre in Danimarca sei tu a fare un favore al datore e tutto viene incentrato sul tuo benessere. La mia paura è tornare e lavorare per sopravvivere, e con lo smart working che sembra essere una concessione divina». Paura colmata dalla mancanza della famiglia e degli amici, che l’ha spinta a decidere in ogni caso di rientrare nel 2024. «Sono consapevole che tornerò in un ambiente dove avrò uno stipendio più basso e delle condizioni lavorative peggiori, ma desidero fare una professione che mi permetta di dare indietro quello che ho imparato qui. Mi sono state date delle opportunità lavorative che credo che non mi sarebbero mai state date in Italia. Aumentare gli stipendi è importante, ma fidarsi dei propri lavoratori lo è ancora di più».
Vincenza Giglione, 32 anni, copywriter
«Ci viene detto che non siamo più disposti ad accettare certe condizioni di lavoro. E perché dovremmo?». Vincenza Giglione, originaria di Camporeale, un paesino di nemmeno 3mila abitanti in provincia di Palermo, sintetizza i suoi 32 anni come uno «zigzagare da un lavoro all’altro, da una città all’altra, da un Paese all’altro». Dopo una laurea a Milano, due tirocini, diversi lavori come copywriter e una parentesi a Cambridge per un master, è tornata a Catania. «Ho sempre percepito il tornare in Sicilia come un fallimento», confessa. Invece per lei la pandemia non ha solo cambiato le priorità ma le ha anche dato il tempo di cambiare prospettiva. «Vivere a Milano significava una vita con la data di scadenza, non vedevo un futuro – ricorda -. Il Covid ci ha fatto notare le storture del sistema in cui siamo, ci ha ricordato che non esiste solo il lavoro e, a me, che non esistono solo le grandi città».
Nel capoluogo lombardo è arrivata per studiare Lettere moderne all’Università. Poi, con la laurea in tasca, è volata a Cambridge per un master in Editoria. Qui si è affacciata al mondo del lavoro con il primo stage in una piccola casa editrice e poi, rientrata a Milano, con il secondo nell’ufficio comunicazione di un’università. Zigzagare sì, ma a Vincenza non è mai mancata la voglia di mettersi in gioco che l’ha portata, rimborso spese dopo rimborso spese, a ricevere la prima offerta di lavoro come copywriter: «È stata un’esperienza positiva – ricorda -, anche se avevo un contratto che si rinnovava ogni 6 mesi, vivevo con l’ansia di restare a casa». Senza mai darsi per vinta ha cambiato agenzia, «un’esperienza terrificante – spiega -: si è conclusa con una causa legale contro il nostro datore di lavoro. Siamo rimasti a casa da un giorno all’altro con modalità da film». Ricorda la vita Milano come «alienante»: «Bisogna sempre correre e chi si ferma è perduto. Anche se sono arrivata in un momento in cui i prezzi degli affitti non erano ancora così folli, non mi permetteva di ragionare in prospettiva, non riuscivo a mettere niente da parte».
La pandemia l’ha aiutata a rivalutare alcune scelte e, nell’estate dopo la prima ondata, è tornata nella sua Sicilia, ha aperto una partita Iva ed è diventata freelance. Ora lavora come copywriter e traduttrice, porta avanti un progetto musicale come cantante e vive con il mare sullo sfondo. «È troppo facile dire che noi giovani non abbiamo voglia di fare – conclude -. Non è così: io incontro persone che hanno come fine la soddisfazione personale ma anche la volontà di creare valore nella società. Ci viene detto che non accettiamo certe condizioni di lavoro ed è giusto che sia così: la gavetta la facciamo tutti, accettiamo rimborsi spese in cambio di formazione, ma a un certo punto se una persona pur di lavorare deve farsi pagare dai proprio genitori non credo sia normale. È sfruttamento”.
Luca Altimani, 29 anni, freelance esperto di comunicazione
Manda un curriculum e passano giorni. Presto diventano settimane, mesi. Luca Altimani ricontrolla il curriculum. Forse qualcosa non funziona, perché nessuno lo chiama nemmeno per un colloquio. Tra le esperienze principali ci sono più di tre anni come amministratore di “Commenti memorabili”, una pagina che interpreta con ironia le notizie del giorno seguita da oltre tre milioni di persone solo su Instagram. «Ho delle potenzialità», riflette. Eppure la conclusione è una: «Il mondo del lavoro non mi vuole». A raccontare come ci si sente quando devi essere «selezionato da qualcuno» è un 29enne di Carmagnola, freelance della comunicazione ed esperto di social media.
«Nella mia vita non ho mai avuto voglia di lavorare finché non ho trovato qualcosa che mi piacesse fare», ammette. Dopo aver lavorato in un negozio di abbigliamento e aver fatto l’agente immobiliare per un anno, la svolta è arrivata quando il fondatore di “Commenti memorabili” l’ha chiamato per entrare a far parte del team: «Si era accorto – spiega – che i miei commenti venivano sempre selezionati». Si è buttato in quella avventura senza avere esperienze da social media manager alle spalle e sono passati velocemente tre anni, tra ufficio e smart working. «Un giorno mi sono detto che volevo giocare da libero battitore», ricorda. E così ha chiuso il computer per un anno. Ha viaggiato e ha provato a fare il falegname, finché non gli è tornata la voglia di ricominciare da capo. «Ho iniziato a mandare curricula nel mondo del digital, avevo un’esperienza positiva alle spalle e credevo di trovare piuttosto facilmente un normale lavoro che mi permettesse di portare a casa un normale stipendio. Invece nessuno mi contattava».
Sono passati tre mesi, che poi sono diventati sei e velocemente otto. Un periodo che a Luca è sembrato infinito. «Ho fatto due colloqui su chissà quante candidature presentate. Mi sentivo male: un lato di me sapeva che avevo delle potenzialità ma dall’altra parte mi dicevo che il mondo del lavoro non mi voleva. Ero a terra». Si è persino presentato al Comune di Carmagnola per chiedere come poter trovare un’occupazione: «Mi hanno consigliato di creare il cv in formato europeo – spiega -, ma neanche questo è servito». Si è iscritto a LinkedIn su consiglio della sua compagna. «Mi sono creato un profilo standard, con la foto con la camicia e dei libri di business sulla mensola per fare capire che ero uno sveglio – ironizza -, mandavo solo candidature ma non funzionava. Finché mi sono detto “quello non sei tu” e ho ricreato tutto per come sono davvero».
Ha riorganizzato il profilo in modo che lo rispecchiasse e, in chiave ironica, ha iniziato a scrivere post prendendo in giro lo stesso mondo del lavoro che sembrava non accettarlo. «Le persone hanno iniziato ad avvicinarsi – racconta -, così come le aziende. Sono diventato un freelance, ho diversi clienti che vogliono qualcuno che segua la comunicazione in modo non istituzionale, faccio formazione e seguo eventi». Non nasconde l’emozione: «Ho capito quanto fosse importante non adattarsi a un sistema e mantenere la mia identità. Ora è come se avessi vinto al lotto».
(da La Stampa)

This entry was posted on sabato, Aprile 29th, 2023 at 20:47 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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