REFERENDUM, IL VALORE DI UN VOTO
QUORUM O MENO, LA CONSULTAZIONE POPOLARE E’ ANCHE UNA SFIDA SOCIALE
C’è un solo modo per dimostrare ai tre “untorelli” delle destre al comando che il virus dell’ignavia democratica non ha ancora sopraffatto il corpo sociale di questo Paese: andare alle urne, in massa. Votare questi cinque referendum, comunque la si pensi. Esercitare un imprescindibile diritto costituzionale e adempiere a un irrinunciabile dovere civico.
Per farlo non è necessario condividere l’appello dei Comitati promotori, a partire dalla Cgil. Basta molto meno, o molto di più: cioè ascoltare le parole di Sergio Mattarella che il 25 aprile, per l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, a Genova ha esaltato il valore del voto libero e democratico: «Non possiamo arrenderci all’astensionismo, non possiamo abituarci a una democrazia a bassa intensità».
Alla vigilia di questa tornata referendaria non c’è risposta migliore di quella del presidente della Repubblica al velenoso canto della sirena di palazzo Chigi. Dal comodo pulpito organizzato da una gazzetta di regime Giorgia Meloni rilancia la sua corriva messinscena: andrò alle urne, ma non ritirerò la scheda.
Mediocri tartufismi, utili a incassare una photo-opportunity al seggio senza contribuire al quorum. L’ennesima fuga dai problemi, ormai vero e proprio “metodo di sgoverno” della cosa pubblica. Parafrasando l’acronimo anti-Trump: gli americani hanno il Taco, noi abbiamo il Maco. Meloni always chickens out.
A convincere gli indecisi a votare sarebbe già sufficiente l’invereconda “campagna per la diserzione” orchestrata da questi Jep Gambardella delle istituzioni che, non sapendo maneggiare la democrazia, si prodigano per farla fallire. Perché questa, innanzitutto, è la posta in gioco dei referendum: partecipare, prendere parte, contare. Non c’è altro modo per ridare senso a quella che fior di politologi definiscono “la democrazia stanca”, un patrimonio da salvare ridando voce ai cittadini come protagonisti di una vita pubblica condivisa.
Dall’“andate al mare” di Craxi nel 1991 tutti i segretari di tutti i partiti hanno cavalcato l’onda astensionista, secondo convenienza: Ds, Margherita e Cofferati contro il quesito sull’articolo 18 del 2003, Berlusconi e Casa delle Libertà contro quello sull’acqua pubblica del
2011, Renzi contro quello sulle trivelle nel 2016, i due poli contro quelli sulla giustizia nel 2022. Chi è senza quorum scagli la prima scheda. Tutto legittimo. Ma tutto sbagliato. Predicando disimpegno e disincanto, le élite ingannano popoli e incubano autocrazie.
Cambiare schema, cioè andare ai seggi, è oggi ancora più importante. C’è in ballo una sfida politica. Quorum o non quorum, la consultazione popolare servirà a misurare i rapporti di forza tra maggioranza e opposizione. Con almeno 12 milioni di votanti, la seconda non manderà alla prima alcun “avviso di sfratto”, ma potrà dimostrarle che c’è un’altra Italia, non rassegnata al comando meloniano e pronta a scommettere sull’alternativa.
È il primo tempo della partita: il secondo tempo, in autunno, richiamerà al voto 17 milioni di italiani, in Veneto, Toscana, Marche, Campania, Puglia. Una spallata non fa una crisi: due in rapida sequenza, chissà. I referendum serviranno anche a regolare qualche conto nel Partito democratico: un successo di affluenza e di sì consoliderebbe l’asse Schlein-Landini, a spese delle ultime anime perse del tardo-renzismo. Ma il mondo è in fiamme, di che parliamo? Piccoli suicidi tra amici, direbbe il vecchio Arto Paasilinna.
In ballo c’è anche una sfida sociale. Qual è l’impatto concreto dei quesiti sul mercato del lavoro e sulla cittadinanza? Al di là delle geremiadi dei soliti benaltristi e panciafichisti — sempre pronti a tacciare di passatismo qualunque iniziativa che disturbi i padroni del vapore — l’abrogazione del Jobs act non riaprirebbe le verdi vallate della piena e giusta occupazione. Il risarcimento economico al posto della reintegra è una pseudo-riforma sbagliata del governo Renzi (se non altro perché ha creato assurde disparità tra gli assunti prima e dopo il 2015).
Ma a dieci anni di distanza lo possiamo dire: non ci ha portato le
sette piaghe d’Egitto. Ha ridotto appena del 20% le cause davanti ai giudici, non ha favorito i “milioni di licenziamenti” che si temevano, ma neanche il “boom delle assunzioni” che aveva promesso. Nel 2024 i licenziamenti sono stati 191 mila in meno rispetto al 2014, ma solo il 5% dei nuovi assunti ha beneficiato del contratto a tutele crescenti.
Avere abbattuto ieri il totem dell’articolo 18 è stata una scelta molto ideologica: rimetterlo in piedi oggi è una svolta poco più che simbolica. Ma i simboli contano, anche se non bastano. Vale per l’abolizione del Jobs act come per gli altri quattro quesiti, sulla cancellazione delle soglie ai fini del calcolo delle indennità di licenziamento, la reintroduzione delle causali nei contratti a termine, la responsabilità degli appaltatori e il dimezzamento dei tempi per acquisire la cittadinanza italiana.
La lotta sacrosanta contro la precarietà e la deflazione salariale avrebbe bisogno di un vero, grande “piano del lavoro”, per aumentare la produttività e il potere d’acquisto, alleggerire il cuneo fiscale e introdurre il salario minimo, fare le politiche attive ed eliminare i part-time ultraflessibili, i contratti intermittenti senza vincoli, i tirocini reiterati, le false partite Iva.
La vera integrazione di migranti e stranieri, in un Paese in glaciazione demografica che perde quasi 150 mila giovani laureati all’anno, avrebbe bisogno di politiche molto più incisive e inclusive. Ma nel frattempo una larga vittoria dei sì ai referendum marcherebbe una chiara inversione di rotta rispetto al sovranismo xenofobo e al primato del capitale sul lavoro. Varrebbe non solo per l’Italia, ma per l’intero Occidente. Lo scrivono Michael Sandel e Thomas Piketty (Uguaglianza, Feltrinelli): “Dovremmo concentrarci meno su come armare le persone in funzione della competizione meritocratica e adoperarci di più per difendere la dignità del lavoro”.
Sono temi di portata universale. Riflettono un modello di civiltà. Possibile che Meloni se ne chiami fuori, derubricandoli a «resa dei conti interna alla sinistra»? Possibile che sul merito dei quesiti non abbia nulla da dire, benché nel 2015 dalla sua invasata curva ultrà avesse definito il Jobs act «carta straccia»?
Possibile che proprio lei — Underdog della Garbatella allevata a Colle Oppio dalla “destra sociale” missina — non colga questa occasione per spiegare soprattutto ai ceti più deboli cosa pensa della precarietà e della contrattazione, del rapporto tra impresa e lavoratori, del dramma dei neet e dei working poor?
Lavoro e cittadinanza non sono «questioni interne al Pd», ma la materia stessa della quale sono fatte le società moderne, che presuppongono il conflitto e classi dirigenti capaci di affrontarlo e di governarlo. L’esatto opposto di quello che fa la Sorella d’Italia, muta e spiaggiata di fronte ai seggi e alla realtà. Per nostra fortuna, c’è ancora domani.
(da La Repubblica)
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