RICCHEZZA DELLE REGIONI: CHI E’ SALITO E CHI E’ RETROCESSO
IL NORD-EST HA SUPERATO L’OVEST, IL LAZIO E’ SALITO, LA CAMPANIA E’ ARRETRATA
Nel corso degli ultimi decenni si è formata una nuova gerarchia tra le regioni italiane
che ha modificato i primati di un tempo senza intaccare, tuttavia, quello delle aree settentrionali, la fluidità di quelle centrali e la grande sofferenza economica e nei servizi pubblici di quelle meridionali.
Nel Nord si è da tempo modificato il paesaggio produttivo: al triangolo industriale formato da Liguria, Piemonte e Lombardia, che aveva dominato la scena economica dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Settanta del Novecento, è subentrata un’area territoriale più ampia, basata sì sul mantenimento del ruolo centrale della Lombardia, ma che ha lasciato indietro Liguria e Piemonte e ha formato un nuovo asse con le regioni del Nord-Est (Veneto innanzitutto), asse che si è esteso in giù verso tutta l’Emilia-Romagna e in su verso l’arco alpino, con il Trentino Alto-Adige che è oggi la regione più ricca d’Italia.
Ma nel 1951 la regione italiana con il Pil più alto era la Liguria, mentre il Veneto era ultima tra quelle del Nord, indietro per ricchezza a quasi tutte quelle del Centro, in particolare alla Toscana, al Lazio e alle Marche. Tre regioni settentrionali (la Lombardia, l’Emilia-Romagna e il Veneto) rappresentano attualmente il 41% della ricchezza nazionale e contribuiscono per più della metà (il 53%) a tutte le esportazioni italiane all’estero.
Nel Centro Italia, invece, si è assistito negli ultimi decenni a una fortissima accelerazione del ruolo del Lazio, che oggi ha superato la Toscana in prosperità e crescita economica (avvicinandosi ad alcune regioni del Nord e addirittura
scavalcandole come nel caso del Piemonte e della Liguria) mentre si è avuto allo stesso tempo un forte arretramento di altri due territori, l’Umbria e le Marche. È un caso da studiare quello delle due piccole regioni centrali, indicate come le antesignane dei distretti industriali, delle virtù delle piccole imprese, della cosiddetta “Terza Italia” e trasformatesi in un lasso di tempo breve in luoghi non competitivi e di crisi di interi settori produttivi. Filippo Sbrana ha ricordato su Il Mulino che nell’indice di ricchezza di tutte le regioni europee le Marche sono arretrate di diversi posti scendendo sotto la media europea (dal 116% al 91%) mentre l’Umbria ha perso addirittura 70 posizioni crollando all’83%.
Nel Sud, la Campania che era stata per quasi 100 anni la regione con il reddito pro capite più alto del Mezzogiorno d’Italia (nel 1871, secondo le statistiche di Emanuele Felice, il suo Pil per abitante era superiore addirittura a quello della Toscana, del Veneto e dell’Emilia-Romagna) è stata scavalcata in ricchezza (o in minore povertà) dalla Basilicata, dal Molise, dall’Abruzzo e dalla Puglia. È successo, cioè, che tre delle aree interne più povere del Sud sono cresciute in Pil più della regione-leader. E la Puglia che aveva sofferto per la prevalenza dell’asse tirrenico anche nella costruzione delle principali infrastrutture di trasporti, ha superato la Campania, che si colloca stabilmente negli ultimi anni al terzultimo posto tra tutte le regioni italiane.
Insomma, dal 1970 in poi si è creata una nuova gerarchia anche all’interno delle regioni meridionali e al tempo stesso si sono consolidate alcune costanti, come l’ultimo posto della Calabria e
il penultimo della Sicilia, che in Europa si affiancano nel chiudere la graduatoria del benessere alle regioni bulgare e rumene.
La domanda da porsi è, dunque, questa: le grandi trasformazioni dell’economia italiana all’interno delle tre circoscrizioni (Nord, Centro e Sud) sono state determinate o accelerate dalla nascita delle regioni nel 1970? Il regionalismo italiano vi ha svolto una funzione decisiva o ha solo accompagnato tendenze già in atto? In verità, quando le regioni sono nate i cambiamenti economici erano già ampiamente avviati. Nel Nord veniva calando il peso del triangolo industriale e la geografia produttiva si spostava dal Nord-Ovest al Nord-Est con la prepotente risalita del Veneto e dell’Emilia-Romagna e con l’affermarsi consistente delle tre regioni a Statuto speciale del settentrione. È indubbio che le regioni hanno accompagnato questa trasformazione, ma sicuramente non l’hanno provocata.
Nel Sud la Campania a fine Novecento ha perso il suo primato storico ed è stata superata dalle regioni appenniniche, le aree interne sono cresciute più di quelle costiere mentre il lato adriatico meridionale ha cominciato a espandersi più di quello tirrenico. Se il regionalismo ha avuto un peso in questo cambio di gerarchie, sicuramente ciò vale per le regioni meno abitate e non per quelle più popolate. Nel Centro, invece, si è assistito prima a una forte risalita di Marche e Umbria e poi a un crollo verticale che ha portato nel giro di un ventennio questi due territori ad allontanarsi non solo dai primati di quelli del Nord ma anche dalla Toscana e dal Lazio, avvicinandosi all’Abruzzo
per reddito e per produzione di ricchezza. Il regionalismo, qui, sembra avere avuto due esiti diversi nel giro di poco tempo: uno positivo dal 1970 in avanti e uno negativo in seguito, non in grado, cioè, di arrestarne la crisi avviatasi dal 2000 in poi.
Nel Sud, certo, il regionalismo ha dato vita sicuramente a qualche interessante performance in Basilicata e nelle aree interne, ma anche a tale proposito bisogna verificare se non sia stato più decisivo l’insediamento a Melfi della Fiat o la scoperta del petrolio in Val d’Agri (la Basilicata è oggi la principale regione petrolifera d’Italia). Per l’Abruzzo è da valutare il ruolo degli insediamenti industriali degli anni Ottanta e la vicinanza geografica con le aree del Centro-Nord rispetto a un ipotetico ruolo propulsivo dell’ente regionale.
La situazione delle regioni a statuto speciale è ancora più emblematica a riguardo. Delle cinque esistenti (Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Friuli Venezia-Giulia, Sicilia e Sardegna) le prime tre si collocano oggi tra quelle italiane ed europee a più alto reddito, le ultime due tra quelle a più basso sviluppo. Tra le due grandi isole, la Sardegna è meglio collocata della Sicilia, ma entrambe non riescono a tirarsi fuori da indici economici di arretratezza nonostante siano regioni a statuto speciale.
In conclusione, i dati che sono qui riportati sembrano escludere un ruolo dell’istituto regionale nella trasformazione dell’economia italiana, dimostrando che una maggiore autonomia istituzionale non incide necessariamente in maniera positiva sullo sviluppo economico di una regione, a meno che la stessa non faccia parte di una grande area di scambi, di industrie,
di servizi, di influenze reciproche. Insomma, le regioni sembrano aver accompagnato tendenze economiche in atto e indipendenti dalle proprie capacità, ma non di averle create. Nel Nord ciò è evidente. Nel Centro l’avanzata del Lazio non ha niente a che fare con il regionalismo, ma con il ruolo sempre più centrale che occupano le città capitali delle nazioni in Europa e nel mondo. Nel Sud le regioni più piccole hanno ottenuto risultati migliori di quelle più grandi, ma in ogni caso nessuna delle otto regioni meridionali ha superato dal 1970 in poi una di quelle centrali né tantomeno una di quelle settentrionali. La crescita economica non sembra avere a che fare con il ruolo delle istituzioni regionali
(da Il Fatto Quotidiano)
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