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TRA I GIOVANI VOLONTARI CHE SALVANO GLI ULTIMI NELLA CITTA’ D’AGOSTO

NELL’OSTELLO DELLA CARITAS DOVE L’ACCOGLIENZA NON VA IN FERIE… “NON BASTA SERVIRE UN PASTO A CHI NON HA NIENTE, MA DARE LORO DIGNITA'”… I SOVRANISTI VOGLIONO TOGLIERE IL REDDITO DI CITTADINANZA AI POVERI

“Basta poco per scivolare. Una malattia, un rovescio della vita, una scelta sbagliata. Un attimo, e se non hai una rete di protezione composta da famiglia e amici, ti ritrovi ad essere scartato”.
Dopo una lunga militanza nell’Osservatore Romano, oggi Piero Di Domenicantonio coordina L’Osservatore di strada, un giornale in libera vendita che dà voce agli ultimi, ai feriti dalla vita, agli “scartati”, per dirla con Papa Francesco.
Piero mi fa da guida nel torrido pomeriggio di questa infuocata estate romana. È lui che mi accompagna mentre varco la soglia dell’ostello Don Luigi di Liegro. Dove agli “scartati” un manipolo di operatori specializzati e di volontari cerca di prestare quel minimo etico di assistenza e conforto che separa la precarietà dall’irredimibilità, la danza sull’orlo dell’abisso dal precipizio senza ritorno.
La struttura porta il nome di chi la fondò, trentacinque anni fa. Don Di Liegro, figura carismatica di una carità praticata e non solo predicata. Offre 175 posti letto distribuiti in stanze per massimo sei ospiti, una mensa, docce, guardaroba, deposito bagagli. È aperto dalle 17 alle 9 di mattina: Luana Melia, una giovane operatrice dall’aria fattiva, mi spiega, però, che i soggetti più fragili, o con disabilità, a volte si trattengono più a lungo.
Nessuno viene rispedito sulla strada a perdersi, nessuno viene “scartato”: lo “spirito” dell’Ostello non lo permetterebbe. Gli ospiti cominciano ad affluire, salutati dai volontari che fanno un po’ da filtro all’ingresso. Piero comincia a spargere la voce che, se ne avranno voglia, potranno parlare con un tipo che poi scriverà di loro, anche di loro, su un giornale.
Le storie dei volontari
A Luana si aggiungono Alessandro, Lorenzo, Michele. Sono tutti ragazzi sui trent’anni o poco più. Sediamo intorno a un tavolo, in uno stanzone dall’arredo spartano ma dignitoso. Cerco di stimolarli con le curiosità che immancabilmente mi assalgono quando entro in contatto con chi fa un lavoro di frontiera: qual è la molla che ti ha spinto, che cosa speri di ottenere con il tuo impegno?
“Sono entrata qui pensando di farcela a risolvere la vita alle persone” puntualizza subito Luana “e presto mi sono resa conto che mi ero data un obbiettivo impossibile”. Però va avanti: “Finché si può, e sin dove si può arrivare. In sostanza, si tratta di diventare un punto di riferimento in queste vite complesse, e l’unico modo è percorrere insieme un pezzo di strada”.
Michele annuisce. Per alcune sere a settimana cura il “Servizio Notturno Itinerante”. Insieme a un altro paio di ragazzi gira con un furgoncino per entrare in relazione con i senza fissa dimora. Alcuni sono vecchie conoscenze, ci si parla, ma la strada è una scelta, rifiutano l’accoglienza, non vogliono entrare nel sistema.
Altre sono new entry, e il problema è la presa di contatto. “Il punto non è portare un piatto di pasta” mi spiega Michele “non ci crederai, ma Roma è piena di associazioni e anche di singoli che offrono con molta generosità cibo, vestiti, eccetera. Però sai cosa ci dicono i nostri SFD? Che nessuno si ferma mai a parlare con loro. Un piatto di pasta lo cucini per chiunque, una conversazione la fai con una persona. In quel momento la stai riconoscendo, le dai dignità”.
Ma soprattutto, e su questo sono tutti d’accordo, non si fa carità in vista di un grazie o perché, con uno slancio mistico che la durezza della vita fa presto a cancellare, dal povero hai tanto da imparare. Non è così che funziona. Ci sono problemi, e tanti, e vite sulle quali questi problemi si sono concentrati. Vite schiantate. E, dunque, si fa quel che si può. Strano pragmatismo, per un’istituzione cattolica: ma ci arriveremo.
I numeri dei senza fissa dimora
Sopraggiungono Roberta Molina della Caritas Diocesana, e Giustino Trincia, direttore della Caritas Romana. Offrono una visione d’insieme, e un po’ di dati. Roma è la seconda città italiana per numero di SFD, nel 2015 se ne contavano fra 7 e 8 mila, ma le stime vanno aggiornate al rialzo. Chi perde il lavoro, ma parte comunque da una struttura solida – per affetti, famiglia, tenuta individuale – può anche considerare la strada come un’esperienza transitoria, e dopo 3 o 4 mesi rimettersi in carreggiata.
Per chi accompagna alla marginalità una dipendenza o un problema di salute mentale la via della strada può essere senza ritorno. Aumenta il fenomeno del “barbonismo domestico”, aggiunge Trincia. Si tratta di persone che hanno una casa, ma che vivono in completa solitudine, senza legami né familiari né di altro genere. Situazioni di totale abbandono alle quali la Caritas contrappone un servizio di assistenza domestica.
La pandemia, infine, ha prodotto effetti devastanti, con un’impennata dei soggetti con disagio psichico. Negli ultimi anni, poi, i ragazzi, per dirla icasticamente, stanno “scoppiando”. L’età media della disperazione si abbassa pericolosamente. È evidente che centri d’ascolto, ostello, prima accoglienza sono solo tappe intermedie, provvisorie. L’intento resta quello di trasformare la marginalità in integrazione: l’Ostello è una tappa, e un’altra tappa è la casa-famiglia, e così progredendo. Ma senza il concorso convinto della politica, e più ancora della società nel suo complesso, il tema degli “scartati” non conoscerà mai un approccio razionale, lucido, e, soprattutto, risolutivo.
Il giornalino dell’ostello
Torna Piero, e si cambia scenario. Nell’androne dell’ostello, intorno a un lungo tavolo, Alessandro e Francesca hanno organizzato una curiosa riunione di redazione. All’ostello fanno una rivista, si chiama “Gocce di Marsala” – colto il doppio senso? Via Marsala 87 è l’indirizzo del posto… – e lo fanno gli ospiti. Quelli di oggi e quelli di ieri, chi da qui è passato e ha risolto, o comunque attenuato il suo disagio, e chi c’è ancora dentro. È una riunione informale. Ognuno espone la propria idea e il proprio progetto – che sia un tema da affrontare con taglio da cronaca, una riflessione, una poesia, un dialogo. Se ne discute insieme, e poi le cose selezionate finiscono sul giornale. Che è a diffusione interna, non ufficiale, per così dire, ma è motivo di profondo orgoglio: e si capisce, lo fanno loro. È una loro creatura. È la loro voce. E qui, vinto l’imbarazzo iniziale, qui, finalmente, le parole acquistano un senso concreto, e capisco che cosa enorme, e complessa, è questo posto voluto da Don Di Liegro: davvero la casa, la casa libera degli ultimi, il rifugio degli “scartati”.
Lia, per dire. Veste di bianco, ha occhi profondi e smarriti, avrà settant’anni, parla piano, pianissimo, bisogna accostarsi per sentire e non interrompere il flusso dei suoi ricordi, evitare che perda il filo. La sua è una storia dolorosa, l’abbandono di una madre cercata per tanti anni e mai trovata – “M’ha buttato via, ma io le volevo chiedere: perché?” – ma è pure una storia di risalita, di ricostruzione.
C’è Attilio, scrittore ed editore di un libriccino di riflessioni, pensieri, abbozzi di racconti che acquisto volentieri. Si definisce “il desiderativo”, s’è guadagnato uno spazio al Salone del libro di Torino – mi mostra orgoglioso una foto – e conclude dicendo che gli piacerebbe diventare “un nomade digitale”.
Nihal, avrà sui cinquant’anni, dice di avere un passato da imprenditore e giornalista free-lance, viene dallo Sri Lanka, non si apre molto, ma scruta, ascolta, apprende, e ti regala quel suo sorriso orientale e indecifrabile.
A Massimo, che ha la parlata, lo sguardo furbetto, la postura fiera del romanaccio di strada, qualcuno dice che sono quello di Romanzo Criminale. Mi fa cenno di avvicinarmi e mi racconta la sua versione della Banda: c’erano Libanese, Freddo, Dandi e poi lui, che però se n’è uscito perché c’era troppa violenza: finché erano rapine si poteva fare, ma quelli esageravano. Come pure le Brigate Rosse… E c’è Ismail. Una bella faccia slava, abbronzata, occhi azzurri, incallito fumatore. È bosniaco, sessant’anni, ironico, se le fattezze sono lo specchio della vita la sua dev’essere stata assai intensa. Estrae dal taschino un foglietto con la sua ultima poesia d’amore. Eh sì, perché Ismail è un poeta, insospettabilmente delicato: “solo tu dissipi le nubi del mio cielo… l’amore è la vita, io voglio vivere di te… un uomo vero è quello che ti guarda negli occhi e dice: come sono fortunato!”. Non saprò mai se dietro c’è davvero una donna tanto amata, o se Ismail insegue un fantasma. E forse non è poi così importante saperlo. Mentre la riunione volge al termine, Alessandro porta pizza, patatine e bibite (rigorosamente analcoliche) per tutti.
Si avvicinano altri ospiti: tratti asiatici, vecchi romani, un ragazzo africano dalle lenti a specchio. C’è un boccone per tutti, come è giusto che sia. Poi, piano piano, uno alla volta, gli ospiti salutano e si disperdono.
C’è solo Ismail quando arriva Maurizio Lisanti, 73 anni portati eccezionalmente bene, baffoni, abbronzato. È l’anima di “Gocce di Marsala”, si scusa del ritardo, ma “stavo a lavora’”. Un altro romanaccio, uno che ha cominciato un quarto di secolo di fa, con Don Di Liegro.
Mi chiede se sono contento della visita. Rispondo che ho ascoltato e imparato qualcosa. “Torna, e capirai ancora di più”. Dev’essere successo così anche a lui: si è accostato per curiosità a questo universo marginale ed è rimasto coinvolto. Mi trattengo con Piero sulla soglia dell’Ostello. Continuano ad affluire gli ospiti, il popolo claudicante e a volte inquietante della vicina Stazione Termini, qui sorprendentemente disciplinato. Affiorano dal passato lontani ricordi di catechismo. Una volta mi spiegarono che un credente è caritatevole perché nel povero legge il volto del Cristo, e dunque è al Cristo che la carità si offre. Da laico, resto perplesso. Nel povero vedo la vittima di un’ingiustizia sociale profonda e diffusa. Mi piace pensare che sia a lei, a lui che tendono la mano, qui all’Ostello.
Su questo terreno ciò che ci unisce è molto più intenso di ciò che ci divide. Un ragazzo, in bici e con il borsone di una famosa catena di delivery, esce salutando. È Noufal. Profugo siriano. Lavora tutte le sere con le consegne. Si è comperato la bici coi risparmi. Ha una moglie e una bambina in casa – famiglia. Presto avrà la possibilità di affittare un appartamento. Lui è uno che ce la farà. Il segno che “si può fare”. E di colpo una ventata di speranza rende la sera più leggera.
(da agenzie)

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