TROPICAL MADURO
IL CAUDILLO PETROLIFERO NEL MIRINO DI TRUMP
Tropical tempesta a stelle e strisce s’attende sulle coste del disgraziato Venezuela di
Nicolas Maduro, il caudillo, che a Caracas cavalca malamente il potere da una dozzina d’anni, moltiplicando l’inflazione, la corruzione e i debiti con Russia e Cina, svendendo il petrolio, riempiendo le carceri di dissidenti e di stranieri, come il nostro Alberto Trentini, da usare come moneta di scambio per futuri ricatti, svuotando i banchi dei supermercati e delle farmacie, arricchendo i ricchi, mandando in malora il ceto medio, affamando e facendo fuggire la sua popolazione che un tempo gli aveva persino creduto.
Maduro, 63 anni appena compiuti, detto “il gallo combattente”, ama il potere, le fanfare e la forza. Con l’esercito, la repressione, le leggi e i giudici ad personam si è fatto padre-padrone del Venezuela. Lo ha demolito un po’ alla volta, fino alle macerie di oggi. Viene da una famiglia cattolica di Caracas. Studia quasi
nulla. Diventa autista d’autobus. Ma la sua vocazione è il sindacato. Lo scala. Entra in politica nel Movimento Rivoluzionario Bolivariano. Diventa parlamentare. Lo scopre la stella nascente del socialismo Hugo Chávez, l’ex colonnello dei paracadutisti, che dopo un tentato golpe e il carcere, nell’anno 1998, diventa presidente. Maduro sarà il suo delfino e dal 2013, il suo erede.
Trump se lo è scelto come nemico perfetto: claudicante, con le spalle al muro nell’angolo più a Nord del cortile di casa, il Sudamerica, il continente che respira, controllato a vista dalla fraterna giurisdizione di Washington che fa e disfa regimi dai tempi della Dottrina Monroe, anno 1823. Tra i nuovi arredi barocchi dello Studio Ovale, Trump ha annunciato “azioni segrete della Cia già in corso” per rovesciarlo. E ha promesso: “Maduro ha i giorni contati”. Lo accusa di essere alla guida di un narco-Stato che attenta alla sicurezza nazionale dell’America spedendo il micidiale Fentanyl, la droga sintetica che ogni anno trasforma 80 mila americani in zombie. E anche se non è vero quasi niente – il Fentanyl viene prodotto in Cina, e i grandi trafficanti stanno in Colombia, Ecuador, Messico – ha spedito la più grande portaerei della Marina, la Gerald Ford, davanti alle sue coste, con i motori che ronfano al minimo. Mentre 10 mila marines sono sbarcati a ottobre sulle sabbie di Porto Rico a mimare una esercitazione militare e sono ancora lì, in attesa. Anche loro si godono lo spettacolo dei motoscafi venezuelani che gli F-35 americani ogni tanto intercettano e affondano, nelle acque internazionali.
“Sono narcos”, recita l’accusa sulle immagini gentilmente concesse dal Pentagono alle tv del mondo, ogni missile un centro, come un videogioco, niente audio, niente sangue, solo uno sbuffo di fumo e un monito: ecco come trattiamo i nemici dell’America. Anche se nessuna legge lo consente, tranne quella della forza.
Maduro fa più o meno lo stesso sulla terraferma, in patria. L’ultimo World Report sui diritti umani è impietoso: niente libertà di parola, niente indipendenza della magistratura. I media sono controllati dal regime. La polizia abusa dei suoi poteri, arresta senza mandato e senza spiegazioni.
Le carceri sono un buco nero.
L’economia è al collasso: non c’è lavoro, non c’è cibo, non c’è
futuro. Tre milioni di venezuelani sono in fuga verso la Colombia e il Perù. L’iperinflazione ha trasformato il Boliver in coriandoli. La disperazione ha moltiplicato i conflitti e la repressione.
E pensare che nel 1971 il Venezuela, 25 milioni di abitanti ai tempi, in gran parte meticci, classe dirigente bianca, per lo più spagnola e italiana, era lo Stato più ricco del Sud America. Galleggiava su 330 miliardi di barili del petrolio più pregiato al mondo. Lo avvantaggiava la dolcezza del clima, la fertilità della terra, le altre ricchezze minerarie. Il benessere faceva contenti tutti. Nessuno pensava a investimenti e riforme. Così che quando negli anni 80 il petrolio precipita da 106 a 32 dollari, il cambio di stagione diventa una voragine, il Pil si dimezza, la povertà raddoppia, i ricchi si prendono quel che resta.
Saltano le casse dello Stato.
Interviene il Fondo monetario internazionale che offre prestiti e chiede tagli sociali. Monta la protesta, fino alla strage del febbraio 1989, quando per arginare le manifestazioni di Caracas, esce dalle caserme l’esercito, spara, 380 morti.
Entra in gioco Hugo Rafael Chávez che predica socialismo, giustizia sociale per la popolazione meticcia. Stravince le elezioni. Investe in fabbriche, scuola, sanità. In 15 anni di potere raddoppia l’occupazione e il reddito pro capite. Poi arriva la malattia che in un anno si porta via Chávez e la quasi primavera del Venezuela.
Maduro vince le elezioni del 2013 per un soffio e una ammissione che diventerà una minaccia: “Sono figlio di Chávez, ma non sono Chávez”. In una manciata di anni – dalla reggia presidenziale di Palazzo Miraflores – reprime ogni dissenso “con le buone o con le cattive” come dichiara nei suoi lunghissimi sermoni che la televisione nazionale ritrasmette. Esautora il Parlamento nel 2017. Nomina i giudici della Corte Suprema che lavorano al suo servizio. Sopravvive a un tentativo di omicidio. Minacciato dagli Usa, si lega sempre di più alla Russia con accordi militari e ai generosi prestiti della Cina. Apre alla Turchia e all’Iran. Oltre all’esercito, gli protegge le spalle la moglie Cilia Flores, avvocato penalista, parlamentare, sospettata a suo tempo di narcotraffico, titolare di molto potere, dura di carattere: “Cilia ti ama o ti odia, non fa negoziati”.
Per tre elezioni di seguito, la coppia presidenziale resiste a forza
di brogli. Al suo primo mandato, Trump prova a buttare Maduro giù dalla torre, appoggiando il giovano deputato liberal Juan Guaidó che il 23 gennaio 2019 si autoproclama presidente. Tranne l’Italia che nicchia, lo sostengono apertamente l’Europa, gran parte dell’Occidente e del Sud America. Maduro reagisce: “Non torneremo al Ventesimo secolo dei gringos e dei colpi di Stato. Io sono il solo presidente legittimo”.
È sempre più vero il contrario, visto che all’ultimo giro elettorale, luglio 2024, ha oscurato i risultati, limitandosi a dichiarare di aver vinto.
Sparito Guaidó, Trump ci ha appena riprovato con Maria Corina Machado, esponente dell’ultra-destra, che vive clandestina, minacciata da Maduro, protetta dalla Cia. Anche lei si prepara alla guerra, questa volta innalzando il premio Nobel per la Pace che ha appena incassato, grazie a uno di quei giochi di prestigio di cui si nutre la geopolitica. E promette: “La transizione è già iniziata”. Armi, finzioni e propaganda stanno apparecchiando la tavola dell’ultima cena. Il destino del Venezuela è di nuovo in gioco e non sarà Maduro a giocare.
(da Il Fatto Quotidiano)
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