TUTTI I RISCHI PER LA DEMOCRAZIA
LO SCRITTORE MCEWAN: “SIAMO IN UN MONDO IN CUI L’AUTORITARISMO STA SCADENDO NELLA DITTATURA”
Gli scrittori lo sanno dire meglio. Meglio dei politici, degli storici, dei filosofi. Ian McEwan ci regala una credibile e terribile profezia sul mondo che verrà, o che forse sta già venendo sotto i nostri occhi distratti. Non solo o non tanto l’Apocalisse bellica e climatica: il tema è oggi l’usura e domani l’abiura delle democrazie liberali. McEwan ci sbatte in faccia le prove della nostra involuzione morale, culturale, istituzionale: “Siamo in un mondo in cui l’autoritarismo sta scadendo nella dittatura: si moltiplicano i governi autoritari e populisti, dalla Russia agli Stati Uniti”. E infine: “In Europa dell’Est stanno crescendo i nazionalismi di destra, molto spesso infatuati di Putin, ma anche in Germania e in Francia, mentre in Gran Bretagna abbiamo Farage e in Italia avete questi proto-neofascisti pressoché al potere”. Il coraggio di chiamare le cose col loro vero nome: è questo che spesso ci manca, arresi come siamo al conformismo delle masse indifferenti e al sovversivismo delle classi dirigenti. La “verticale del potere” non è più l’ossessione esclusiva dell’Uomo del Cremlino, come ce l’hanno spiegata Masha Gessen e Michel Eltchaninoff: il
dispositivo del comando, col quale l’eletto dal popolo valica i limiti costituzionali e piccona i contro-poteri istituzionali, è patrimonio comune all’intera Internazionale Sovranista codificata da Steve Bannon, principe delle tenebre trumpiane come Dick Cheney lo fu di quelle bushiane. È “l’ora dei predatori” descritti da Giuliano Da Empoli: politici spregiudicati e ibridati dai titani digitali che entropizzano il caos e, se ne hanno i mezzi, lo riversano fuori dai loro confini.
Tutti evocano il nuovo “patriottismo”, dove la grandezza della “Nazione” è proporzionale alla paura che ispira. Tutti cavalcano la Rete, falsa agorà dove si costruiscono senso comune e consenso, dove lo scemo del villaggio diventa autorevole quanto il premio Nobel come insegnava Umberto Eco, dove gli autocrati possono spacciare le loro “verità alternative” a community scientemente addestrate a un analfabetismo funzionale coerente con lo spirito del tempo. Vecchie élite e vecchie regole non contano più niente: valgono solo la forza e l’azione, meglio se esemplare. Contro l’Ucraina e contro la Palestina, contro l’Onu e contro la Ue, contro le Corti internazionali e le Corti costituzionali. Chi oggi, tra le macerie dell’Occidente, osa considerare pericolose e magari “tecnicamente eversive” le destre al comando, subisce lo stigma. McEwan si può permettere di definire i patrioti francesi e tedeschi, inglesi e italiani, “proto-fascisti al potere”. Sono licenze lessicali e valoriali che solo gli intellettuali si possono prendere (e neanche a tutti: pensate al trattamento subito qui da Scurati e Canfora). Senza cadere nella trappola ordita da chi aspetta solo di tirar fuori dagli armadi lo
scheletro pasoliniano del “fascismo degli antifascisti”, è forse il momento di dare anche noi un nome alle cose. Non mi riferisco agli episodi “minori”, che poi così minori non sono perché contribuiscono al graduale scivolamento della democrazia sul piano inclinato della manipolazione ideologica e della degenerazione politica. Vedi l’inno al Duce dei giovani camerati di Parma, di fronte ai quali il presidente del Senato ha l’impudenza di citare il modello Almirante – già capo dei picchiatori neri nei cortei e nelle università – che a quanto pare nel 1979 gli insegnò che “la reazione a questo antifascismo violento o di maniera non può essere il folklore neofascista”. Vedi Vannacci che vaneggia della marcia su Roma come banale “manifestazione di piazza” o delle leggi razziali del 1938 “regolarmente approvate dal Parlamento”. Parliamo invece dell’attacco sistematico a tutti i contro-poteri. Anche qui, America docet: Trump esige l’immunità dalla Corte Suprema, accusa le Corti federali che disapplicano i suoi ordini esecutivi, intimidisce la Corte del Commercio che boccia i suoi dazi, ignora la Corte penale internazionale, mentre fa licenziare anchorman televisivi, caccia dai briefing i giornalisti sgraditi, chiede 15 miliardi di danni al New York Times. Nel Belpaese il governo Meloni fa a suo modo lo stesso: attacca i tribunali che “intralciano l’operazione Albania” e la Corte dei conti che blocca il Ponte sullo Stretto, bastona le procure che “invadono il campo della politica” sui grattacieli a Milano, sulla sicurezza nelle città, sull’Ilva a Taranto, e nel frattempo occupa la Rai, ordina ai suoi maggiordomi in servizio permanente effettivo
presso il Garante della Privacy una multa folle a Ranucci, ignora le domande dei giornalisti, insulta l’Istat che la “massacra” e la Cgil che sciopera. È compatibile tutto questo, con una buona democrazia? Ma parliamo soprattutto dell’umiliazione del Parlamento e della manomissione del patto costituzionale, che passa dall’elezione diretta del premier (quando sarà) e dalla separazione delle carriere tra giudici e pm (che già è). Il movente della riforma della giustizia è ormai noto: previa adeguata delegittimazione delle “toghe rosse”, come nella Belle époque berlusconiana si tratta solo di proteggere la politica dalle inchieste. L’ha annunciato Nordio, l’ha confermato Mantovano. Per varare quel testo – che modifica in maniera strutturale i rapporti tra potere esecutivo e potere giudiziario – sono bastate 98 ore di dibattito parlamentare, cioè poco meno di 4 giorni: per approvare un qualunque disegno di legge ordinario ce ne vogliono in media 181. Già questa è una scandalosa sottrazione di potestà delle Camere, ridotte a votificio anche quando sono in gioco le regole di funzionamento della Repubblica.
Come si può negare che questa “spallata” al sistema, per forma e sostanza, indebolisce due volte la democrazia? E come si fa a tacere e a non fissare argini a queste derive autocratiche, che ormai ci riguardano tutti? Il 9 novembre, in Germania, ricorrono tre anniversari: la fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918, la notte dei cristalli nel 1938 e la caduta del Muro nel 1989. Il presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, li ha celebrati con un discorso di rara potenza. La democrazia liberale è sotto pressione, ha detto. Populisti ed estremisti deridono le
istituzioni democratiche, avvelenano i nostri dibattiti, traggono profitto dalla paura. È il momento di affrontare il pericolo a testa alta: mai nella Storia “la democrazia e la libertà sono state così sotto attacco, minacciate da forze di estrema destra” che stanno guadagnando sostegno tra la popolazione. “Non si può aspettare che la tempesta passi: dobbiamo agire”. Possiamo difenderci – ha ribadito – ma serve l’impegno di tutti, perché la democrazia è fatica e pazienza: “Lo stato di diritto è fondamentale, e non è un caso che gli attacchi alla democrazia spesso inizino con attacchi alla magistratura”. Poi, ancora più esplicito: “Ecco perché è fondamentale intervenire con decisione e unità non appena l’indipendenza e la legittimità dei magistrati vengono messe in discussione”. Ma una frase mi ha colpito più di tutte: “Basta uno sguardo ad alcuni paesi vicini, per rendersene conto…”. Oltre alla Polonia e all’Ungheria, a chi volete che si riferisca il “temerario” Steinmeier? Le regressioni democratiche ci riguardano. Chi le nega, fingendo di non vederle, ne diventa complice.
(da repubblica.it)
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