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SILVIA SALIS ARRIVA AL PRESIDIO DEGLI OPERAI EX ILVA: “DIFENDERO’ I LAVORATORI FINO IN FONDO, NON FARO’ SCONTI A NESSUNO”

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

“CHIEDERO’ PER LA QUARTA VOLTA A URSO CHE INTENDE FARE IL GOVERNO SE NON SI PRESENTERA’ NESSUN INVESTITORE, NON PUO’ CONTINUARE A FAR FINTA DI NULLA”

“Il ministro ha chiesto un incontro a tutti i sindaci coi presidenti delle Regioni, incontri singoli. Questa settimana andremo di nuovo a parlare col ministro, sperando che ci siano delle novità”. “Da sindaca – ha aggiunto Salis – l’unica domanda che mi
interessa è: che cosa fa lo Stato se non intervengono investitori privati? Al ministro l’ho chiesto tre volte senza ottenere una risposta chiara. Se ha un’idea, deve dircela. Il governo e la Regione dicono che sarebbe bello se arrivassero investitori a febbraio, ma ricordo che anche quando a settembre, quando ci siamo resi disponibili a ragionare sul forno elettrico, sembrava che ci fosse qualcuno pronto a investire subito. E invece non c’era nessuno”.
La sindaca aggiunge che “al ministro dirò che la politica che sta portando avanti non mi convince e non convince la città. Stiamo parlando di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. È una linea strategica per il Paese. Difenderò i lavoratori fino in fondo, perché sono parte integrante dello sviluppo di Genova. Questa amministrazione è al loro fianco e non farò sconti a nessuno: farò qualsiasi cosa per ottenere delle risposte”.
Sindacati uniti contro il depotenziamento di Cornigliano
“Sebbene il ministro Urso abbia inizialmente rassicurato i lavoratori negando l’arresto degli impianti e promettendo l’uso della cassa integrazione per la formazione – dice Nicola Appice, Rls ex Ilva Fim Cisl – il piano comporterebbe comunque una grave paralisi, arrestando la produzione di banda zincata che costituisce i due terzi dell’attività dello stabilimento. Questo è un contentino per evitare proteste immediate. Chiediamo il ritiro incondizionato del piano corto e l’arrivo immediato dei rotoli di acciaio necessari per mantenere attivi tutti gli stabilimenti produttivi del Nord. È importante che tutti si uniscano alle proteste per scongiurare un massacro per l’occupazione e l’industria”.
Si apre quindi una dura fase di mobilitazione per la fabbrica siderurgica del gruppo, alle prese con la necessità di una riconversione green (a Taranto), l’assenza di reale interesse da parte di soggetti economici internazionali e l’affannoso tentativo di restare al passo con i modelli di sviluppo di paesi extra Ue.
“Le rassicurazioni di Urso? Favole – dice Antonio Apa, segretario regionale Uilm – il ministro ha fallito sulla cessione dell’ex Ilva ma il governo oggi è in una fase di relativa stabilità con conti pubblici in ordine, pertanto occorre l’individuazione di una cordata italiana con partecipazione diretta dello Stato, l’acciaio non è un settore come gli altri, è la base delle infrastrutture, della manifattura e della sicurezza economica nazionale. Rinunciarvi significa accettare di diventare un Paese industrialmente irrilevante”. “Il piano ministeriale del ciclo corto è uno smacco intollerabile per Genova e per il lavoro – commenta Riccardo Serri segretario generale della Uil Liguria – chiediamo un incontro immediato con i parlamentari liguri, con Comune di Genova e Regione Liguria”. “Anziché rilanciare il settore in un momento di bisogno, il governo punta a ridurre produzione e lavoratori “, aggiunge Luigi Pinasco, segretario generale della Uilm Genova.
“Il piano di chiusura che il ministro ha dato, perché questo è un piano di dismissione dell’acciaio della siderurgia italiana, è chiaro – aggiunge Fabio Ceraudo, sindacalista Usb oltre che presidente del municipio Medio Ponente – a Roma per l’ennesima volta ci hanno ribadito che questa sarà una chiusura graduale e loro volevano fare in modo tale che Genova e Novi Ligure non avessero materiale e che piano piano si spegnessero con la cassa integrazione.Sono quattro anni che promettono un piano industriale e l’unica proposta che è sul tavolo oggi è un fondo americano che lavora per portare alla stabilità economica un gruppo e venderselo, quindi speculare, quindi noi oggi siamo qua per dire no”.
Le reazioni
“La presidente del consiglio Meloni e il ministro Urso sono degli irresponsabili: con il loro lassismo e la loro incapacità di gestire
la crisi dell’ex Ilva e di avere uno straccio di politica industriale hanno condotto il Paese all’emergenza occupazionale e industriale .
La protesta dei lavoratori di Genova ne è un chiaro esempio”. Lo dice la senatrice Raffaella Paita, capogruppo al Senato di Italia Viva. “Ci sono famiglie disperate, mentre il futuro stesso della manifattura italiana è a rischio, con la produzione industriale in sostanziale discesa da quasi tre anni. La perdita del siderurgico potrebbe dare il colpo di grazia”.
“Vicini ai lavoratori, condividiamo le ragioni della loro protesta. Siamo di fronte a una destra al governo del Paese e della Regione che non fa altro che rimandare il problema spostandolo in avanti senza proporre alcuna vera soluzione. Basta procrastinare, la situazione è davvero preoccupante – commentano così i deputati PD Valentina Ghio e Alberto Pandolfo insieme al capogruppo del PD in Regione Liguria Armando Sanna – Il governo si assuma la responsabilità di salvare ex Ilva e di non lasciare centinaia e centinaia di famiglie e migliaia di lavoratori in questo limbo. Ad oggi le soluzioni proposte sono provvisorie e non garantiscono continuità alla produzione e danneggiano in particolare Genova. Il governo, con
la presidente del consiglio Meloni in prima persona, si assuma le proprie responsabilità. Servono risposte concrete su Ilva e sullo stabilimento di Genova. Il governo dica quante risorse intende mettere e il ruolo che lo Stato intende assumersi in questa partita iniziando da una nazionalizzazione, che si rende sempre piu necessaria. Basta scappare dalle proprie responsabilità non si puo attendere oltre per avere risposte chiare”.
(da Genova24)

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“DAL MINISTRO SOLO FAVOLE”: EX ILVA, A GENOVA SCIOPERO, CORTEO E BLOCCHI

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

“NON VOGLIAMO AMMORTIZZATORI SOCIALI, VOGLIAMO LAVORARE”…  “VOGLIONO FAR INTERVENIRE LE FORZE DELL’ORDINE? VENGANO PURE, NE FAREMO DI TUTTI I COLORI”

Subito corteo e blocchi del traffico, la lotta degli operai dell’ex Ilva di Cornigliano in questo lunedì 1 dicembre ha ripreso da dove era stata interrotta solo pochi giorni fa. I metalmeccanici, uniti, stamani hanno discusso in assemblea le iniziative da portare avanti dopo l’incontro di venerdì al ministero delle Imprese e del Made in Italy.
Un incontro deludente per i sindacati che temono la riduzione della produzione a Genova e non si fidano delle promesse su latta, zincatura e corsi di formazione.
“L’incontro è andato male, malissimo e si devono vergognare di quello che ci hanno proposto – dice Armando Palombo, Rsu Fiom per Acciaierie d’Italia in As, che avverte – ci siamo, per dire a tutta l’Italia e al governo che Genova, prima di farsi chiudere questo stabilimento, ne farà di tutti i colori, l’abbiamo dimostrato la settimana scorsa, il prezzo che gli faremo pagare è altissimo ed è per quello che oggi facciamo quello che abbiamo interrotto giovedì, devono venirci a sfollare con le forze dell’ordine perché noi non molliamo, siamo dalla parte della ragione, produciamo, abbiamo tenuto gli impianti in piedi”.
Nelle prossime ore (e nei prossimi giorni a questo punto) si
prevede una situazione difficile per il traffico cittadino visto che sarà nuovamente allestito un presidio permanente in piazza Savio, a Cornigliano, snodo cruciale tra la viabilità del ponente e quella del centro: con le ruspe e le tende a Cornigliano l’unica via di collegamento resta l’autostrada.
Non è escluso che il presidio possa spostarsi o estendersi. Grondona, sindacalista Fiom, ha dichiarato: “Noi di qui non ce ne andiamo, magari un po’ più in là, all’aeroporto o sull’elicoidale. La polizia vuol venire a sgomberarci? Vengano pure. Noi non vogliamo ammortizzatori sociali, noi lottiamo per difendere i posti di lavoro”.
(da agenzie)

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“PARLA COME HITLER”. IL GIOVANE CANDIDATO TEDESCO IMBARAZZA I VERTICI DI AFD: “VA ESPULSO DAL PARTITO”

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

ACCADE QUANDO DEMOCRAZIE DEBOLI NON HANNO IL CORAGGIO DI SPURGARE LA FOGNA PRIMA CHE INQUINI LA STRADA

La “r” arrotata, lo sguardo truce, i movimenti del corpo e delle braccia studiati alla perfezione: tutto rimanda ad Adolf Hitler. È polemica in Germania sul discorso di Alexander Eichwald, che nel weekend ha parlato al congresso dei giovani di Alternative für Deutschland – una formazione politica di estrema destra, al momento al primo posto nei sondaggi nazionali – a Giessen.
La sua apparizione è diventata virale sui social, fra indignazione e proteste. E anche se tra il pubblico in sala qualcuno ha pensato pure di applaudire, i vertici del partito hanno subito preso le distanze dal personaggio e meditano ora la sua espulsione dal gruppo.
L’imbarazzo dei vertici di AfD
All’indomani della performance all’evento di AfD, che ha segnato la nascita dell’organizzazione giovanile “Generazione Germania”, i tedeschi si chiedono: ma chi diavolo è Alexander Eichwald. Oltre a prendere la parola, il giovane si è anche candidato per entrare nel direttivo della giovanile di AfD: dodici voti li ha presi, ma non è stato eletto. E ora sono gli stessi leader del partito, Tino Chrupalla e Alice Weidel, a ordinare un’inchiesta interna per capire chi sia davvero Eichwald, iscritto al partito solo da pochi mesi. «Che si tratti di un provocatore di sinistra, di un informatore o semplicemente di un pazzo, chi si comporta in questo modo non ha nulla a che fare con l’AfD e la
sua organizzazione giovanile», ha dichiarato Jean Pascal Hohm, neo leader di Generazione Germania. «Sto preparando una procedura di espulsione dal partito contro Eichwald», gli ha fatto eco Michel Schneidermann, capogruppo di AfD nel consiglio comunale di Herford.
Il discorso ultranazionalista di Eichwald
Prima di entrare in politica, o perlomeno di provarci, Eichwald si è cimentato senza successo con la musica con lo pseudonimo Alex Oak. Quando i giornalisti tedeschi gil hanno chiesto se avesse pronunciato il suo discorso seriamente, lui ha semplicemente confermato: «Sí». Ma al di là dei modi, anche i contenuti del discorso tenuto dal giovane esponente dell’AfD sembravano usciti dal Terzo Reich: «Condividiamo tutti l’amore e la fedeltà per la Germania», ha gridato incitando a «proteggere il nostro popolo, la nostra patria, la nostra cultura». E ancora: «Mai più un tedesco dovrà vergognarsi di essere tedesco».
(da agenzie)

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LISTA STUPRI AL LICEO GIULIO CESARE, COME AVEVAMO PREVISTO: LA DIGOS INDAGA NEGLI AMBIENTI DI ESTREMA DESTRA

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

LE RAGAZZE MINACCIATE DI STUPRO SONO TUTTE RAPPRESENTANTI DI LISTE STUDENTESCHE PROGRESSISTE, “COLPEVOLI” DI AVER VINTO LE ELEZIONI INTERNE A SCAPITO DELLA LISTA SOVRANISTA

Non solo la Squadra Mobile, ma anche la Digos. Dopo la ‘lista degli stupri’ comparsa il 27 novembre, con nomi e cognomi di otto studentesse e di uno studente, la preside del liceo Giulio Cesare Paola Senesi sarà ascoltata in questura.
Alla dirigente sarà chiesto conto del clima politico all’interno della scuola: dietro all’agghiacciante elenco comparso nel bagno dei maschi al secondo elenco potrebbe esserci una vendetta politica dopo la sconfitta elettorale per la rappresentanza studentesca.
Una sorta di ritorsione per punire e umiliare gli esponenti più in vista della scuola, la cui unica colpa è quella di aver rosicchiato consenso a una storica lista di destra, che dopo tanti anni non è riuscita a eleggere nessun rappresentante d’istituto. È questa, appunto, una delle piste più importante su cui si indaga.
Intanto al Giulio Cesare la mattinata è iniziata con un sit-in. Prima della campanella, sulla cancellata nera del classico di
corso Trieste è comparso uno striscione: “Inutile il bel volto in televisione, gli studenti vogliono una soluzione”. Un messaggio diretto alla preside Senesi, accusata di non aver mai preso di petto la situazione, proponendo un corso di educazione sessuo-affettiva strutturato, nonostante nella scuola sono già diversi gli episodi gravi che hanno fatto emergere un clima problematico e la necessità di interventi più incisivi. Come i manifesti per il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza di genere, bruciati e gettati nel water lo scorso anno. O come i fogli della raccolta firme per chiedere più attività dedicate al consenso, all’affettività e all’educazione sessuale: tolti dalla bacheca delle petizioni e strappati. Infine la lista degli stupri e l’intimidazione denunciata da una delle vittime: un gruppo di persone, sabato sera, è andato a citofonarle a casa. Dall’altra parte della cornetta si sono sentiti solo insulti, urla e bestemmie.
“Ora vogliamo avviare un dialogo profondo e significativo che promuova una cultura di ascolto e di rispetto reciproco”, dicono studentesse e studenti, chiedendo alla dirigente di “non proteggere solo l’immagine della scuola, ma di affrontare le difficoltà in maniera concreta”.
In mattinata sarà anche letta la lettera che hanno scritto i genitori di una delle altre ragazze comparse nell’elenco: “Lo avete fatto perché sono persone che pensano, si organizzano e hanno opinioni politiche che forse vi disturbano. E siccome non sapevate come rispondere alle loro idee, avete risposto ai loro corpi. Minacciandoli. Un gesto antico quanto il patriarcato stesso”.
(da agenzie)

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RECUPERATI IN TUTA E SCARPE DA GINNASTICA A 3.000 METRI

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

L’INCOSCIENZA DI CINQUE TURISTI SULLE DOLOMITI SALVATI DAL SOCCORSO ALPINO: “UN MIRACOLO”

La montagna non perdona leggerezze, come dimostra l’ultima avventura in Alto Adige che si è conclusa fortunatamente senza conseguenze gravi. Cinque giovani turisti, avventuratisi sotto la neve con scarpe da passeggio e tuta, sono stati tratti in salvo dal Soccorso alpino sul Sass Rigais, nel gruppo delle Odle, grazie a un tempestivo intervento prima che le condizioni meteo peggiorassero.
Scarpe da ginnastica a 3.025 metri
L’episodio, avvenuto sabato 29 novembre intorno alle 13, ha lasciato increduli i soccorritori per l’inadeguatezza dell’equipaggiamento: sneakers e tuta per affrontare una zona ad alta quota, rocciosa e innevata, a rischio valanghe.
I giovani si erano spinti fino alla base della parete nord del Sass Rigais, all’interno del parco naturale Puez-Odle, ma raggiunta una zona estremamente ripida, si sono trovati impossibilitati a proseguire o tornare indietro. Le scarpe leggere rendevano ogni
movimento rischioso, aumentando il pericolo di scivolate e cadute su roccia e ghiaccio.
Un salvataggio da miracolo
Il pronto intervento del Soccorso alpino di Funes, con il supporto dell’elicottero Pelikan 1 e della Guardia di Finanza, ha evitato il peggio. Gli operatori hanno messo in sicurezza i giovani e li hanno accompagnati al punto in cui l’elicottero ha completato il trasporto a valle. Nessuno è rimasto ferito: un esito definito dagli stessi soccorritori «un vero e proprio miracolo». «Si può parlare solo di fortuna per il buon esito dell’intervento», ha dichiarato uno degli operatori all’Ansa, sottolineando come l’incoscienza dei turisti avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche.
L’appello dei soccorritori
Gli operatori ricordano quanto sia fondamentale rispettare alcune regole in alta quota, soprattutto in inverno: «Bisogna avventurarsi in questi luoghi solo con esperienza adeguata e attrezzatura di sicurezza: Artva, sonda, pala e buon senso», spiegano. L’improvvisazione mette a rischio non solo chi si muove in montagna, ma anche chi interviene per soccorrerlo. Prudenza, equipaggiamento tecnico, abbigliamento adeguato e conoscenza del territorio non sono optional: sono condizioni
imprescindibili per affrontare l’ambiente alpino in sicurezza.
(da agenzie)

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SONO FINITI I TEMPI DI ROMA LADRONA, ORA SALVINI SI COMPRA UNA MEGAVILLA IN AMBIENTE ESCLUSIVO NELLA CAPITALE

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

LA DIMORA DI 28 VANI E 674 METRI QUADRI PAGATA APPENA 1,35 MILIONI: NELLA ZONA IL VALORE DEGLI IMMOBILI E’ QUASI IL DOPPIO

Gli stilisti, le stelle del calcio, i vip, le ville di lusso avvolte nel silenzio e nella totale riservatezza. L’ultimo arrivato nel cuore di Roma nord, tra ricchezza e discrezione, è Matteo Salvini, il ministro delle Infrastrutture e numero due del governo. Proprio alla Camilluccia, zona rinomata e ambita, ha comprato una villa regale insieme alla compagna Francesca Verdini, figlia dell’ex senatore e pluricondannato, Denis: l’immobile di 674 metri
quadri, con 28 vani più due box, è stato pagato 1,35 milioni di euro. In pratica una reggia, pagata 2mila euro a metro quadro: come un appartamento in zone periferiche e meno centrali della Capitale. Quei prezzi infatti, emerge da una verifica sui siti specializzati, si trovano in quartieri distanti dal benessere della città. Insomma il ministro ha ottenuto un super prezzo per la zona in cui si trova e per le dimensioni dell’immobile.
L’acquisto sancisce definitivamente la romanizzazione del leader leghista, che entra così nei salotti dell’alta società della Capitale. Le carte del grande affare, che Domani ha letto, sono un viaggio lungo 30 anni. Ma andiamo con ordine e raccontiamo prima di tutto il gran colpo di Salvini.
Che affare
La cifra chiesta al leader leghista era già stabilita dai proprietari, che avevano affidato la procura agli avvocati dello studio Previti: fondato dall’ex ministro della Difesa (il fedelissimo di Silvio Berlusconi, Cesare Previti), ora in mano al figlio Stefano (totalmente estraneo alle vicende berlusconiane). Salvini ha infatti sborsato 1,35 milioni di euro, 300mila euro li ha versati con due bonifici; il resto con un mutuo. Un’occasione imperdibile visto che la casa vale certamente di più. Alla fine è
costata 2mila euro a metro quadrato mentre in quella zona la media è di 3.800 euro a metro quadrato, come emerge dai dati ufficiali dell’Agenzia delle Entrate di ottobre 2025.
Salvini ci tiene a precisare che nulla sapeva riguardo la proprietà della villa. «Matteo e Francesca hanno individuato l’immobile sul noto sito specializzato immobiliare.it, e da lì sono entrati in contatto con l’agenzia Rivolta che aveva il mandato per vendere la casa. È proprio l’agenzia che ha seguito in prima persona tutte le fasi della vendita insieme al notaio, comprese quelle con avvocati o mediatori che hanno affiancato esclusivamente i venditori. A proposito del prezzo, si precisa che è stata pagata esattamente la cifra pubblicizzata nell’annuncio visibile sul web e quindi accessibile a chiunque. La proprietà era sul mercato da tempo, era stata visitata da numerosi altri potenziali acquirenti e necessitava di numerosi interventi, di tipo urbanistico e strutturale», ci scrive lo staff del ministro.
Dal bilocale ai 28 vani
Sono lontani gli anni del Salvini uomo del popolo con la microcasa: «Buona Pasqua, semplicemente. È un video di ringraziamento fatto dal mio prestigioso bilocale di Milano. Sono in un condominio come tanti, alle mie spalle palazzi, dal
piano di sotto arrivava il profumo di torta. Più che una casa, è un accampamento. Ecco la sala da massimo venti metri quadrati», diceva nel 2020. La villa romana è tutt’altra cosa: si eleva su «quattro livelli, ai piani seminterrato, terra, primo e secondo, collegati tra loro mediante scala interna, con annessa area circostante di pertinenza ricompresa nell’unitaria consistenza del villino, della estensione catastale complessiva di vani 28 (ventotto) compreso accessori», più la titolarità di due box auto.
Per ricostruire la storia di questo immobile di prestigio bisogna tornare indietro a metà anni Novanta. Quando inquirenti rovinarono il sogno di vita di Giovanni Acampora e consorte, in procinto di sposarsi. Le cronache raccontarono l’arrivo dei poliziotti per cercare tracce di bonifici e conti correnti. La donna nulla c’entrava con le indagini. La villa era di proprietà di una società che aveva sede in Lussemburgo.
La lussuosa dimora, infatti, acquistata dalla coppia Salvini-Verdini era della famiglia di Giovanni Acampora, scomparso lo scorso anno. Acampora era un avvocato, uno degli uomini fidati di Previti, anche lui come l’ex ministro e fondatore di Forza Italia indagato e condannato nei processi Imi-Sir e lodo Mondadori: una delle più grandi corruzioni della storia italian
Insomma, la storia di questa reggia finita in mano al ministro ci porta a uno dei più potenti e influenti uomini d’affari e politica del nostro paese: Cesare Previti, tessitore di relazioni e trame, l’uomo che con Marcello Dell’Utri sussurrava al presidente Berlusconi. Quel Berlusconi che non lo ha mai abbandonato nonostante le inchieste con le condanne definitive scontate tra domiciliari e servizi sociali. Il tutto grazie alla legge Cirielli, una norma ad personam, la ribattezzarono opposizioni e giuristi, visto che salvava dal carcere gli ultrasettantenni, tra questi anche l’amico di sventure. In fondo Previti attraversò processi e sentenze con l’unico scopo di proteggere l’impero imprenditoriale di Berlusconi.
Nel nome di Acampora
Il 2011 è un anno cruciale per il destino di quella che diventerà villa Salvini-Verdini. In quell’anno la signora Mary Badin, compagna di Acampora, sposta la sede della Valim in Italia: entrano come socie le figlie e in pancia della srl viene trasferita anche la proprietà della dimora da sogno. È il 2016 quando la società Valim srl viene messa in liquidazione. A liquidarla c’è Giovanni Acampora in persona, l’uomo del Cavaliere. Nell’assemblea dei soci si decide di trasferire la villa dalla srl
alle socie, Giulia e Valeria Acampora. Nel 2018 arriva un primo guaio con un pignoramento che viene poi cancellato quattro anni dopo.
C’è un altro contenzioso che si apre. Il trasferimento dell’immobile alle due Acampora viene contestato da un creditore, la società Meit di Terni che chiede al tribunale di revocare l’atto: l’immobile è quanto di valore in possesso dalla società in liquidazione. Di questo contenzioso si trova traccia nei bilanci di Valim. La Meit aveva effettuato lavori nell’immobile ritenuti in parte non pagati, il tribunale aveva condannato inizialmente Valim a pagare 53mila euro, decisione poi appellata. Il trasferimento della dimora di lusso dalla Valim alle due Acampora alla fine si formalizza definitivamente.
«Non ci siamo occupati di prezzo né di aspetti commerciali, interamente gestiti da un’agenzia immobiliare come da prassi. Le venditrici vivono all’estero e per questo motivo ci siamo occupati di rappresentarle davanti al notaio. Ovviamente non c’erano questioni pendenti che potessero impedire la stipula dell’atto», chiariscono a Domani dallo studio Previti.
Proprio le due proprietarie firmano una procura speciale agli avvocati Stefano Previti, Carla Previti, Daniele Franzini perché
vendano la villa «in suo nome, vece e conto, chi vorranno, per il prezzo complessivo di Euro 1.350.000», si legge. E alla fine l’atto viene siglato. A sottoscriverlo ci sono Franzini, per la parte venditrice, Verdini Fossombroni e Salvini come acquirenti.
Per il ministro, un tempo padano, è il definitivo salto nell’alta società di quella che un tempo definiva «Roma ladrona». Gli insulti, spiegò Salvini, non erano rivolti alla città, ma al sistema di potere che la regge. Il sistema di potere che abita negli atti della sua villa da sogno.
(da Domani)

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RIECCO LA SECESSIONE DEI RICCHI

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

IN MANOVRA RIPARTE L’AUTONOMIA, SCHIAFFO ALLA CONSULTA… SEI ARTICOLI FISSANO LA DISEGUAGLIANZA PER LEGGE

La scoppola è stata pesante e i parlamentari del Sud di FdI e FI, specie di Campania e Puglia, a mezza bocca la attribuiscono anche al ritorno di fiamma del governo Meloni per l’autonomia differenziata: sei contestati articoli ad hoc infilati nella manovra e, poco prima del voto, pure le pre-intese firmate da Roberto
Calderoli con Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria per devolvere poteri in 4 ambiti (gestione delle risorse sanitarie, protezione civile, professioni non ordinistiche e previdenza complementare) in cui non vanno precedentemente definiti – a parere dell’esecutivo e dei suoi tecnici – i famosi Lep, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni che vanno garantiti a tutti i cittadini.
Il problema di quegli eletti del Sud è che se loro hanno perso, e male, il vincitore delle Regionali a destra è Luca Zaia, il vero padre della cosiddetta “secessione dei ricchi”: scontentarlo ora sarà difficile, tanto più che Giorgia Meloni potrebbe volerlo usare in chiave anti-Salvini. Per questo la premier che pronuncia la parola “nazione” con la maiuscola sta per far votare in Parlamento che le disuguaglianze territoriali sono stabilite per legge, immutabili.
Per capire il livello della forzatura firmata Calderoli serve un piccolo riassunto. Come il lettore ricorderà, un anno fa la Corte costituzionale ha fatto a pezzi la legge per l’autonomia differenziata: ne ha cancellati sette punti e ha dato una lettura “costituzionalmente orientata” (e cioè contraria a quella di Calderoli) su tutto il resto. In particolare la Consulta ha ribadito
che il Parlamento va coinvolto nelle intese e può emendarle, che il governo non può decidere i Lep a colpi di Dpcm, che la devoluzione non può avvenire in blocco per materie ma per singole funzioni, che vada sempre dimostrata la maggiore efficienza della gestione locale, che alcune materie non possano proprio essere trasferite anche se sono citate nella Costituzione versione 2001 (tutela dell’ambiente, energia, porti e aeroporti, etc.) e molto altro.
La prima reazione di Calderoli e soci è stata scrivere una nuova legge, che da settembre giace su un binario morto in Senato. La seconda è stata infilare nella legge di Bilancio, complice il collega di partito Giancarlo Giorgetti, sei articoli in cui si definiscono i Lep in alcune materie, il passo preliminare prima di devolverle alle Regioni: l’orizzonte del piano è il 2027, l’anno in cui si tornerà al voto. La scoperta di quei sei articoli ha irritato parecchi dentro Fratelli d’Italia e Forza Italia, ma prima del voto nelle Regioni non si poteva dir nulla: ora, però, è troppo tardi. Nel frattempo, come detto, Calderoli gli ha fatto ingoiare pure la firma di quattro “pre-intese” con le regioni ordinarie del Nord, tutte amministrate dal centrodestra. Questa settimana, infine, si inizia a votare la manovra in Senato e l’autonomia tornerà sulle
prime pagine: le opposizioni chiedono lo stralcio di quegli articoli e hanno deciso di fare (un po’ di) ostruzionismo se non saranno accontentate.
Le proteste sono il minimo, perché il piattino preparato da Calderoli è decisamente indigesto: un irrispettoso surf tra le virgole della sentenza dalla Consulta per aggirarla, violarla in qualche caso, e stabilire che l’autonomia differenziata si fa a risorse vigenti, cioè perpetuando le diseguaglianze territoriali che tutti conoscono: per evitare problemi, politici e di bilancio, basta scrivere in una legge che i Lep sono quelli garantiti dai soldi che spendiamo ora. Siamo nel migliore dei mondi possibili e non lo sapevamo. In un articolo ad esempio, il 124 per la precisione, si stabilisce che i Lep nella sanità esistono già e sono i cosiddetti Lea, livelli essenziali di assistenza. Poco importa che i Lea non vengano rispettati in gran parte delle Regioni, quasi sempre per mancanza di personale, macchinari e risorse: “Al finanziamento dei Lea si provvede mediante le risorse disponibili a legislazione vigente”. Cioè non si provvede e dove la sanità non funziona pace. Intanto i Lep ci sono e si può regionalizzare quel poco che era rimasto allo Stato.
Lo schema viene ripetuto, e in maniera persino più esplicita, altre tre volte. In materia di assistenza si stabilisce, per dire, che i Lep sono un assistente sociale ogni 5mila abitanti e, nelle equipe multidisciplinari, uno psicologo ogni 30mila abitanti e un educatore socio-pedagogico ogni 20mila (a questo fine si stanziano 200 milioni dal 2027). Il Lep dell’assistenza domiciliare agli anziani non auto-sufficienti è invece dichiaratamente una presa in giro: un’ora a settimana, ma compatibilmente con le risorse esistenti… Contemporaneamente vengono però ribaditi tutti quei bei piani teorici per le Case di comunità, i Progetti di assistenza individuale, i servizi di supporto alle famiglie tanto notturni che diurni. Tutta roba che gran parte degli italiani non ha mai visto e mai vedrà: “La disposizione – dice la Relazione tecnica – non comporta nuovi oneri, ma valorizza le risorse esistenti”.
Il giochino si ripete per il sostegno ad alunni e studenti con disabilità: il Lep, dice la manovra, sono le ore dedicate a ciascun studente. In futuro si vedrà, intanto “in via transitoria” il Lep è fissato alle ore che si possono fare coi fondi già a disposizione: 50 ore all’anno per studente, calcola la Ragioneria generale, che specifica peraltro come si tratti di “un obiettivo” la cui “attuazione è subordinata alla disponibilità delle risorse”. Quanto
alle borse di studio per studenti universitari, se non altro i fondi aumentano di 250 milioni l’anno: resta che saranno ripartiti come al solito sul costo storico, che è una fonte di riconosciuto squilibrio (dallo stesso ministero) a danno dei territori più poveri. L’orizzonte per la devoluzione di queste materie, come detto, è il 2027 delle prossime Politiche. E come si decide la distribuzione dei fondi? Niente paura, ci penserà il governo via Dpcm con tanti saluti alla Consulta.
(da Il Fatto Quotidiano)

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ASSE OCCULTO USA-RUSSIA: QUAL’E’ IL PIANO PER SMANTELLARE LA UE?

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

LO SPETTRO DELLA DISGREGAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA

Uno spettro si aggira per il vecchio continente: è quello della disgregazione dell’Unione Europea. Nel suo recente non-paper, dal titolo «Il contrasto alla guerra ibrida: una strategia attiva», il  ministro della Difesa Guido Crosetto ha parlato di «Stati autoritari» che, in modo «subdolo», alimentano la «delegittimazione» dei processi democratici interni e delle «alleanze sovranazionali come l’Ue». Il ministro ha fatto i nomi: Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. Ma c’è un convitato di pietra: a minare l’Unione Europea, insieme a Putin, c’è anche l’America di Donald Trump e dei suoi suggeritori strategici, a partire dalla Heritage Foundation, think tank ultraconservatore che ha prodotto il «Project 2025». Si tratta del documento programmatico che Trump ha adottato per affermare la supremazia presidenziale, sopprimendo molti degli anticorpi che la Costituzione Usa ha creato a protezione della democrazia.
Lo smembramento dell’Unione Europea è da vent’anni uno degli obiettivi strategici della Heritage Foundation. In tempi più recenti la Foundation ha sviluppato un’alleanza con quelle stesse associazioni e amministrazioni dell’ultradestra sovranista europea coltivate da Vladimir Putin.
L’alleanza anti Ue
Per decenni il leader russo ha usato le forniture di gas per esercitare un’influenza politica sui singoli Stati membri dell’Ue e, dopo l’invasione della Crimea, ha fatto leva sulla dipendenza della Germania da quel gas (il 50% dei consumi fino al 2022) per spingerla a opporsi a sanzioni più severe chieste dagli Stati confinanti con la Russia. Così come oggi Putin sta usando la dipendenza dell’Ungheria dal suo petrolio per spingere Orbán a mettere i bastoni tra le ruote di una politica unitaria continentale.
Ma un’Unione Europea forte si scontra anche con la strategia dell’America First sostenuta da Donald Trump, che ha tutto l’interesse a indebolire il coordinamento istituzionale e il potere collettivo europeo. La miglior riprova di questa apparentemente paradossale coincidenza di interessi tra Putin e Trump è stata fornita dalla Brexit. L’uscita dalla Ue della Grand Bretagna è stata infatti fortemente sostenuta da entrambi. Ed entrambi hanno usato lo stesso canale per favorirla: Nigel Farage, il politico inglese che il presidente americano continua ancora oggi a sponsorizzare e il cui fedele luogotenente Nathan Gill è stato appena condannato a 10 anni per essere stato portatore della propaganda del Cremlino sulla guerra in Ucraina
A febbraio di quest’anno Donald Trump ha dichiarato senza alcuna remora diplomatica che «l’Unione Europea è stata creata per fregare gli Stati Uniti: quello è il suo scopo» (qui) e che «è per molti versi peggio della Cina». Si potrebbe pensare che si tratti di esternazioni tipiche del personaggio, ma gli stessi promotori del manuale strategico di Trump ritengono la Ue un avversario da smantellare.
Heritage Foundation: il programma
L’attività anti Ue della Heritage Foundation, che ricordiamo è considerato il centro studi ultraconservatore più grande e influente a livello internazionale, è diventata più esplicita negli ultimi 20 anni, con un’accelerazione dal 2022. Passiamo in rassegna fatti e documenti.
Giugno 2005: l’ex vicedirettore per le comunicazioni strategiche della Heritage Foundation Lee Casey scrive: «Dal punto di vista degli Stati Uniti, la mancata approvazione della Costituzione Europea ai referendum in Francia e Olanda rappresenta un duro colpo allo stesso progetto europeo (…). Ed è giunto il momento che i politici americani mettano in discussione tale progetto».
Dicembre 2006, in un rapporto intitolato «L’Ue è amica o nemica dell’America?», il ricercatore della Heritage Foundation John Blundell scrive: «Le differenze politiche tra Europa e Stati Uniti si sono moltiplicate e approfondite. (…) non c’è alcun motivo per cui gli Stati Uniti, che hanno fatto da levatrice alla nascita di questo neonato politico, non debbano svolgere un ruolo nella sua scomparsa» .
Febbraio 2007, il dirigente Nile Gardiner scrive: «La crescente centralizzazione politica dell’Europa rappresenta una minaccia fondamentale per gli interessi degli  Stati Uniti . Nulla è mai certo nella storia. La spinta verso un’Unione sempre più stretta può ancora essere fermata».
I soci europei
Nel 2020 il primo ministro dell’Ungheria, Victor Orbán, grande nemico dell’integrazione europea, cede una quota del 10% della compagnia petrolifera ungherese Magyar Olaj (Mol) al Mathias Corvinus Collegium (Mcc), un centro studi schierato su posizioni di chiaro euroscetticismo. Ed è soprattutto dagli utili della Mol, per lo più dovuti alla vendita di petrolio russo, che arrivano i finanziamenti annuali del Collegium. L’emittente tedesca Zdf ha calcolato che nel solo 2023 ha ricevuto da Mol 50 milioni di euro in dividendi
A novembre 2022, in un discorso tenuto a Budapest davanti un pubblico di euroscettici ungheresi, il presidente della Heritage Kevin Roberts afferma: «Lo Stato-nazione ha due principali avversari, da un lato c’è il nemico che viene dall’alto: le§ organizzazioni sovranazionali dall’altro c’è il nemico che viene dal basso: i propagandisti woke (…). E non esiste una cricca di élite globalista più pericolosa dei totalitari woke di stanza a Bruxelles.» (qui). Il 19 settembre 2024 l’Heritage organizza una conferenza a Varsavia per contrastare il «pericoloso progetto» di consolidamento della Ue assieme al think tank euroscettico polacco Ordo Iuris. Come il confratello ungherese, anche l’Ordo Iuris ha legami con Mosca tramite il World Congress of Families, associazione finanziata dall’oligarca russo Konstantin Malofeev e strettamente legata al politologo putiniano Aleksandr Dugin (qui). Lo stesso sito di Ordo Iuris scrive che «al termine della conferenza sono state prese alcune decisioni preliminari su attività congiunte da intraprendere» (qui)
2025: si scoprono le carte
E veniamo a quest’anno. Pochi giorni dopo il suo insediamento Trump dichiara pubblicamente: «Gli europei sono come i democratici, ci odiano (…) per decenni il nostro Paese è stato saccheggiato, depredato, violentato e spogliato (…). Denunceremo l’Unione Europea.».
L’11 marzo l’Heritage Foundation riunisce a Washington alcune delle maggiori associazioni euroscettiche d’oltreatlantico per discutere di come riformare le attuali strutture dell’Ue. In quell’occasione, in un «workshop a porte chiuse» si dibatte un rapporto prodotto da Mcc e Ordo Iuris intitolato «Il Great Reset: ripristinare la sovranità degli Stati membri nel XXI secolo». Il documento invoca «lo scioglimento dell’Ue nella sua forma attuale»
Nell’aprile 2025, il dirigente dell’Heritage Foundation Nile Gardiner elogia Trump dicendo che «è l’unico presidente americano ad essersi opposto attivamente al progetto europeo»
Il 1 maggio, a un mese dal ballottaggio delle elezioni presidenziali polacche, in un incontro nello Studio Ovale Donald Trump fa l’endorsement a Karol Nawrocki, il candidato euroscettico e contrario a una maggiore integrazione europea (qui). Pochi giorni dopo, in un convegno a Varsavia, la segretaria alla Sicurezza Interna americana Kristi Noem, elogiando pubblicamente Nawrocki, esorta i polacchi a votare per lui. La rivista online DeSmog, che ha ottenuto un file audio dell’evento, scrive: «I relatori hanno parlato in termini apocalittici del futuro dell’Unione Europea e uno di loro ha promesso di “liquidare” la Commissione Europea».
110 milioni di dollari contro Bruxelle
L’agenzia di stampa britannica Reuters rivela che in quegli stessi giorni una delegazione del Dipartimento di Stato incontra a Parigi alti funzionari del Rassemblement National di Marine Le Pen, il partito più euroscettico della Francia (qui). La delegazione è guidata da Samuel Samson, il funzionario dell’Ufficio per la democrazia, i diritti umani e il lavoro (Drl) del Dipartimento di Stato. Samson fa parte di un gruppo di giovani ultraconservatori che stanno scalando i ranghi dell’amministrazione Trump. Nella pagina Substack del Drl Samson scrive: «Il regresso democratico dell’Europa inficia la sicurezza e l’economia americana, oltre che i diritti di libertà di espressione dei cittadini e delle aziende americane»
Poche settimane dopo, in un’intervista a Fox News, il presidente dell’Heritage Kevin Roberts dichiara: «Siamo all’inizio di un’era d’oro, non solo per gli Stati Uniti – un’era d’oro di autogoverno in tutto il mondo, in particolare in Europa. Pensiamo a Santiago Abascal, leader del partito Vox in Spagna, pensiamo a Nigel Farage, che probabilmente sarà il prossimo primo ministro del Regno Unito» (qui a 3’31”). Farage è il principale promotore della Brexit e Abascal è tra i leader europei che più invocano «un cambiamento di rotta radicale nell’Ue» nel nome della «sovranità nazionale»
Consultando gli archivi dell’agenzia delle entrate americana e i documenti del Parlamento europeo, Giorgio Mottola di Report ha scoperto quanto hanno investito in Europa negli ultimi 5 anni i maggiori think tank conservatori statunitensi: 109,8 milioni di dollari, con un vertiginoso aumento di flussi a partire dal 2022.
Un modello europeo forte potrebbe essere di intralcio al modello americano sulla scena internazionale (…) mentre per Mosca un’Europa divisa consente più libertà di trattare da una posizione di forza con i singoli Paesi Ue
La coincidenza di interessi
Raphaël Kergueno, ricercatore di Transparency International fa notare che «La maggior parte di queste organizzazioni non è iscritta nel registro delle lobby dell’Ue, vuol dire che non è dato sapere come spendano le loro risorse e quali siano i loro obiettivi. Possiamo solo monitorare il numero di incontri segnalati dai deputati europei, e sappiamo che con l’arrivo di Donald Trump ha registrato un forte aumento». Il fatto che gli interlocutori europei preferiti da Putin siano gli stessi di quelli dei Maga non può essere ritenuto casuale: «Per entrambi un’Europa liberal-democratica unita e funzionante rappresenta
§una minaccia». Secondo i più esperti analisti, un modello europeo forte potrebbe essere di intralcio al modello americano sulla scena internazionale, e Washington non vuole competitor; mentre per Mosca un’Europa divisa consente più libertà di trattare da una posizione di forza con i singoli Paesi Ue, e di influenza sui suoi ex vicini sovietici.
Milena Gabanelli e Claudio Gatti
(da corriere.it)

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L’INDIGNAZIONE E’ GIA’ FINITA, LE BOMBE NO

Dicembre 1st, 2025 Riccardo Fucile

A GAZA DAL 10 OTTOBRE SONO STATI UCCISI 354 PALESTINESI

Sembra che ci siamo dimenticati di Gaza. Dopo tante manifestazioni a sostegno della Palestina che hanno riempito di grandi folle le strade italiane come quelle di molte altre parti dell’Italia e del mondo, dopo tanto parlare e scrivere, dopo che la distruzione di Gaza e l’uccisione di tante migliaia di palestinesi erano diventate l’argomento del giorno nelle nostre scuole, nelle nostre università, nei nostri talk show televisivi, a partire dal 10 ottobre, data di inizio della tregua, su Gaza e sulla questione palestinese è sceso il silenzio, o almeno qualcosa di molto simile al silenzio.
Forse perché la tregua regge? Perché non ci sono più bombardamenti sulla Striscia martoriata di Gaza? Non è così, la tregua regge, ma una tregua che consente ancora bombardamenti e uccisioni. Dal 10 ottobre ad oggi sono stati uccisi 354 palestinesi. Sembra poco, se paragonati ai numeri precedenti, ma provate ad immaginarveli tutti in fila, nei loro sudari.
O forse perché i rifornimenti bloccati alla frontiera sono stati lasciati passare, la popolazione rifornita di cibo ed acqua, i medicinali tornati in ciò che resta degli ospedali? Non è così, Israele apre e chiude i valichi, e le chiusure corrispondono ai momenti di tensione, quasi i rifornimenti fossero in realtà ostaggio dello svolgimento delle operazioni legate alla tregua. Non restituisci tutte le salme degli ostaggi, noi teniamo in ostaggio cibo, acqua, medicine sembra dire la chiusura a singhiozzo dei valichi.
Ma gli ostaggi sono tornati, e con loro sono stati liberati i prigionieri palestinesi chiusi nelle carceri di Israele. È un risultato importante. Che gli ostaggi nascosti da Hamas nei tunnel di Gaza tornino alle loro famiglie, che si possano seppellire i morti, è cosa che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ad Israele, come ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai
palestinesi la liberazioni di famigliari spesso detenuti sulla base di semplici sospetti e in condizioni che gli ultimi scandali ci hanno rivelato non aver poi molto da invidiare a quelle degli ostaggi israeliani di Hamas.
Eppure, sia Gaza che Israele hanno accolto con speranza e favore la tregua. Perché ha significato l’idea, almeno l’idea, di non essere più in guerra. Ma più le settimane passano, più questo sollievo diminuisce, più le speranze sfumano. Ma se possiamo capire e condividere il sollievo che la tregua ha procurato ad israeliani e palestinesi, riesce meno facile capire perché anche il mondo sembra credere che tutto stia andando per il meglio.
Le grandi manifestazioni, importanti nonostante le sbavature politiche e gli accenni antisemiti, sembrano aver dato luogo al vecchio copione dei gruppi sociali che se la prendono a caso con tutti quelli che considerano espressione del “potere”, come dimostra la devastazione di questo giornale, devastazione che di “Pro-Pal” ha solo il nome e ci ricorda invece l’inizio del fascismo un secolo fa, con gli attacchi e le devastazioni squadriste a l’Avanti, l’organo del Partito Socialista.
Sul fronte dell’alta politica, gli Stati dell’Ue tacciono, o sono invece impegnati a disquisire sull’antisemitismo crescente, senza
vedere che soprattutto di una conseguenza di quanto succede si tratta, non di una sua spiegazione. Solo Trump e in parte i Paesi arabi insistono, e per motivi loro, tutti diversi. E se fosse tutto, sul fronte mediorientale, si potrebbe anche trarre un sia pur piccolo sospiro di sollievo.
Ma, intanto, se Gaza non è più sulle bocche di tutti, la Cisgiordania è in fiamme, e non solo ad opera dei coloni che aspettano il Messia sbarazzandosi dei palestinesi e distruggendone case e campi, ma ormai direttamente ad opera dell’esercito. I video che ci arrivano mostrano episodi che suscitano in noi una sorta di inorridita incredulità, come quello dei due palestinesi – terroristi o no, che importa, dal momento che si arrendevano con le mani alzate? – assassinati a sangue freddo dai militari. A Gaza è subentrata la Cisgiordania, ma sembra che non susciti nel mondo una pari indignazione. O forse, l’indignazione è a tempo, ad un certo punto si esaurisce, la clessidra ha versato tutta la sua sabbia, parliamo d’altro.
Si parlasse almeno dell’altro fronte di guerra, quella scatenata dallo Zar della Russia. Ma di quella si è già smesso di parlare da tempo. E non perché fosse arrivata la questione di Gaza, evidentemente. È perché l’attenzione di chi vive tranquillo nel§tepore della sua casa è limitata. La abbiamo consumata già tutta? E su quanto succede oggi in Cisgiordania, niente o poco da dire?
(da La Stampa)

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