Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
ERA SOLO UN COUP DE THEATRE VOLTO A RIBADIRE PRINCIPI SOVRANISTI, NEL CASO A QUALCUNO FOSSERO SORTI DEI DUBBI. L’ORO ALLA PATRIA, LORO E LA PATRIA
La retromarcia matura dopo l’altolà dei tecnici del Tesoro. Di fronte all’alert sull’esproprio delle riserve auree e la violazione dei trattati europei, Fratelli d’Italia riscrive l’emendamento alla manovra sul trasferimento dell’oro di Bankitalia allo Stato.
Il passaggio di proprietà sparisce. Resta solo un riferimento al «popolo italiano», ma all’interno di un quadro che riconosce il ruolo insostituibile di via Nazionale nell’operare in linea con il sistema europeo delle banche centrali e la Bce. Tutto il contrario di quello che i senatori meloniani avevano sostenuto nella prima versione della proposta.
Il ripensamento spunta nel nuovo fascicolo degli emendamenti “segnalati” sotto forma di un testo 2.
L’oggetto è lo stesso: le riserve auree gestite e detenute da palazzo Koch. Ma invece di chiedere che «appartengano allo
Stato, in nome del popolo italiano», la nuova formulazione si aggancia al Testo unico delle norme di legge in materia valutaria per stabilire che la gestione della Banca d’Italia nel rispetto dello statuto del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) e dell’Eurotower «si interpreta nel senso che le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo italiano».
Ecco allora che la riscrittura della proposta vira da un disconoscimento della titolarità sull’oro alla richiesta di un’interpretazione sul ruolo di via Nazionale, chiedendo di specificare che le riserve appartengono ai cittadini. È già così, ma i Fratelli vogliono comunque metterlo nero su bianco all’interno della legge di bilancio.
Soprattutto, però, la riformulazione del testo prende atto delle criticità messe in fila al Mef. Nella bozza del parere all’emendamento iniziale, anticipata da Repubblica, i tecnici del Dipartimento del Tesoro hanno posto l’accento proprio sulla negazione delle prerogative in capo alle istituzioni nazionali e internazionali.
La proposta di FdI — è il rilievo — limiterebbe la capacità delle banche centrali nazionali di adottare decisioni in completa
autonomia. Non solo: il trasloco delle riserve da Bankitalia allo Stato eluderebbe il divieto per la banca centrale di finanziare il settore pubblico. Per non parlare dell’esproprio che si configurerebbe.
Ma ora si cambia. «Manteniamo l’emendamento e con la riformulazione chiariamo che non c’è nessun esproprio come qualcuno invece dice», annota Lucio Malan
(da agenzie)
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Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
“UN ITALIANO SU DUE RITIENE CHE I GENITORI SIANO ‘PARZIALMENTE’ LIBERI DI ADOTTARE UNO STILE DI VITA ALTERNATIVO PER I FIGLI (49,7%)
Il caso della famiglia anglo-australiana che da anni viveva nei boschi di Palmoli, in
Abruzzo, ha acceso un dibattito nazionale come poche volte accade. La decisione del Tribunale dei minori di allontanare i tre figli – e temporaneamente la madre – dal padre, collocandoli in una casa protetta, ha polarizzato l’opinione pubblica su due fronti che sembrano inconciliabili: da una parte la libertà di scelta e di stile di vita alternativo, dall’altra la protezione e i diritti del minore.
Secondo l’ultimo sondaggio di Only Numbers, quasi un cittadino
su due (49,8%) si schiera apertamente a favore della famiglia e contro la decisione dei giudici.
Tra i sostenitori di questa posizione ci sono i difensori dell’educazione «rurale», fatta in casa, modellata sui ritmi naturali e non su quelli standardizzati della scuola e della società.
A rendere la famiglia ancora più «simpatica» agli occhi di uparte dell’opinione pubblica è la percezione che si trattasse non di un contesto di miseria, ma di una scelta consapevole: bambini curati, genitori presenti, vita essenziale, ma non degradata. Un esperimento di autosufficienza più che un caso di abbandono.
Sul fronte opposto troviamo il 35,2% degli intervistati, convinti che la tutela del minore debba prevalere su tutto. È la parte del Paese che guarda ai fatti con occhi pragmatici: la casa giudicata fatiscente, priva di servizi essenziali; l’assenza di elettricità, acqua corrente e sicurezza strutturale comporta possibili e facili rischi concreti per la salute e l’incolumità dei bambini.
Il vulnus se vogliamo è proprio l’interpretazione del «come» questi bambini siano stati educati, curati, istruiti e inseriti nella società dai loro genitori Nathan e Catherine. Il Paese, insomma, è profondamente diviso: il 44,1% ritiene che il Tribunale dei Minori abbia oltrepassato i propri limiti; il 37,7% sostiene che
abbia semplicemente applicato le norme, come previsto dalla legge.
Tuttavia questa storia – al di là della cronaca – ci mette davanti a domande più profonde, che interpellano il nostro rapporto collettivo con la genitorialità, la libertà individuale e il ruolo dello Stato. Dove finisce il diritto dei genitori di educare secondo i propri valori e dove comincia il diritto del minore a condizioni di vita sicure e conformi agli standard sociali?
È una domanda senza risposte immediate, perché tocca la sfera più delicata dell’esperienza umana: crescere ed essere cresciuti. Non stupisce, dunque, che un italiano su due ritenga che i genitori siano «parzialmente» liberi di adottare uno stile di vita alternativo per i figli (49,7%).
Interessante il dato del target tra i 24 e i 44 anni, cioè tra chi oggi ha figli piccoli o potrebbe averli, la percentuale sale al 59,7%; e tra i 18 e i 24 anni dove la percentuale sfiora l’80% (78,9%). Segno che la generazione che si confronta ogni giorno con l’educazione è quella più sensibile alla necessità di trovare un equilibrio.
Nel campione nazionale solo il 26% sostiene invece la libertà totale dei genitori, mentre il 14,1% ritiene che debba prevalere la
norma sociale, l’insieme delle regole condivise che definiscono ciò che consideriamo accettabile per un minore nella nostra società.
Nel giudicare questa vicenda, ciascuno di noi finisce per interrogare la propria idea di infanzia, di comunità, di responsabilità. Non è – e non sarà mai – una questione di «giusto» o «sbagliato». È una questione di confini: quelli tra autodeterminazione e tutela, tra scelta personale e bene collettivo, tra natura e società. E i confini, si sa, sono sempre i luoghi più difficili da abitare; tuttavia, sono anche quelli in cui una comunità, se vuole crescere, è chiamata a guardarsi dentro – senza slogan e senza polarizzazioni – e a capire chi desidera essere «da grande».
Alessandra Ghisleri
per “La Stampa”
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Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
LA DIRIGENZA DEL PARTITO HA PRESO LE DISTANZE E HA APERTO UN’INCHIESTA PER LA PARTECIPAZIONE AL CONGRESSO DI EICHWALD, CHE SUL PALCO HA SCANDITO OGNI PAROLA ARROTANDO LA R, COME FACEVA IL DITTATORE NAZISTA: “SI È ALLONTANATO DAI PRINCIPI DEL PARTITO”. BEH, A DIRE IL VERO, SI È AVVICINATO MOLTO
Esplode la polemica nel dibattito politico tedesco sulla figura di Alexander Eichwald, uno dei candidati ai vertici di “Generazione Germania”, la “fucina dei talenti” dell’ultradestra tedesca. Ieri con un discorso chiaramente ispirato ai plateali comizi di Adolf Hitler, vestito in smoking, gilet e cravatta e con i capelli lunghi fino alle spalle, Eichwald ha aizzato la platea scatenato un putiferio all’interno dell’AfD.
La dirigenza del partito ha preso esplicitamente le distanze sul contenuto e lo stile del suo discorso di candidatura, e ha aperto un’inchiesta per la sua partecipazione al congresso di fondazione della nuova organizzazione giovanile. Il leader del partito Tino Chrupalla ha affermato che “con i contenuti e i modi del suo discorso Alexander Eichwald si è allontanato dai principi del partito”.
Al congresso di Giessen Eichwald una volta salito sul podio ha iniziato a parlare scandendo ogni parola e arrotando la “R”, ricordando proprio nello stile quello del cancelliere nazista.
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Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
L’OBIETTIVO DEL GOVERNO: NON FARE UNA NUOVA GARA E APRIRE I CANTIERI ANCHE SOLO UN MINUTO PRIMA CHE SI VADA AL VOTO PER LE POLITICHE DEL 2027, IN MODO DA INCHIODARE IL FUTURO GOVERNO A DOVER ANDARE AVANTI PENA RISARCIMENTI MILIARDARI AL PRIVATO ATTUALE, IL CONSORZIO EUROLINK
Matteo Salvini mette le mani avanti: «La gara per il ponte sullo Stretto c’è stata. Rifarla
significa dire no a questa infrastruttura». E la sua uscita non è casuale. Perché dopo la pubblicazione delle motivazioni della Corte dei conti che hanno portato alla bocciatura della delibera Cipess che stanziava 13,5 miliardi per l’opera, tra i tecnici di Palazzo Chigi e del ministero dei Trasporti c’è grande preoccupazione per un punto preciso sollevato dai magistrati contabili: la lesione della concorrenza e della direttiva europea sugli appalti per aver ripescato una gara vecchia di oltre venti anni.
È stata fatta rivivere tale e quale, cambiandone però i criteri: il costo è cresciuto e la spesa oggi è tutta a carico dello Stato, mentre nel 2003 si prevedeva il peso in capo ai privati in cambio della gestione dei pedaggi.
«In questo momento la difficoltà sarà rispondere proprio a questa contestazione, che apre a danni erariali, rischio contenziosi e a procedure di infrazione dell’Unione europea», spiega un tecnico che ha avuto in mano il dossier Ponte a livello ministeriale.
Nella delibera della Corte dei conti in un passaggio, non finito sotto i riflettori nei giorni scorsi, si legge: «L’operazione economica entro cui si collocano i rapporti negoziali differisce, in maniera significativa, da quella originaria.
La significatività delle modificazioni recate sulle modalità di finanziamento appare, peraltro, di tutta evidenza ove si abbia riguardo alla circostanza che, nel 2012, la realizzazione dell’opera — con le inevitabili conseguenze sui rapporti contrattuali — è stata interrotta proprio per l’impossibilità di
reperire idonei capitali sul mercato».
Insomma, quello della Corte dei conti non è un dubbio ma una certezza: l’appalto va rifatto e per loro questo «è di tutta evidenza».
Tra Palazzo Chigi e il Mit, in via del tutto informale, si è discusso di cosa accadrebbe se si dovesse fare una nuova gara. Al di là dei tempi, la preoccupazione maggiore ha a che fare con le aziende straniere che potrebbero arrivare da Cina, America e Giappone, a discapito magari di quelle italiane. Non a caso comunque domani a Palazzo Chigi è convocata una riunione.
Il governo cercherà in tutti i modi di tenere l’iter sui binari già scelti: e cioè non fare una nuova gara e aprire i cantieri anche solo un minuto prima che si vada al voto per le politiche del 2027, in modo da inchiodare il futuro governo, qualsiasi colore avrà, a dover andare avanti pena risarcimenti miliardari al privato attuale, il consorzio Eurolink.
Ma i timori che quanto scritto della Corte dei conti faccia saltare il banco ci sono.
Da qui l’ennesimo annuncio della posa della prima pietra, promessa dal segretario del Carroccio prima nella primavera del 2024, poi in quella del 2025 e adesso il prossimo anno:
«Supereremo le perplessità che la Corte dei conti ci ha sottolineato, e invece di partire come avrei desiderato entro novembre-dicembre di quest’anno con i cantieri vorrà dire che partiremo nel 2026».
(da Repubblica)
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Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
ALLA SERATA INAUGURALE DELLA NUOVA STAGIONE SINFONICA DEL TEATRO, ALLA FINE DELL’ESIBIZIONE DI ORCHESTRA E CORO, DIRETTI DA IVOR BOLTON, NUOVA PIOGGIA DI VOLANTINI DAI PALCHI
Anche venerdì, serata inaugurale della nuova stagione sinfonica della Fenice di Venezia, sono andate in scena proteste da parte degli spettatori di palchi e platea. Prima dell’inizio del ‘Canto del destino’ di Brahms, gli spettatori hanno acceso le torce dei loro telefonini. Alla fine dell’esibizione di orchestra e coro, diretti da Ivor Bolton, nuova pioggia di volantini dai palchi.
Oltre alla querelle sulla direttrice musicale Beatrice Venezi e alla contrapposizione col sovrintendete Nicola Colabianchi, il nuovo fronte di scontro dei lavoratori della Fenice riguarda la mancata corresponsione dell’acconto del welfare, deciso all’unanimità dal Consiglio di indirizzo della Fondazione. Per sindacati e i 300 lavoratori si tratta di “una ritorsione”.
(da agenzie)
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Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
LA NUOVA STRATEGIA DEL VIMINALE: DA MESI IN CENTINAIA SONO COSTRETTI A VIVERE NEI MAGAZZINI DEL PORTO VECCHIO
Felpe, magliette, coperte appese a una ringhiera. Odore di legna bagnata. Un filo di
fumo. Sulla banchina, cose e persone stese ad asciugare. Dopo due giorni di bora è tornato il sole a Trieste. E c’è una comunità nascosta, resa volutamente invisibile, che viene fuori a cercare calore e conforto che un pallido sole regala. A pochi minuti da piazza dell’Unità, dai caffè con nostalgie asburgiche e dai locali acchiappaturisti, a pochi passi dalle vie dello shopping, da Comune, grandi banche e prefettura, si sono centinaia di persone costrette a vivere accampate nei magazzini del Porto Vecchio di Trieste.
La polvere sotto il tappeto
Richiedenti asilo e aspiranti tali arrivati dopo mesi di di viaggio lungo la rotta balcanica, dublinanti espulsi dal Nord Europa e rispediti in Italia, Paese primo ingresso che di loro si è disinteressata e adesso di nuovo li abbandona, marginali, homeless, transitanti. Uomini e ragazzi per lo più, tutti obbligati dall’inadempienza istituzionale a dormire all’addiaccio, a sopravvivere grazie alle reti di solidarietà che a Trieste sono macchina che funziona, nascosti come polvere sotto il tappeto. Sono 180-200, fra cui almeno un’ottantina di persone che hanno già presentato richiesta asilo, più di cinquanta che non riescono a
farsi ricevere per farlo. I numeri li ha messi in fila Ics, Consorzio internazionale di solidarietà, una delle realtà pioniere dell’accoglienza diffusa a Trieste e in Italia, “ma siamo consapevoli”, dicono gli operatori che regolarmente tentano di restituire nome e diritti a quei fantasmi, “che si tratta di cifre approssimate per difetto e sempre in evoluzione”.
La frontiera rinnovata
Tutti avrebbero diritto a formalizzare l’istanza e ricevere accoglienza, per legge dovrebbero passare non più di tre giorni per l’avvio della procedura, ma in realtà c’è da affrontare un calvario di mesi di tentativi. Identica attesa a cui è obbligato chi, dopo innumerevoli appuntamenti cancellati, giornate e giornate passate fuori dalle questure, riesce finalmente a presentare la richiesta, ma dall’accoglienza – che non è gentile concessione, ma obbligo di legge – rimane fuori comunque.
Perché i posti non ci sono, perché nessuno, salvo le associazioni, informa i diretti interessati che ne avrebbero diritto, perché c’è un nuovo, efficacissimo muro di gomma, che negli ultimi mesi è stato tirato su a Nord Est, nel triangolo fra Trieste, Gorizia e la frontiera. Quella che non dovrebbe esserci, ma dal 2023, per decisione del Viminale, è tornata e, a dispetto delle
rassicurazioni in senso contrario del ministro Tajani, di recente è stata rinnovata nell’assai costosa scenografia dei valichi Fernetti e Rabuiese, con camionette, sbarre e check-point da Guerra fredda, tornati su metà della carreggiata. In uscita, non c’è alcun controllo. “Una costosa sceneggiata”, l’ha definita il centrosinistra locale.
Flussi ininterrotti e rotta sempre più violenta
Basta allontanarsi pochi chilometri, arrivare ai valichi secondari, percorrere i sentieri del Carso, per accorgersi che il passaggio non si è mai interrotto. È solo molto più costoso, difficile, pericoloso, organizzato. Dove un tempo c’erano – e neanche sempre – i passeurs (facilitatori dell’attraversament), adesso sono arrivati i trafficanti. “Da quando nell’ottobre 2023 i controlli sono stati ripristinati, non solo fra Italia e Slovenia, ma a cascata lungo altre frontiere attraversate dalla rotta, ad aumentare sono stati soprattutto i servizi offerti dagli smugglers (trafficanti organizzati, ndr) e il controllo anche violento che esercitano sulle persone” – spiega Alessandro Papes di IRC, international rescue committee, che insieme alla Diaconia valdese raccoglie dati sugli ingressi a Trieste in base alle persone fisicamente incontrate. “I passaggi sono diventati quindi sempre più invisibili e veloci”. Anche perché gli smugglers si adeguano ai controlli, modificano i percorsi e i punti di ingresso, li moltiplicano. “Ad esempio, abbiamo la percezione che sempre più persone in questo momento puntino su Gorizia. Lì però non c’è una rete che permetta un reale monitoraggio”. E allora tocca incrociare i dati sugli ingressi in Slovenia e quelli registrati in strada a Trieste, il più delle volte in piazza Libertà e al centro diurno, cuori dell’accoglienza civica in città.
Fra Frontex e la realtà
Una contrazione c’è stata – di circa il 34%, dato assai lontano dal 60% calcolato da Frontex nei primi sei mesi del 2025 – e sulla rotta si viaggia comunque. Afghani per lo più, inclusi nuclei familiari allargati con due o più generazioni che si mettono in cammino. “Quest’anno ne abbiamo incontrati quasi tremila, tra cui una quarantina di famiglie, e un totale di 703 minori”. Turchi, curdi, bengalesi e pakistani, sempre più nepalesi, fra cui un piccolo esercito di donne sole, ancor più esposte degli uomini alle crescenti angherie e vessazioni che si registrano su una rotta solo più invisibile.
Campi ufficiali come Bihac, in Bosnia, sono tappa sempre più rara, mentre squat, capannoni, ruderi diventano prigioni§ nformali, teatro di violenze sempre più organizzate e sistematiche. Torture e pestaggi in videocall per estorcere ai familiari di chi transita ulteriore denaro non sono più eccezione, ma norma. “Diversi report”, aggiunge Papes”, attestano l’utilizzo e il trattenimento sempre più frequenti in posti informali e abbandonati, sia da parte degli smugglers, sia da parte di alcune polizie di frontiera”.
Il confine in città
Il vero muro oggi è in città, dove la nuova strategia della deterrenza si maschera da lassismo amministrativo. È ormai diffusa in Italia, con code che si allungano per giorni e notti davanti agli uffici delle Questure, tanto da costringere gli avvocati di diverse città a diffide, class action e altre iniziative legali. Tra Trieste e Gorizia, con talvolta anche Monfalcone a giocare di sponda, la forma è quella di un cinico ping pong.
Uno dei certificati di invito alla presentazione per la formalizzazione della domanda d’asilo con cancellature che testimoniano i multipli rinvii
“A Trieste mi hanno detto che se voglio presentare domanda devo prima fare far aggiustare il telefono, non si può, l’ho fatto vedere, ma loro mi hanno mandato via lo stesso”. Una barba
sottile che non riesce a invecchiare il viso scavato, quasi divorato da due occhi enormi, Ahmed si guarda attorno perso, mentre Ghulam, pakistano anche lui, mostra uno smartphone nuovissimo. “L’ho preso perché sapevo che solo così avrei potuto vedere la mia famiglia, ma mi hanno detto che è troppo nuovo, quindi non va bene perché non ci sono dati da controllare”. È da tempo ormai che i telefoni sono diventati parte della procedura di controllo.
Da un anno ormai, basta una ricerca che riguardi un’altra città, una posizione fissata su Google Maps, una foto per essere mandati via e invitati a presentarsi altrove. “È una prassi totalmente illegittima”, dice Gianfranco Schiavone, fra i fondatori di Ics. “La presentazione della richiesta asilo è un diritto, un telefono rotto, troppo vecchio, troppo nuovo o delle ricerche on line non possono essere ostative”. E neanche l’avere o meno il passaporto.
Il girone dantesco dei passaporti
Faisal non aveva il tempo di chiederlo, aspettare mesi, né poteva permettersi il lusso di far sapere alle autorità di avere intenzione di fuggire dal Pakistan. “Lavoravo per una Ong che si occupa di diritti delle donne pashtun, ma la nostra attività non era gradita”.
Raid negli uffici, minacce, pestaggi. “Ho mandato mia moglie e le mie figlie in campagna e sono partito”. Iran, Turchia, Grecia, poi la traversata lenta dei Balcani, a Trieste è arrivato a inizio ottobre. “Ci ho messo quasi tre settimane a farmi ricevere in questura, ho spiegato di non avere il passaporto e mi hanno detto di presentare una denuncia di smarrimento, pena l’impossibilità di chiedere asilo. Ho chiesto di farla lì, ma mi hanno detto che non si non si poteva”.
Pur perplesso, lui ci ha provato davvero. Ha girato per commissariati e stazioni dei carabinieri e tutti hanno – comprensibilmente – allargato le braccia. “Sono tornato in questura e mi hanno nuovamente mandato via”. Non è un ragazzino Faisal, ha più di cinquant’anni e di notte nei magazzini non c’è coperta che protegga da gelo e umido. Fra la documentazione che tiene ordinata in una cartellina di plastica ci sono anche diversi certificati medici che raccontano come il freddo stia lentamente compromettendo polmoni e bronchi. Ma deve continuare a dormire all’addiaccio. Senza formalizzazione della domanda, o invito per presentarla in accoglienza non si entra
“Non ti hanno fatto la foto, vero?”, gli chiede un ragazzo accanto
a lui. E non si riferisce al fotosegnalamento, che della procedura è prassi. “Molte persone raccontano che in questura esiste una chat informale in cui circolano le foto di quelli che vengono considerati troppo insistenti. Quando li vedono in fila, li mandano via senza neanche dar loro il tempo di parlare”, dice uno dei mediatori al Centro diurno.
Richieste illegittime, respingimenti e burocrazia creativa
Per chi a Trieste passa per fermarsi o per restare, il Centro diurno è l’unico posto – interamente gestito dalle associazioni – in cui, durante il giorno, chi ha bisogno possa trovare riparo, vestiti asciutti, docce, medici per una visita, operatori per informazioni, supporto, assistenza, volontari per una parola di conforto, un tè, dei biscotti, corsi di italiano. E in cui quotidianamente arrivano sconfitti tutti quelli che inutilmente sono rimasti per ore al gelo davanti alla questura in attesa di poter presentare la domanda.
“Non abbiamo numeri precisi perché le autorità preposte si sono sempre rifiutati di darceli, ma calcoliamo che quotidianamente venga permesso a meno di una decina di persone di entrare in Questura per provare a presentare richiesta d’asilo. Meno della metà ci riescono”, spiega Schiavone, che quotidianamente aggiorna la lista delle persone per cui è necessario mandare un
pec di sollecito alla questura. “Ma ormai neanche questo basta, quindi stiamo pensando ad altre iniziative legali”.
Nel caso di S.R, di cui per questioni di sicurezza si indicano solo le iniziali, è stato necessario chiamare in causa il tribunale di Trieste. Ventitré anni, nepalese, R. è arrivato in Europa legalmente, con un permesso di soggiorno temporaneo in Croazia, da lì si è spostato in Italia, dove ancora prima della scadenza dei suoi documenti, ha presentato richiesta d’asilo. Ma autonomamente – e senza alcun riferimento di legge che lo giustifichi – la Questura ha deciso che non poteva farlo e gli ha intimato di rientrare in Croazia entro sette giorni, pena l’espulsione “con destinazione fuori dal territorio dell’Unione Europea”. Un provvedimento che anche il tribunale ha ritenuto fin troppo creativo, tanto da intimare alla questura con provvedimento urgente di formalizzare immediatamente la richiesta d’asilo di R., così come le pratiche necessarie per l’inserimento in accoglienza. Quando mostra orgoglioso il suo modello C3 fresco di stampa, il verbale con cui viene formalizzata la richiesta asilo che poi toccherà alla commissione territoriale valutare, gli occhi gli brillano. “Adesso basta dormire al freddo”
Il silenzioso esodo dei nepalesi
Ma è uno dei fortunati. Soprattutto fra i nepalesi, che da almeno due anni scappano da un sistema divorato dalla corruzione, sempre più iniquo, dove la casta di nascita è una condanna. Talvolta, anche a morte. La stessa che spesso affronta chi si ribella. A settembre, un’ondata di proteste è costata la morte a più di ottanta manifestanti. L’Italia non considera il Nepal un Paese sicuro, eppure “il 95 per cento delle richieste di protezione internazionale, tra cui quelle di donne, viene rigettato”, spiega la psicologa Enkeleida Saraci, che si occupa di donne in situazioni di vulnerabilità.
Del circuito di tratta che coinvolge le nepalesi si sa ancora poco, secondo i primi dati sembra orientato sia allo sfruttamento lavorativo che sessuale, ma di certo ci sono decine di donne che subiscono sistematici abusi. “Incidenti”, li chiamano, senza scendere troppo nei dettagli. Eppure per loro anche la sola presentazione della domanda d’asilo è una lotteria.
Dopo mesi di inutili tentativi, molti provano a bussare alla Questura di Gorizia. Dove la strategia è diversa, ma l’esito è identico.
La burocrazia levantina di Gorizia
“Guarda qui, sette volte mi hanno detto di tornare. E sette volte mi hanno rinviato ad altra data”. Sul foglio che mostra Dinesh ci sono sette date cancellate e poi un’altra, che promette un appuntamento fra un mese per formalizzare finalmente la domanda d’asilo. Ne sono passati già due da quando è arrivato in Italia, almeno cinque da quando è atterrato in Romania con un visto e la certezza di avere un lavoro. Così gli avevano assicurato i dipendenti dell’agenzia a cui si era rivolto, indebitandosi pur di avere una prospettiva.
“In Nepal per chi come me è di una casta bassa non c’è futuro. Anche se abbiamo finito le scuole non troviamo lavoro, siamo costretti alla fame o arrangiarci. La corruzione sta divorando il Paese”. Lui voleva di più, per questo ha creduto a chi – a caro prezzo – gli ha promesso che in Romania avrebbe trovato alloggio, impiego e salario degno. Ma all’arrivo non c’era nulla di tutto ciò. “Per giorni ho dormito in strada. Poi ho incontrato un connazionale, mi ha detto che cercavano persone in un cantiere e siamo andati lì. Ci pagavano qualcosa, ma la polizia ha fatto un controllo e ci hanno mandati via”. Anche Abinash ha un percorso simile alle spalle e un identico elenco di scarabocchi e rinvii sul foglio che la Questura gli ha rilasciato per invitarlo a
presentarsi per la formalizzazione della domanda d’asilo. L’ultima volta – l’ottava – ha chiesto agli agenti di indicare una data certa, gli è stato detto che sarebbe stato possibile solo in caso di rinuncia all’accoglienza. Un ricatto che la procedura non prevede, né concepisce, ma l’informativa legale prevista per legge il più delle volte rimane sulla carta.
I fantasmi del Porto Vecchio
Che arrivino in Serbia, Croazia o Romania il copione è identico, la truffa anche. E lungo tutto il viaggio alla ricerca di un posto sicuro, identiche le forme di sfruttamento. “Io – dice, mentre gli altri con lui annuiscono – voglio solo un posto in cui vivere e lavorare in pace”. Ma per adesso sono solo fantasmi, costretti a vivere negli stanzoni dei magazzini del Porto Vecchio.
Nessuno li usa più da decenni, sono stati progressivamente abbandonati quando tutte le attività sono state spostate al Porto Nuovo, verso Muggia. Ma le strutture sono rimaste sostanzialmente integre. Il freddo è meno intenso rispetto all’esterno, i vetri alle finestre – miracolosamente quasi tutti integri – proteggono dalla bora, che però testarda entra da porte divelte e infissi bucati. Non c’è acqua, né luce, come non c’è nel magazzino occupato dai pakistani, a circa sei palazzoni di
distanza. O in quello degli afghani, poco lontano. Scappano dai talebani, sarebbero rifugiati naturali, eppure anche loro faticano addirittura a chiedere asilo. Ci si divide per nazionalità, un fuoco alimentato da pezzi di truciolato diventa cucina per cuocere il pane e riscaldare le ossa. La notte cala rapida. E domani sarà tempo di provare ancora, aspettare ancora, insistere ancora nel chiedere aiuto.
(da Fanpage)
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Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
MENTRE IL MEF SI AFFANNAVA A SMENTIRE UN SUO RUOLO, L’AD DI MPS, LUIGI LOVAGLIO, CONFERMAVA ALL’IVASS DI AVERE IL “SUPPORTO GOVERNATIVO”, CHE AVREBBE AVUTO UN “RUOLO FACILITATORIO” PER L’OFFERTA SU MEDIOBANCA
Il problema, adesso, è incastrare le dichiarazioni pubbliche, quelle disseminate dal governo nell’arco di un anno e più, con i fatti concreti che emergono dall’indagine della procura di Milano sulla scalata del Monte dei Paschi a Mediobanca. Una partita destinata a ridistribuire le carte del potere nella finanza nazionale.
A uscirne vincitori, una vittoria netta, sono stati il costruttore ed editore Francesco Gaetano Caltagirone, Francesco Milleri, a capo della holding Delfin e gestore dell’eredità miliardaria di Leonardo Del Vecchio, e Luigi Lovaglio, al timone di Mps.
Sono loro i tre indagati per manipolazione del mercato e ostacolo alle autorità di vigilanza nell’inchiesta milanese, ma le carte chiamano in causa anche l’esecutivo, e in particolare il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.
Dal ministero si ribadisce adesso «di aver agito nel rispetto delle regole e della prassi», e già nel giugno scorso, quando l’indagine era entrata nel vivo tra acquisizioni di documenti e audizioni di testimoni, Giorgetti aveva garantito «l’assoluta correttezza dell’operato degli uomini e delle donne del Mef», affermando che l’asta per la vendita del 15 per cento di Mps si era svolta in modo «identico a quelle fatte precedentemente».
Quell’operazione, chiusa nell’arco di poche ore il 13 novembre dell’anno scorso, ha spalancato le porte di Mps ai due soci forti Caltagirone e Delfin e ha fatto da trampolino di lancio verso la successiva offerta pubblica di scambio (Ops) del Monte per Mediobanca.
Il fatto è che adesso le certezze del ministro devono confrontarsi con gli elementi raccolti dalla Guardia di finanza. Una lunga serie di circostanze che portano i pm a concludere che l’asta è stata caratterizzata da «diverse e vistose anomalie» con l’obiettivo di «destinare una parte cospicua» di azioni Mps a
«soggetti predeterminati, volendo tuttavia generare all’esterno l’apparenza di una procedura aperta, ossia trasparente, competitiva e non discriminatoria».
Insomma, il sospetto di chi indaga è che l’asta gestita dal governo sia stata una messa in scena, un gioco con vincitori decisi in partenza. Adesso però è la Guardia di finanza che mette in fila una serie di anomalie.
Si legge nelle carte, per esempio, che l’affidamento del ruolo di bookrunner unico, cioè di gestore dell’asta, alla banca d’affari Akros «non è spiegabile se non nel senso di voler pilotare l’attività di dismissione».
Akros, infatti, era un intermediario con una sola esperienza di abb alle spalle, e per le precedenti due operazioni, quelle che Giorgetti afferma essersi svolte in modo «identico» all’asta di novembre, l’incarico era stato affidato a un pool di banche d’affari internazionali del calibro di Ubs, Bank of America (Bofa) e Jefferies. Per via delle sue ridotte dimensioni Akros è stata costretta, rilevano i pm, a ottenere garanzie dalla casa madre BancoBpm per un importo di 600 milioni.
Del resto, Caltagirone e Delfin si erano già preparati per tempo in vista della vendita delle azioni di Mps da parte del governo. È lo stesso Caltagirone a dichiararlo nel corso della sua audizione alla Consob, citata nelle carte d’indagine
Il costruttore ha detto, secondo quanto riportano i pm, di aver ricevuto dal Mef una “sommaria indicazione degli altri soggetti
che sarebbero stati invitati alla procedura di abb”. Dichiarazioni, quelle di Caltagirone, che mal si conciliano con la posizione del ministero
In particolare, segnalano i pm, il Mef ha inviato alla Consob una relazione firmata dal direttore generale Francesco Soro in cui si negano «contatti o interlocuzioni» con Caltagirone e Delfin in vista dell’asta sulla quota di Mps.
Soro, già amministratore delegato del Poligrafico e Zecca dello Stato, è approdato al ministero dell’Economia a maggio di quest’anno. Prima di lui, l’incarico di direttore generale del Mef era ricoperto da Marcello Sala, a cui toccò sovrintendere l’asta ora sotto accusa, ed è in seguito approdato a Nexi, la società di pagamenti digitali partecipata da Cassa depositi e prestiti.
La procedura di vendita della quota di Mps non si può configurare, a parere dei pm, come una gara pubblica, e quindi, nonostante «opacità e anomalie», non si può ipotizzare il reato di turbativa d’asta. Un passaggio chiave, quest’ultimo, nella ricostruzione della procura di Milano, perché di fatto taglia fuori gli esponenti del Mef da un possibile coinvolgimento diretto nell’inchiesta. E infatti né Giorgetti né Sala risultano, al momento, indagati.
Diversa è la posizione di Caltagirone, Milleri e Lovaglio, che, secondo i pm, avrebbero nascosto al mercato l’esistenza di un accordo per prendere il controllo di Mediobanca. Il ruolo del ministero dell’Economia sarebbe stato un altro, anche se non
penalmente rilevante.
Infatti, secondo la ricostruzione dei magistrati, «il dichiarato, ancorché generico sostegno del Mef all’offerta pubblica (su Mps, ndr) ha rassicurato il mercato circa il buon esito dell’operazione», inducendo quindi anche i più perplessi tra gli investitori, a consegnare le loro azioni all’ops.
Del resto, lo stesso Lovaglio a fine aprile aveva confermato il ruolo del governo in un colloquio con il presidente dell’Ivass, Luigi Federico Signorini.
In quell’incontro, l’amministratore delegato del Monte aveva ricordato il «supporto governativo» che avrebbe avuto un «ruolo facilitatorio» per l’offerta di Mps su Mediobanca. L’offerta, come noto, si è conclusa felicemente (per la banca senese e i suoi alleati) a settembre. Ma quello, ipotizzano i pm, era solo il primo passaggio di un piano più ambizioso con obiettivo le Assicurazioni Generali, di cui Piazzetta Cuccia è il principale azionista
«Facciamo fase due», dice Lovaglio a Caltagirone in un’intercettazione telefonica del 18 aprile, dopo il via libera dell’assemblea dei soci di Mps all’ops su Mediobanca. La fase due farebbe parte di «un più ampio piano comune» riguardante le Generali, spiegano i pm che interpretano le pubbliche smentite di Lovaglio in proposito «come un espediente di comunicazione per non rendere palesi gli accordi presi con Caltagirone e Delfin»
Un piano che potrebbe completarsi a breve, adesso che Caltagirone, L, Lovaglio e Milleri insieme hanno il controllo del gruppo assicurativo. Missione compiuta, quindi. Grazie anche al benevolo sostegno del governo.
(da “Domani”)
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Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE HA STANZIATO 166,8 MILIARDI DI DOLLARI, PER L’ESERCITO E L’ACQUISTO DI ARMI. LA SPESA TOTALE IN DIFESA AMMONTERÀ AL 38% DEL BILANCIO (NEL 2021 ERA “SOLO” DEL 24%) – L’AUMENTO È PREVISTO ANCHE NELLA PIANIFICAZIONE DEL BIENNIO 2027-2028, SEGNO CHE, ANCHE SE ARRIVASSE UNA TREGUA IN UCRAINA, “MAD VLAD” MEDITA ALTRE INVASIONI . L’EUROPA, CHE NICCHIA SULLE SPESE IN DIFESA, SARÀ PRONTA?
Vladimir Putin venerdì ha firmato la legge sul bilancio federale russo per il 2026 e il
periodo di pianificazione 2027-2028. Lo scrive la Tass. Rispetto ai costi della guerra contro l’Ucraina, affermano i media ucraini citando il Moscow Times, il governo russo stanzia 12,93 trilioni di rubli (166,8 miliardi di dollari) per l’esercito e l’acquisto di armi, pari a quasi il 30% dell’intero bilancio.
Si tratterebbe della spesa militare più elevata dai tempi dell’Unione Sovietica. La spesa totale per l’esercito e le forze di sicurezza ammonterà al 38% del bilancio. A titolo di confronto, nel 2021 questa cifra era del 24%.
Il bilancio include anche 3,91 trilioni di rubli per la cosiddetta sicurezza nazionale. Questi fondi sono destinati a finanziare il Ministero degli Interni, la Guardia Nazionale Russa, i servizi speciali e il sistema penitenziario, anch’essi coinvolti nella guerra contro l’Ucraina.
La spesa totale per l’esercito e le forze di sicurezza ammonterà a 16,84 trilioni di rubli, pari al 38% del bilancio. A titolo di confronto, nel 2021 questa cifra era del 24%. L’aumento della spesa militare avviene a scapito della riduzione della spesa§sociale ed economica. La quota della spesa sociale è ridotta al 25%, il valore più basso degli ultimi 20 anni. La spesa per il sostegno all’economia è ridotta al 10,9%.
(da agenzie)
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Novembre 30th, 2025 Riccardo Fucile
IN UN PAESE NORMALE PERMETTERE LA DEVASTAZIONE DI UN QUOTIDIANO SENZA TUTELARLO AVREBBE PORTATO ALLA DIMISSIONI DEL MINISTRO DEGLI INTERNI
Per chi ha vissuto e lavorato a Torino, sia pure in un’altra stagione di tensione, l’attacco alla redazione de “La Stampa” è un gesto ignobile. Violenza immotivata di chi non ha idee da proporre o misurare con altre idee, e sceglie l’intimidazione e la distruzione.
Poteva essere evitato? Certo che poteva esserlo, esattamente come, quarantotto anni fa, poteva essere evitato l’attentato che cagionò la morte di Carlo Casalegno.
Quali siano le potenzialità e i pericoli connessi a questi gruppi estremistici è stato scritto, prima ancora che in tanti articoli dei coraggiosi cronisti de “La Stampa”, in documenti, indagini, rinvii a giudizio e sentenze di magistrati torinesi.
Gian Carlo Caselli, l’ex-procuratore che dopo aver combattuto il terrorismo a Torino si è schierato in Sicilia contro la mafia, ha spiegato bene che bisogna stare attenti a trascurare l’estremismo
quando comincia a degenerare. C’è chi l’ha accusato di aver esagerato. Si vede bene che aveva ragione lui.
Lasciare sguarnita di protezioni la sede di un giornale, fatto oggetto altre volte in passato di attacchi e minacce, non può essere considerata solo una colpevole dimenticanza.
È un gesto grave, che va sanzionato. Chi ne ha la responsabilità deve risponderne. Non basta la solidarietà del ministro Piantedosi. A meno di voler far pensare che la “distrazione” corrisponda all’idea che dei giornali, dei giornalisti che fanno le domande e del sistema dell’informazione hanno più volte manifestato la premier e il governo di centrodestra.
Marcello Sorgi
per “La Stampa”
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