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IL BOOM DELL’OCCUPAZIONE AL SUD PORTA LAVORO POVERO: AUMENTANO I GIOVANI IN FUGA

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

IN TRE ANNI 175.000 GIOVANI SE NE SONO ANDATI AL NORD O ALL’ESTERO

Negli ultimi quattro anni, l’occupazione è aumentata nelle Regioni del Sud molto più che nel resto del Paese. Una crescita dell’8% che ha significato quasi 500mila nuovi posti di lavoro tra il 2021 e il 2024. L’occupazione è migliorata, la crescita economica anche. Eppure, proprio in questi anni sempre più giovani hanno continuato a lasciare il Mezzogiorno. Tra i vari motivi, ci potrebbe anche essere che con il boom dei posti di lavoro non sono saliti gli stipendi: il potere d’acquisto è sceso, la povertà è aumentata. Sono alcune delle informazioni riportate dal nuovo rapporto Svimez 2025, presentato oggi.
Quanto è aumentata l’occupazione al Sud
Un dato di fatto è evidente: nel boom dell’occupazione degli ultimi anni – che pure ha avuto le sue ombre, e sembra ormai prossimo alla fine – il Sud ha avuto un ruolo centrale. Come si diceva, il tasso di occupazione è salito dell’8% mentre nel Centro-Nord l’aumento è stato di 2,6 punti più basso. Quasi un terzo dei nuovi occupati totali (1,4 milioni circa) negli anni 2021-2024 sono arrivati nel Mezzogiorno.
Ci sono stati tanti motivi per questo aumento. Le assunzioni statali; il Pnrr, che ha spinto gli investimenti nelle opere pubbliche (ma finirà nel 2026); il Superbonus, che per alcuni anni ha portato il settore edilizio a un’impennata, e di conseguenza a parecchie assunzioni nei cantieri e nei servizi professionali collegati. Oltre a un miglioramento dell’industria, che è andata in controtendenza rispetto alla crisi del Centro-Nord, dove la produzione è molto più legata all’export internazionale.
La crescita del lavoro povero
Il problema è che, mentre aumentavano gli occupati, lo stesso non facevano gli stipendi. Dal 2021 al 2025 i salari reali nel Mezzogiorno sono scesi del 10,2%, più che nel resto del Paese (dove comunque c’è stato un calo dell’8,2%). Nel Centro-Nord,
la povertà lavorativa riguarda il 6,9% degli occupati. Al Sud, il 19,4%: quasi uno su cinque.
Basta dire che la metà dei lavoratori poveri in Italia risiede nelle Regioni meridionali (1,2 milioni su 2,4 in tutto). E questo numero è aumentato tra 2023 e 2024. In Italia ci sono 120mila lavoratori poveri in più rispetto all’anno prima. Circa 60mila di questi si trovano nel Mezzogiorno. Le famiglie in povertà assoluta al Sud sono passate dal 10,2% al 10,5%, un incremento che sembra piccolo in percentuale ma parla di circa centomila persone in più. Molte di queste famiglie hanno una persona di riferimento che lavora, ma il salario non basta a evitare la povertà.
Giovani e laureati se ne vanno
In questo scenario, è un po’ meno sorprendente quello che la sintesi del rapporto definisce un “paradossi occupazionale”, in cui “il lavoro al Sud è cresciuto come in nessuna recente fase di ripresa ciclica, ma il boom dell’occupazione non è riuscito ad arrestare le migrazioni giovanili, interne e estere”. Gli stipendi bassi non bastano a spiegare la scelta di molti giovani di andarsene, ma sicuramente aiutano.
Tra il 2022 e il 2024, sono 175mila i giovani di 25-34 anni che hanno spostato la residenza nelle Regioni del Centro-Nord
oppure all’estero. Erano stati circa 7mila in meno nei tre anni prima del Covid, dal 2017 al 2019.
Un discorso più specifico riguarda poi i laureati. Sono 26mila i giovani che si sono spostati da Sud a Nord nel 2023. Senza considerare l’età, si sale a circa 43mila. Più del triplo rispetto al 2002, quando furono 12mila. Anche mettendo in conto anche i laureati che si sono, invece, trasferiti al Mezzogiorno, le Regioni del Sud hanno comunque perso circa 30mila persone: è “il peggior saldo degli ultimi venticinque anni”, che non dà segnali di miglioramento.
Per di più, i laureati hanno superato i diplomati (39mila) e le persone con qualifica più bassa (26mila). È una tendenza di lungo periodo: sta aumentando sempre di più il numero persone qualificate che lasciano il Mezzogiorno.
Questa è una brutta notizia anche dal punto di vista strettamente economico. Considerato che la Regione spende dei soldi per l’istruzione di un cittadino, dalla scuola dell’infanzia fino all’università, ogni laureato che se ne va è una ‘perdita’, perché i frutti del suo lavoro non porteranno guadagni alla Regione stessa, ma a qualcun altro. Seguendo questo criterio, Svimez ha stimato che dal 2020 al 2024 il Mezzogiorno abbia perso quasi 8 miliardi di euro all’anno a causa dell’emigrazione di laureati:
circa 6,8 miliardi di euro per chi è andato al Nord e 1,2 miliardi per chi invece ha lasciato l’Italia.
Il rischio che l’economia torni a rallentare: cosa bisogna fare
Va citato anche un ultimo dato sulla crescita del Sud negli ultimi anni. Tra il 2021 e il 2024 il Pil del Mezzogiorno è cresciuto più che nel resto del Paese: l’8,5% contro il 5,8% del Centro-Nord.
A questo hanno contribuito in gran parte le già citate misure di sostegno all’edilizia (il Superbonus e non solo) e gli investimenti del Pnrr. Ma anche altro, come il turismo, i servizi, il fatto che l’industria meridionale in media è meno esposta alle crisi internazionali. Non è un caso che siano migliorate la manifattura (legata all’edilizia) e l’agroalimentare. Nel Centro-Nord, invece, problemi come i dazi statunitensi e la recessione della Germania si sono fatti sentire più duramente.
Il problema è che, secondo le previsioni, dal 2027 le cose rischiano di ritornare come prima. I bonus edilizi sono in diminuzione, i cantieri del Pnrr dovranno chiudere, la domanda internazionale dovrebbe migliorare, e così il Centro-Nord crescerà dello 0,9% mentre il Sud dello 0,6%. Ci sono degli elementi incoraggianti, su cui insistere, secondo il rapporto: la crescita dei servizi legati a tecnologia e informazione; l’industria; l’energia green; le università che sembrano diventare più
‘attraenti’ per gli studenti. Ma bisognerà continuare a investire anche quando saranno finiti i soldi presi in prestito dall’Europa.

(da Fanpage)

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CHI VINCEREBBE LE ELEZIONI POLITICHE CON LA LEGGE ELETTORALE CHE ABBIAMO OGGI

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

CENTRODESTRA E CAMPO LARGO PRENDEREBBERO GLI STESSI VOTI AL PROPORZIONALE, MENTRE SUI SEGGI UNINOMINALI SAREBBE BATTAGLIA

È una stima che non pretende di prevedere come andranno le prossime elezioni politiche, ma rende l’idea di alcune tendenze su come sono cambiati i consensi e i rapporti di forza politici in Italia, sulla base delle ultime elezioni regionali.
Il dato è contenuto nel nuovo rapporto dell’Istituto Cattaneo, che guarda al 2027 sottolineando quali sarebbero le differenze rispetto alle ultime politiche, dove il centrodestra stravinse.
La risposta è che stavolta ci sarebbe un certo equilibrio, con lo scontro concentrato soprattutto in alcune Regioni del Sud e la possibilità, per il ‘campo largo’, di ottenere anche una lieve maggioranza e vincere. Sempre che la legge elettorale non cambi, nel frattempo, come invece sembra essere intenzione del governo Meloni.
Cosa dice la legge elettorale e cosa è successo alle ultime elezioni politiche
Il punto è che le ultime tre regionali hanno confermato come, in termini di voti assoluti, il centrodestra e il centrosinistra (allargato a M5s e forze centriste) siano sostanzialmente in equilibrio. Era stato così anche alle elezioni europee dello sorso anno. E a dire la verità anche alle ultime politiche nel 2022: solo che allora centrosinistra ‘stretto’, M5s e Azione-Italia viva correvano ciascuno per conto suo.
L’attuale legge elettorale prevede due meccanismi per assegnare i seggi in Parlamento. Il primo è proporzionale: il numero di parlamentari dipende dalla percentuale di voti presa a livello nazionale.
Tra i seggi assegnati con questo sistema, le opposizioni erano in
vantaggio sul centrodestra: 130 contro 114.
Il problema – dal punto di vista del centrosinistra – è stato l’altro meccanismo, il cosiddetto uninominale. Funziona così: l’Italia si divide in una serie di collegi, ciascuno con i suoi candidati, e in ogni collegio solo il singolo candidato che prende più voti viene eletto. Qui naturalmente, dato che il centrodestra era unito mentre le opposizioni si presentavano ciascuno con il suo candidato, la vittoria è stata schiacciante: 147 seggi alla destra, 23 a tutti gli altri.
Cosa può succedere alle elezioni 2027
L’Istituto Cattaneo ha immagino cosa succederebbe se alle prossime elezioni, con questo stesso sistema, i partiti prendessero gli stessi voti che hanno ottenuto alle regionali che si sono svolte dal 2023 in poi. A livello proporzionale cambierebbe poco: come detto, le due coalizioni sono tendenzialmente in equilibrio. Sarebbero determinanti, quindi, i collegi uninominali.
Al Nord e al Centro partirebbe comunque in vantaggio il centrodestra. Nella zona di Emilia-Romagna e Toscana, così come al Sud, invece, il campo largo potrebbe fare molto meglio
rispetto alle scorse elezioni se riuscisse di nuovo a convincere gli elettori a votare il proprio candidato comune.
I numeri sono comunque incoraggianti per la destra, che però vedrebbe il suo margine scendere molto. L’attuale maggioranza potrebbe passare da un vantaggio di 98 seggi (quello che ottenne nel 2022) a uno di 34 seggi: circa un terzo. A questo potrebbe restringersi ancora, o anche venire ribaltato di poco, a seconda dei risultati in alcune Regioni chiave.
Considerando che il Nord e il Centro scelgano in gran parte (sempre per quanto riguarda i collegi uninominali) il centrodestra, e che il Sud vada in maggioranza al centrosinistra, così come Toscana e Emilia-Romagna, sarebbero tre i territori più combattuti. Si parla di Sicilia, Calabria e Sardegna.
Queste sommate assegnano 21 seggi che potrebbero rivelarsi determinanti, perché sono le zone in cui il campo largo ha più margine per migliorare i risultati del 2022.
Perché la legge elettorale è così importante
Naturalmente, come detto, è una stima basata sui voti alle regionali. Non tiene conto, ad esempio, del fatto che alcuni elettori nelle elezioni locali possono essere più o meno motivati
a votare dal fatto che il candidato sia del proprio partito. Così come non considera che in Calabria storicamente il centrodestra ha fatto meglio alle regionali che alle politiche, e che in Sicilia non si è ancora votato in questa legislatura perché le ultime regionali risalgono al 2022.
Resta il fatto che, per ora, i segnali indicano un’elezione più combattuta rispetta a tre anni fa. Le cose potrebbero cambiare molto nel prossimo anno e mezzo che, con tutta probabilità, ci separa dal voto politico. Non solo potrebbero cambiare i consensi e le alleanze, ma anche il modo in cui si assegnano i seggi.
Questo spiega anche perché si sia acceso così in fretta il dibattito, di fronte alla proposta del centrodestra di cambiare la legge elettorale. L’idea proposta dalla maggioranza è di un sistema in cui la coalizione che prende più voti a livello nazionale ‘vince’, e ottiene automaticamente un numero ben più alto di parlamentari, non importa di quanto ha superato gli avversari.
Un sistema simile a quello in vigore per le elezioni regionali. Senza distinzione di singoli collegi, il centrodestra potrebbe
partire decisamente avvantaggiato e non preoccuparsi di recuperare consensi in specifici territori.
(da Fanpage)

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LA “FAMIGLIA NEL BOSCO”, IL DOVERE DELLE ISTITUZIONI NELLA TUTELA DEI MINORI E LA POLITICA CHE SPECULA

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

LA LIBERTA’ EDUCATIVA E’ SACROSANTA MA TROVA IL SUO CONFINE NEL DOVERE DELLO STATO DI TUTELARE SEMPRE E COMUNQUE IL MINORE

C’è un principio sacro e innegabile: ogni genitore ha il diritto di crescere i propri figli secondo i propri valori e le proprie scelte. La libertà educativa è sacrosanta. Ma questo diritto inalienabile trova il suo confine nel dovere dello Stato, di chi gestisce la cosa pubblica e la salute collettiva, di garantire sempre e comunque la tutela del minore. È in questo delicato equilibrio che si inserisce il recente, e strumentalizzato, caso della cosiddetta “Famiglia del Bosco”.
Siamo in un contesto avvelenato. Dall’epoca di Bibbiano, i servizi sociali e tutte le figure che si occupano di infanzia sono sotto costante attacco. La retorica populista, che all’epoca aveva
trovato facile sponda politica soprattutto in Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 Stelle, ha creato un clima di sospetto generalizzato nei confronti di chi, per mestiere, deve porsi domande sulla salute e la socialità collettiva. Tutti ricorderete gli adesivi onnipresenti in tutta Italia che recitavano: “parlateci di Bibbiano”.
Oggi, questo copione si ripete. La storia di questa famiglia di origine anglo-australiana, che ha scelto una vita rurale, isolata, priva dei comfort tipici della nostra società, è stata immediatamente trasformata in un pretesto politico. L’attuale Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il vice Primo ministro Matteo Salvini hanno brandito una “solidarietà del tutto pretestuosa” per continuare la loro battaglia contro la magistratura e, indirettamente, attaccare i servizi sociali, esattamente come fecero per il caso di Bibbiano
Le scelte di vita e la ricostruzione dei fatti
Fino alla scelta di vita rurale, la legittimità non è in discussione, anzi. L’intervento istituzionale però si basa su fatti che destano legittimi dubbi: un ricovero ospedaliero di famiglia per intossicazione da funghi di minori e genitori, il rifiuto di cure
essenziali e l’opposizione a vaccinazioni, con l’ormai ex avvocato della famiglia stesso ha definito una provocazione la richiesta di 50.000 euro a figlio.
A ciò si aggiunge la questione dell’home schooling. Pur essendo una scelta legale, non può prescindere da ciò che la scuola rappresenta: non una semplice serie di nozioni, ma socialità, confronto con i coetanei e, soprattutto, l’istituzione che proietta il bambino nel mondo dei grandi. Come ribadito dalla Presidente dell’Ordine degli Pedagogisti in un’intervista a Fanpage.it “la socialità non può mancare”.
A completare il quadro la casa: un geometra ha accertato la stabilità ma ha confermato come inesistenti l’impianto idrico e elettrico. I servizi sociali e il tribunale hanno invece descritto la struttura come fatiscente e non adatta alla presenza dei bambini, con i servizi igienici esterni e senza acqua corrente. Di fronte a queste carenze igieniche e di sicurezza, la famiglia ha mostrato una “ritrosia totale” e una non volontà di mediare, con la madre che, stando ai racconti riportati, si era già allontanata un anno fa con i figli per evitare un’ispezione. Atteggiamento confermato in queste ore che ha portato all’abbandono dell’incarico da parte
dell’avvocato di famiglia.
Il vero obiettivo: la resa dei conti con la magistratura
Qui emerge l’amara, e per certi versi prevedibile, ipocrisia della politica. Se si fosse trattato di una famiglia Rom, di una famiglia africana o di altra etnia, l’attuale destra di governo non avrebbe esitato. L’avrebbe richiamata immediatamente al rispetto delle nostre leggi, della nostra cultura e delle nostre tradizioni, utilizzando l’artiglieria mediatica in difesa dei “valori nazionali.” Rispolverando probabilmente “la bestia”, quel modello comunicativo che Morisi aveva messo in campo per Salvini per sfruttare ogni caso di cronaca.
Invece, per attaccare la magistratura, quegli stessi valori vengono barattati. Si passa sopra a un’intossicazione infantile e a gravi carenze igieniche, pur di trovare un pretesto per la “resa dei conti” politica tanto attesa. Salvini lo ha confermato, legando esplicitamente la difesa della “Famiglia del Bosco” alla necessità di un referendum per la separazione delle carriere e al desiderio di “mettere un freno a questo tipo di magistratura.” Anche l’intervento del Ministro della Giustizia Nordio, che ha promesso un approfondimento sulla vicenda, quindi una possibile
ispezione ministeriale, conferma che il tema è ormai trattato come una questione politica. Tutto molto surreale perché la scelta di questa famiglia è basata sul rispetto dell’ambiente, sul non impattare sul mondo che ci circonda e chi li difende oggi sono gli stessi che boicottano ogni giorno le politiche per l’ambiente, le conferenze per il clima e reprimono chi manifesta per tutelarle.
Il destino e il benessere di quei bambini, e il dovere di tutelarli di fronte a una famiglia restia ad ogni mediazione, sono stati sacrificati in nome di una campagna politica di un caso diventato troppo mediatico. La riprova è che casi ben più gravi che hanno portato alla morte di due bambini seguiti proprio dagli assistenti sociali sono stati raccontati dalla cronaca ma non dalla politica. L’attacco ai magistrati è la vera posta in gioco. È un grave errore: la protezione dell’infanzia non può e non deve mai diventare merce di scambio o uno strumento per lotte di potere. Le istituzioni hanno il dovere di agire per il bene superiore dei bambini, a prescindere dal loro background o dall’opportunità politica del momento.
(da Fanpage)

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OTTO ORE IN PRONTO SOCCORSO A ROMA, TRENTA MINUTI PER UN’AMBULANZA IN CALABRIA

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

LA MAPPA DEI DISAGI DELLA SANITA’ ITALIANA

Oltre 35 minuti di attesa per un’ambulanza attivata in codice rosso. È l’infelice record con cui l’Asl di Vibo Valentia guida la classifica dei ritardi nei soccorsi di estrema urgenza. In tutta la Calabria la media si aggira intorno alla mezz’ora, a Oristano siamo sui 26 minuti, 25 a Messina. In totale, secondo una ricerca di Agenas, 41 aziende sanitarie su 110 hanno tempistiche
superiori ai 20 minuti. Decisamente troppo, soprattutto quando il target nazionale è di 18 minuti. Chi sta ben al di sotto dell’obiettivo è l’Asl di Giuliano Isontina, in Friuli, con una media di 12 minuti. Seguita a ruota da Piacenza, Chiavari, Reggio Emilia, Parma e Genova con 13 minuti.
Le attese sopra le 8 ore e il tasso di abbandono per le lentezze
La ricerca di Agenas fornisce una istantanea sullo stato della sanità italiana, in particolare quella emergenziale. A Tor Vergata, a Roma, il 25% dei pazienti è costretto ad aspettare in pronto soccorso almeno 8 ore. Sempre a Roma, al Sant’Andrea la quota è del 23% Tra il 20 e il 23% ci sono Cagliari, ospedali Giaccone e Cervello di Palermo e Cardarelli di Napoli. Ottimi esempi sono il San Carlo di Potenza, con solo l’1%, e Padova con il 2,9% di pazienti che deve aspettare oltre otto ore. Ma vittime delle lentezze sono anche tutti quei pazienti che, affranti dai tempi di attesa, decidono di abbandonare il pronto soccorso prima di essere visitati. Al Cervello di Palermo se ne va un paziente su quattro, come al Colli di Napoli. A Tor Vergata il 15%. Record in positivo, in questo caso, o ha il Santa Maria di Trapani con un tasso di abbandono dello 0,3%.
I ritardi su operazioni e interventi oncologici
Altro tassello del report sono le attese per gli interventi chirurgici e oncologici. Agenas, per i secondi, ha preso come riferimento quanti interventi per un tumore alla mammella vengono fatti entro i 30 giorni prefissati dallo standard del ministero della Salute. A Pisa si arriva al 100%, Modena, Verona, Siena, Padova, Sant’Anna di Ferrara, San Matteo di Pavia, Rodolico San Marco di Catania, Sant’Orsola di Bologna, Careggi di Firenze, Tor Vergata di Roma, Cannizzaro di Catania, San Carlo di Potenza, Cervello di Palermo, Niguarda di Milano e Santa Croce di Cuneo sono sopra il 90%. Bassissimi il Brotzu di Cagliari al 12%, Perugia è al 13% e Ancona al 20%. Per le operazioni programmabili, a capo delle Asl, a Nord e a Sud la gran parte delle aziende rispetta le tempistiche di priorità oltre il 90%. Male Cunero (12%), Rieti (14%), Matera (20%) e Torino 3(25%).
(da agenzie)

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IGNAZIO LA RUSSA: QUANDO L’ARBITRO DIVENTA TIFOSO

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

PIU’ CHE IL NUMERO DUE DELLA REPUBBLICA, PENSA DI ESSERE IL NUMERO UNO DELLA CURVA NORD

Era il 13 ottobre di tre anni fa, un giovedì piovoso. Quel giorno, salendo sullo scranno più alto del Senato, Ignazio La Russa pronunciò «una sincera promessa». Questa: «Cercherò con tutte le mie forze di essere il Presidente di tutti. Ve lo giuro». Allora pensammo che volesse seguire gli esempi dei suoi più illustri precedessori. Che volesse fare come Amintore Fanfani, che si autoconfinò in una posizione istituzionale sobria e defilata. O come Francesco Cossiga, che evitò accuratamente ogni riunione di partito. O piuttosto come Giovanni Spadolini, che si tenne lontano da qualunque evento politico, anche come semplice spettatore. O magari aveva in mente i modelli di comportamento
di autorevolissimi presidenti della Camera. Quello di San dro Pertini, per esempio, che non prese mai parte alle manifestazioni del Psi. O quello di Nilde Iotti, che nei suoi 12 anni alla guida di Montecitorio rifiutò tutti gli inviti ai comizi del Pci. O quello di Giovanni Leone, che addirittura si autosospese dalla sua corrente democristiana.
«Sono sempre stato un uomo di partito, ma in questo ruolo non lo sarò», giurava La Russa. Solenne il tono, ferma la voce, franco lo sguardo. Provammo a prenderlo sul serio. Anche uno che ha guidato i militanti missini a Milano, pensammo, anche uno che teneva in casa il busto di Mussolini, può essere investito dalla grazia di Stato nel momento in cui viene eletto alla seconda carica della Repubblica. E magari lo pensava anche lui. Poi, si sa come vanno queste cose, man mano che passavano i giorni, le settimane e i mesi La Russa deve aver pensato che quella promessa non andava presa alla lettera. Che ne andava colto solo lo spirito. La buona intenzione, ecco. Senza stare a guardare il capello.
Così a poco a poco ha ripreso a muoversi e a parlare come militante di partito. L’elenco delle sue uscite sotto la bandiera di
Fratelli d’Italia è troppo lungo. Limitiamoci all’ultimo mese. Il 19 ottobre manda un videomessaggio alla convention a Catania: «State lavorando molto bene, complimenti». Il 26 chiude la manifestazione di Assago: «La fiamma c’è ancora, abbiamo tutti una radice». Il 6 novembre si presenta a Pagani per la campagna elettorale di Edmondo Cirielli: «Non potevo esimermi dal testimoniare la sua dirittura morale». Il 14 novembre torna in Campania, tra i militanti con la versione napoletana del berretto trumpiano (“Make Naples Great Again”), per sostenere l’ex ministro Sangiuliano: «Ha fatto di più Gennaro in pochi mesi che gli altri dieci ministri che l’hanno preceduto».
Un giorno, a chi gli ricordava quella promessa di tre anni fa, ha risposto serafico: «Se uno non è presidente della Repubblica ha l’obbligo di essere super partes solo nell’esercizio delle sue funzioni». Ma anche di queste parole deve essersi dimenticato, quando ha annunciato con l’esultanza di un tifoso l’esito della votazione decisiva sulla contestatissima riforma della giustizia: «Il Senato approva! Bene, bene, bene!».
Il suo modo di fare è così naturale, così spontaneo, così coerente con sé stesso, che lascia l’impressione che le istituzioni si
debbano adattare a lui, non lui alle istituzioni. Rivelatrice è la sua polemica con il ct degli azzurri, Gattuso: «Non si può dire vergogna allo spettatore che fischia». Perché tra la Nazionale e i tifosi, lui sta dalla parte dei tifosi. È uno di loro. Il problema è tutto qui: più che il numero due della Repubblica, La Russa pensa di essere il numero uno della curva Nord.
(da lespresso.it)

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TROPICAL MADURO

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

IL CAUDILLO PETROLIFERO NEL MIRINO DI TRUMP

Tropical tempesta a stelle e strisce s’attende sulle coste del disgraziato Venezuela di Nicolas Maduro, il caudillo, che a Caracas cavalca malamente il potere da una dozzina d’anni, moltiplicando l’inflazione, la corruzione e i debiti con Russia e Cina, svendendo il petrolio, riempiendo le carceri di dissidenti e di stranieri, come il nostro Alberto Trentini, da usare come moneta di scambio per futuri ricatti, svuotando i banchi dei supermercati e delle farmacie, arricchendo i ricchi, mandando in malora il ceto medio, affamando e facendo fuggire la sua popolazione che un tempo gli aveva persino creduto.
Maduro, 63 anni appena compiuti, detto “il gallo combattente”, ama il potere, le fanfare e la forza. Con l’esercito, la repressione, le leggi e i giudici ad personam si è fatto padre-padrone del Venezuela. Lo ha demolito un po’ alla volta, fino alle macerie di oggi. Viene da una famiglia cattolica di Caracas. Studia quasi
nulla. Diventa autista d’autobus. Ma la sua vocazione è il sindacato. Lo scala. Entra in politica nel Movimento Rivoluzionario Bolivariano. Diventa parlamentare. Lo scopre la stella nascente del socialismo Hugo Chávez, l’ex colonnello dei paracadutisti, che dopo un tentato golpe e il carcere, nell’anno 1998, diventa presidente. Maduro sarà il suo delfino e dal 2013, il suo erede.
Trump se lo è scelto come nemico perfetto: claudicante, con le spalle al muro nell’angolo più a Nord del cortile di casa, il Sudamerica, il continente che respira, controllato a vista dalla fraterna giurisdizione di Washington che fa e disfa regimi dai tempi della Dottrina Monroe, anno 1823. Tra i nuovi arredi barocchi dello Studio Ovale, Trump ha annunciato “azioni segrete della Cia già in corso” per rovesciarlo. E ha promesso: “Maduro ha i giorni contati”. Lo accusa di essere alla guida di un narco-Stato che attenta alla sicurezza nazionale dell’America spedendo il micidiale Fentanyl, la droga sintetica che ogni anno trasforma 80 mila americani in zombie. E anche se non è vero quasi niente – il Fentanyl viene prodotto in Cina, e i grandi trafficanti stanno in Colombia, Ecuador, Messico – ha spedito la più grande portaerei della Marina, la Gerald Ford, davanti alle sue coste, con i motori che ronfano al minimo. Mentre 10 mila marines sono sbarcati a ottobre sulle sabbie di Porto Rico a mimare una esercitazione militare e sono ancora lì, in attesa. Anche loro si godono lo spettacolo dei motoscafi venezuelani che gli F-35 americani ogni tanto intercettano e affondano, nelle acque internazionali.
“Sono narcos”, recita l’accusa sulle immagini gentilmente concesse dal Pentagono alle tv del mondo, ogni missile un centro, come un videogioco, niente audio, niente sangue, solo uno sbuffo di fumo e un monito: ecco come trattiamo i nemici dell’America. Anche se nessuna legge lo consente, tranne quella della forza.
Maduro fa più o meno lo stesso sulla terraferma, in patria. L’ultimo World Report sui diritti umani è impietoso: niente libertà di parola, niente indipendenza della magistratura. I media sono controllati dal regime. La polizia abusa dei suoi poteri, arresta senza mandato e senza spiegazioni.
Le carceri sono un buco nero.
L’economia è al collasso: non c’è lavoro, non c’è cibo, non c’è
futuro. Tre milioni di venezuelani sono in fuga verso la Colombia e il Perù. L’iperinflazione ha trasformato il Boliver in coriandoli. La disperazione ha moltiplicato i conflitti e la repressione.
E pensare che nel 1971 il Venezuela, 25 milioni di abitanti ai tempi, in gran parte meticci, classe dirigente bianca, per lo più spagnola e italiana, era lo Stato più ricco del Sud America. Galleggiava su 330 miliardi di barili del petrolio più pregiato al mondo. Lo avvantaggiava la dolcezza del clima, la fertilità della terra, le altre ricchezze minerarie. Il benessere faceva contenti tutti. Nessuno pensava a investimenti e riforme. Così che quando negli anni 80 il petrolio precipita da 106 a 32 dollari, il cambio di stagione diventa una voragine, il Pil si dimezza, la povertà raddoppia, i ricchi si prendono quel che resta.
Saltano le casse dello Stato.
Interviene il Fondo monetario internazionale che offre prestiti e chiede tagli sociali. Monta la protesta, fino alla strage del febbraio 1989, quando per arginare le manifestazioni di Caracas, esce dalle caserme l’esercito, spara, 380 morti.
Entra in gioco Hugo Rafael Chávez che predica socialismo, giustizia sociale per la popolazione meticcia. Stravince le elezioni. Investe in fabbriche, scuola, sanità. In 15 anni di potere raddoppia l’occupazione e il reddito pro capite. Poi arriva la malattia che in un anno si porta via Chávez e la quasi primavera del Venezuela.
Maduro vince le elezioni del 2013 per un soffio e una ammissione che diventerà una minaccia: “Sono figlio di Chávez, ma non sono Chávez”. In una manciata di anni – dalla reggia presidenziale di Palazzo Miraflores – reprime ogni dissenso “con le buone o con le cattive” come dichiara nei suoi lunghissimi sermoni che la televisione nazionale ritrasmette. Esautora il Parlamento nel 2017. Nomina i giudici della Corte Suprema che lavorano al suo servizio. Sopravvive a un tentativo di omicidio. Minacciato dagli Usa, si lega sempre di più alla Russia con accordi militari e ai generosi prestiti della Cina. Apre alla Turchia e all’Iran. Oltre all’esercito, gli protegge le spalle la moglie Cilia Flores, avvocato penalista, parlamentare, sospettata a suo tempo di narcotraffico, titolare di molto potere, dura di carattere: “Cilia ti ama o ti odia, non fa negoziati”.
Per tre elezioni di seguito, la coppia presidenziale resiste a forza
di brogli. Al suo primo mandato, Trump prova a buttare Maduro giù dalla torre, appoggiando il giovano deputato liberal Juan Guaidó che il 23 gennaio 2019 si autoproclama presidente. Tranne l’Italia che nicchia, lo sostengono apertamente l’Europa, gran parte dell’Occidente e del Sud America. Maduro reagisce: “Non torneremo al Ventesimo secolo dei gringos e dei colpi di Stato. Io sono il solo presidente legittimo”.
È sempre più vero il contrario, visto che all’ultimo giro elettorale, luglio 2024, ha oscurato i risultati, limitandosi a dichiarare di aver vinto.
Sparito Guaidó, Trump ci ha appena riprovato con Maria Corina Machado, esponente dell’ultra-destra, che vive clandestina, minacciata da Maduro, protetta dalla Cia. Anche lei si prepara alla guerra, questa volta innalzando il premio Nobel per la Pace che ha appena incassato, grazie a uno di quei giochi di prestigio di cui si nutre la geopolitica. E promette: “La transizione è già iniziata”. Armi, finzioni e propaganda stanno apparecchiando la tavola dell’ultima cena. Il destino del Venezuela è di nuovo in gioco e non sarà Maduro a giocare.
(da Il Fatto Quotidiano)

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NESSUN GRADO DI SEPARAZIONE TRA POTERE ECONOMICO E POLITICA

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

IN AMERICA (E NON SOLO) I RICCHI GESTISCONO LA POLITICA E I POVERI APPLAUDONO PURE, CON LE PEZZE AL CULO E LE BENDE SUGLI OCCHI: E’ IL SOVRANISMO, BABY

Nella speranza di emanciparmi dalla mia ignoranza finanziaria, leggo la newsletter di Walter Galbiati su Repubblica online, nella quale, tra le altre cose, si spiegano con chiarezza le oscure dinamiche di bitcoin, stablecoin, criptovalute e altre diavolerie dell’evo digitale. Capisco circa la metà di quanto leggo, e sia chiaro che la metà che capisco è merito di Galbiati, la metà che non capisco è mio demerito.
Due cose mi sbalordiscono — ed è lo sbalordimento tipico dell’uomo del Novecento di fronte al mutare dei tempi. La prima è che è sempre più difficile trovare il nesso tra l’economia reale (il lavoro umano, la produzione e il consumo di beni, la ricaduta della fatica e dell’ingegno sul benessere privato e pubblico) e quella finanziaria. Un nesso residuo ci sarà pure: ma i gradi di separazione sono molteplici.
La seconda, per me ancora più sbalorditiva, è che tra potere politico e potere economico non esiste quasi più distanza. Nessun grado di separazione.
Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, e Steve Witkoff, plenipotenziario della Casa Bianca per i negoziati in Medio Oriente e Ucraina, sono tra gli attori principali della scena finanziaria, in specie della valuta digitale (avrò detto giusto?) stablecoin. Che ogni loro atto pubblico sia sospettabile di interessi privati non è nemmeno un sospetto: è una certezza.
In America i ricchi, forse perché non si fidavano più dei politici, hanno preso direttamente in mano le redini del Paese. Moltitudini di poveri applaudono. Con le pezze al culo e le bende sugli occhi: è il populismo, baby.
(da Repubblica)

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PER BLOCCARE LA LEGGE DEL CONSENSO SALVINI USA SOLO SCUSE

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

E’ LA RESISTENZA DI UN POTERE MASCHILE CHE VEDE MINACCIATO UN ORDINE ANTICO

Il disegno di legge sul consenso ieri è stato bloccato. E non da qualche estremista improvvisato, ma dal cuore del potere maschile italiano: il Senato. Un luogo ancora oggi composto in larga parte da uomini sopra i quarant’anni, che hanno fatto ciò che fanno sempre quando un cambiamento culturale sfiora il loro perimetro: hanno tirato il freno. Un dato, questo sì politico: ogni volta che si tenta di spostare anche di un millimetro il baricentro del patriarcato, gli ingranaggi istituzionali rallentano, inceppano, resistono.
La spiegazione arriva oggi da Matteo Salvini, che garantisce di voler “fermare gli intollerabili episodi di violenza”, però (c’è sempre un però), bisogna “limitare la discrezionalità” e “proteggere uomini e donne da chi si vuole vendicare di un rapporto finito male”.
È una frase che andrebbe studiata nei corsi di sociologia del potere: non parla di violenza, ma di paura del cambiamento; non parla di consenso ma di controllo. E soprattutto sposta il centro del discorso dalla protezione delle vittime… alla protezione degli imputati.
La verità è che il nodo non è il diritto penale. È la perdita di sovranità su un territorio che per secoli è stato considerato a libero uso: il corpo femminile.
Il corpo delle donne non è ancora riconosciuto come soggetto politico: è un campo semantico da interpretare, un terreno dove gli uomini esercitano autorità linguistica prima ancora che fisica. Sono loro a decidere cos’è stupro, cos’è eccesso di zelo, cos’è leggerezza, cos’è malizia, cos’è “vendetta”. Il corpo femminile rimane una competenza maschile, non un soggetto, ma un oggetto di normazione.
La richiesta di inserire il consenso come criterio giuridico chiaro sposta questo centro. Lo sposta radicalmente: dice che il desiderio delle donne ha valore legale, che l’autonomia delle donne produce norme, che il limite delle donne diventa un limite dello Stato. Ed è questo che fa paura. Non le false accuse, che sono lo 0,18%. Non il fatto che una donna possa dire “no” perché dorme, perché è ubriaca, perché è paralizzata dalla paura, o semplicemente perché cambia idea, o perché sa che opporsi peggiorerà tutto. Fa paura la fine dell’arbitrio: dover chiedere. Dover attendere, rispettare, invece che prendere come
proprietari. Fa paura che il consenso non sia più una formalità etica, ma una cornice politica: un dispositivo che obbliga gli uomini a interrogare i propri privilegi, decostruire la propria postura nella relazione, ripensare la genealogia culturale del proprio desiderio. Un dispositivo che incrina non solo la violenza, ma la gerarchia.
Per questo, al Senato, il ddl si ferma.
Perché il punto non è la legge. Il punto è che per la prima volta la società chiede agli uomini di fare ciò che alle donne viene imposto da secoli: mettersi in discussione. Non per cavalleria, ma per democrazia.
E se questa frase non basta, allora basta la storia: le donne si sono messe in discussione quando hanno lottato per votare; quando hanno rivendicato il diritto di studiare, di entrare nelle università, nelle professioni, nei luoghi da cui erano escluse; quando hanno smontato stereotipi, abitudini, gerarchie che le definivano “adatte” solo a certi ruoli; quando hanno preteso di non essere licenziate perché incinte; quando hanno rivendicato il diritto a dire no al proprio marito; quando hanno chiesto l’aborto libero e sicuro; quando hanno preteso il divorzio; quando hanno lottato per la libertà di scegliere se avere o non avere figli;
quando hanno inventato i consultori, i centri antiviolenza, il lessico per nominare ciò che subivano; quando hanno dovuto lottare per dimostrare di meritare ciò che agli uomini era garantito per default; quando hanno dovuto raccontare, spiegare, giustificare, educare, tradurre la violenza perché non veniva creduta; quando hanno dovuto decostruire ogni stereotipo cucito addosso, e rifare da zero l’alfabeto della libertà. Da oltre un secolo, le donne fanno il lavoro culturale che agli uomini oggi appare “fastidioso”: interrogarsi, smontarsi, rimettere in ordine il mondo. Ecco perché una legge sul consenso diventa una minaccia simbolica. Perché chiede agli uomini di fare, per la prima volta, un gesto che le donne compiono da generazioni: ridefinire se stessi.
Questo è il nocciolo, quello che non si dice mai ma che attraversa ogni dichiarazione istituzionale: una norma sul consenso è una scomodità, una revisione dello status, un cambio di postura mentale prima ancora che sessuale. Una norma che mina un ordine simbolico in cui il desiderio maschile è stato considerato un diritto, e quello femminile un dettaglio.
(da Fanpage)

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“VENGO SOLO SE C’E’ UN CONFRONTO CON LEI”

Novembre 27th, 2025 Riccardo Fucile

ELLY SCHLEIN ACCETTA L’INVITO E PONE UNA CONDIZIONE: “DESIDERO UN FACCIA A FACCIA PUBBLICO”

«Vengo solo se posso confrontarmi con Giorgia Meloni» ha risposto Elly Schlein al nuovo invito ad Atreju da parte di Fratelli d’Italia. La segretaria del Pd è stata raggiunta da una telefonata oggi pomeriggio, come rivelano il Corriere della Sera e l’Ansa.
Schlein è stata invitata per la seconda volta alla storica manifestazione del partito della premier. Lo scorso anno la segretaria dem non aveva accettato.
La condizione di Schlein al telefono con Donzelli
A chiamare Schlein sarebbe stato il capo dell’organizzazione di FdI, Giovanni Donzelli. A lui la segretaria Pd avrebbe posto come unica condizione la possibilità di un faccia a faccia pubblico con la premier. Contattato dal Corriere, Donzelli non ha
smentito ma neanche confermato: «Come è noto, non parlo degli inviti ad Atreju»
Quando ci sarà il prossimo Atreju
Il prossimo appuntamento con Atrejiu è previsto dal 6 al 14 dicembre a Castel Sant’Angelo. La trattativa perché la leader del Pd accetti l’invito sarebbe appena iniziata. Finora lei e Meloni non si sono mai confrontate in un dibattito pubblico.
Donzelli più tardi è sembrato più aperto all’ipotesi del confronto. Contattato dall’Ansa, il dirigente meloniano ha chiarito: «Se va bene a tutti, visto che stiamo invitando tutti i leader dell’opposizione e hanno già quasi tutti accettato, porterò questa proposta a Giorgia Meloni e deciderà lei”
(da agenzie)

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