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IL VOTO DI SFIDUCIA A SAVERIO ROMANO: “MA COME FA LA LEGA A SALVARE UNO COSI’?”

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

“MARONI NON PUO’ PARLARE DI PETTEGOLEZZI DELLE PROCURE; SE VA A PROCESSO CHE DICIAMO POI ALLA NOSTRA BASE”…LA DENUNCIA DI DARIO FROSCIO, EX PRESIDENTE DI AGEA IN QUOTA LEGA

Dario Fruscio è l’anello mancante.
Quando ci si chiede perchè mai la Lega tra pochi minuti voterà  compatta contro la sfiducia al ministro Saverio Romano bisogna parlare con lui.
Marcato accento calabrese, uomo di comprovata fede leghista da alcuni lustri, Fruscio è nato a Longobardi, ironia della sorte, in provincia di Vibo Valentia, 74 anni fa.
Fino al giugno scorso era presidente di Agea, il cuore economico del ministero dell’Agricoltura. Nominato in quota Carroccio nel 2009, quando a dirigere il ministero c’era Luca Zaia, per assurdo, finisce rinnegato dai suoi sostenitori quando alle Politiche agricole arriva il siciliano Saverio Romano.
Lui non esita a definire il suo commissariamento “un abuso”. “Lo dice il Tar del Lazio, lo dice l’avvocatura dello Stato, lo dice la Corte dei conti…”.
Allora perchè l’hanno cacciata?
Cominciamo dall’inizio. Quando sono arrivato in Agea mi sono trovato praticamente fresca di stampa la legge Zaia che serviva alla “pacificazione” con quel drappello di produttori di latte che avevano sforato le quote e non volevano pagare le multe.
Umberto Bossi gli “splafonatori” li ha sempre protetti
Qui non c’era nessuna possibilità  interpretativa, la norma era perentoria, chiara, precisa: attraverso Equitalia, Agea doveva perseguire l’interesse dell’erario pubblico e riscuotere quelle somme.
E lei così ha fatto?
Ho cercato di dare impulso a certe lentezze in atto, a certe distrazioni…
Il suo dovere…
Sì, ma questo ha creato parecchi problemi alla parte politica che mi aveva portato in Agea
La Lega, appunto
Mi hanno chiesto di moderarmi, di temporeggiare. E io l’ho fatto. L’ho fatto perchè nel frattempo il mio ceto politico di riferimento potesse aiutarmi sul piano legislativo.
Invece?
Mi dicevano “sì, si farà , ora vediamo”. Invece niente. E io non avevo margine dal marcamento della Corte dei Conti. Così ho smesso di temporeggiare.
Le multe agli splafonatori stanno per arrivare, invece arriva prima il nuovo ministro, Saverio Romano che toglie a Equitalia il mandato di riscossione. Dava fastidio anche a lui?
Al ministro interessava mettere le mani su Agea e sulle sue controllate. Io invece ho sempre rivendicato l’autonomia dell’agenzia.
In che modo?
Per prima cosa facendo consigli di amministrazione in autonomia: ho ceduto alla richiesta di inviare in via preventiva al ministro le convocazioni e gli ordini del giorno, ma non ho mai consentito direttive e documenti diretti al cda, nè l’accesso ai consigli delle controllate.
Le è costato caro?
Sicuramente la cosa non è piaciuta . Così hanno capito l’antifona: “Il professor Fruscio ritiene di poter operare in virtù delle norme vigenti e non secondo il criterio di compartecipazione in forza al ministero: commissariamolo!”. E così è stato.
Cosa è cambiato dopo il suo addio?
In Agea ci sono stati subito una serie di movimenti da me mai prediletti, si è messa mano alle controllate, si è nominato personale di provenienza palermitana e siciliana.
Compaesani del ministro.
Di per sè non ci sarebbe nulla di male, ma fino ad allora non c’era mai stata una predominanza territoriale così forte…
In via Bellerio non saranno contenti…
Non lo so, la mia parte politica si è chiusa nel più assoluto silenzio: indice evidente di imbarazzo profondo.
È deluso?
Continuo a tenere nella tasca della mia giacca la tessera della Lega Nord. Spero ancora che il movimento possa tornare a essere quello di un tempo…
Oggi non è più così?
La Lega di oggi è in uno stato di frastornazione totale.
Anche sulla sfiducia al ministro Romano?
Questa è la prima volta dal 1946 che ci troviamo di fronte a una richiesta per sospetta associazione mafiosa. Come può la Lega, nel nome della tenuta del governo, accettare un governo che è tenuto in piedi da un indiziato per mafia? Come può un ministro dell’Interno dire “finiamola con questi pettegolezzi della Procura”? Pettegolezzi? E se il 25 ottobre il tribunale decidesse di accogliere questi pettegolezzi come la mettiamo?
Quel giorno il ministro potrebbe essere rinviato a giudizio.
Ecco, e cosa dirà  la base della Lega a cui abbiamo fatto deglutire tutto e il contrario di tutto?
Lei è stato senatore: oggi in Parlamento voterebbe la sfiducia al ministro?

Voterei sì alla sfiducia: non solo per appartenenza politica al movimento per come l’ho vissuto io. Voterei sì per rispetto etico e morale verso la società  tutta, dal primo all’ultimo dei cittadini.

Paola Zanca
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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L’ULTIMA LITE TRA SILVIO E GIULIO: BRACCIO DI FERRO SU BANKITALIA

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

NO DI TREMONTI ALL’IPOTESI SACCOMANNI, IL MINISTRO VUOLE GRILLI…L’IPOTESI DI UN TERZO CANDIDATO E DI UNO “SCAMBIO” CON IL PREMIER SULLA LINEA DI CRESCITA

Da una parte Giulio Tremonti, sponsor di Grilli, che torna alla carica sull’attuale direttore generale del Tesoro anche durante il colloquio di ieri mattina con il capo dello Stato.
E dall’altra Berlusconi, che non se la sente di rimangiarsi quanto promesso in alcuni colloqui privati e insiste per nominare Saccomanni, cercando così di non attirarsi le ire e il risentimento del futuro presidente della Bce.
Al momento l’esito della partita è incerto e lo dimostrano le due “voci” che iniziano a circolare in serata dopo il faccia a faccia tra il Cavaliere e Tremonti a Palazzo Grazioli.
La prima accredita un “patto” già  siglato tra Berlusconi e il ministro dell’Economia, uno “scambio” per portare il tremontiano Grilli al posto di Draghi in cambio di una maggiore duttilità  del Tesoro sui provvedimenti per stimolare la crescita.
Il ministro dell’Economia avrebbe convinto anche Bossi a dargli manforte, sostenendo il nome di Grilli durante la cena di ieri notte a Palazzo Grazioli.
Ma c’è anche l’ipotesi di un terzo uomo, una candidatura nuova, di mediazione, che Tremonti stesso avrebbe suggerito al premier per uscire dalla guerra senza vincitori nè vinti.
Dunque un governatore diverso dagli attuali contendenti.
Si saprà  forse già  stamattina se e come il braccio di ferro si sarà  risolto.
Alle undici e trenta è prevista infatti la riunione del consiglio superiore della Banca che deve dare un parere sul candidato: la riunione è convocata in seduta ordinaria, ma se Berlusconi dovesse indicare, come vuole la legge, il nome del nuovo governatore – il decimo della serie – i consiglieri di Palazzo Koch sono già  pronti a riconvocarsi mezzora più tardi, in via “straordinaria”, quella valida per le scelte di vertice.
Sei anni fa, d’altra parte, il sottosegretario Gianni Letta portò a mano – e all’ultimo minuto – l’indicazione di Draghi.
In ogni caso le due ore di confronto tra Berlusconi e Tremonti a Palazzo Grazioli si svolgono in un clima molto teso.
L’incipit è amaro: un sorriso di circostanza e un lungo elenco di recriminazioni.
“Perchè Milanese – attacca il Cavaliere – l’abbiamo dovuto salvare noi dai magistrati. Lui c’è rimasto malissimo, è venuto a sfogarsi da me. Con un tuo uomo che rischiava di passare la notte in galera per lo meno avresti dovuto fare un atto di presenza”.
Tremonti non risponde, incassa in silenzio e annota. “Perchè non puoi fare sempre il numero uno – insiste il premier – mentre agli altri ministri riservi solo la facoltà  di acconsentire. Tu fai il fenomeno e quelli, a ragione, vengono da me a lamentarsi tutti i giorni. Basta, non puoi essere un corpo estraneo al governo, ci devi aiutare”.
Lo sfogo del capo del governo dura a lungo e tocca tutti i capitoli della querelle di queste settimane contro Tremonti: la mancata “collegialità ” nella stesura della manovra, il parlare male del premier in giro per il mondo, i contrasti sulle singole misure, fino allo strappo che, agli occhi del Cavaliere, è stato il più difficile da digerire, ovvero l’assenza “umanamente incomprensibile” del ministro dell’Economia per il voto sull’arresto di Milanese.
Accuse a cui Tremonti, dopo aver ascoltato, ribatte punto per punto.
A partire proprio da quel contestato viaggio all’estero nel Milanese-day, “perchè a Washington ci sono andato a rappresentare il tuo governo al G20, non per turismo”.
Anche “Giulio” ha poi le sue lamentele da esporre, perchè in questi giorni “mi avete messo in croce in ogni modo”.
E parte il puntuale elenco degli attacchi dei vari Crosetto, della Santanchè, di Stracquadanio, di Martino, di Galan, del Giornale, di mille altri uomini del Pdl dietro i quali, per il ministro dell’Economia, altri non c’era che lo stesso Berlusconi.
E tuttavia, se pure il rapporto umano ormai è lacerato e tra i due la fiducia sia una parola senza più significato, la reciproca debolezza impone una tregua.
Tregua armata, ma Gianni Letta ci ha lavorato da tempo e sarà  proprio il sottosegretario a farsene garante.
Morta prima di nascere la “cabina di regia” pensata per imbrigliare Tremonti, finita in una vaga promessa di “collaborazione diretta” tra ministero dell’Economia e Palazzo Chigi la richiesta di collegialità , quel che resta del giorno è dunque solo un ruolo di Letta come supervisore.

(da “La Repubblica“)

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BERLUSCONI ATTACCATO ALLA POLTRONA, MA NAPOLITANO PUO’ MANDARLO A CASA

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

COME USCIRE DALL’IMPASSE E DAL DISCREDITO INTERNAZIONALE… COSA RECITA LA COSTITUZIONE NEL MERITO

L’articolo 88 della Costituzione recita: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere”.
La Carta non pone alcun limite a questa facoltà  del capo dello Stato salvo l’obbligo di sentire il parere, peraltro non vincolante, dei presidenti dei due rami del Parlamento e che non può esercitarla “negli ultimi sei mesi del suo mandato”.
Il fatto che la Costituzione dedichi un preciso articolo sui 17 che lo riguardano, a questa facoltà  del presidente della Repubblica, senza accompagnarla con alcuna specificazione, indica che i nostri Padri fondatori non la consideravano, come altre, puramente ornamentale, ma un potere concreto e fondamentale della massima carica dello Stato che la può esercitare in piena libertà  quando a suo giudizio ne ricorrano le condizioni.
L’articolo 88 fa quindi piazza pulita delle talmudiche asserzioni degli esponenti del centrodestra che a ogni piè sospinto, di fronte alle reiterate richieste di dimissioni del presidente del Consiglio, che provengono da varie parti e non solo dalle opposizioni, strillano che “nessuno può mandare a casa un governo che ha la maggioranza in Parlamento ed è stato voluto dal popolo sovrano” . Qualcuno c’è: è il capo dello Stato.
Naturalmente, a lume di logica, e non perchè la Costituzione gli ponga alcun limite, il presidente della Repubblica eserciterà  questa sua peculiarissima facoltà  in casi eccezionali e di fronte a situazioni di emergenza.
I costituzionalisti si sono esercitati e sbizzarriti, nell’elencare una serie di situazioni che costituirebbero un valido motivo per lo scioglimento anticipato delle Camere.
Ne citiamo due che sembrano tagliati su misura per il caso nostro.
1) “L’emergere di nuove questioni fondamentali su cui i candidati non avevano preso posizione al momento della campagna elettorale e che gli stessi elettori non potevano aver preso in considerazione al momento del voto”.
Nel 2008, quando fu eletto il terzo governo Berlusconi, non esisteva il rischio di default dell’Italia.
2) “Se sussiste un tentativo di sovvertimento legale della Costituzione”.
Sono diciassette anni che Berlusconi sovverte, fra gli altri, uno degli articoli-cardine della Costituzione, l’articolo 3 che sancisce il principio basilare dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Ma non voglio girare intorno ai pareri dei costituzionalisti.
Se c’è un momento per un capo dello Stato, di esercitare la facoltà  di sciogliere anticipatamente le Camere e mandare a nuove elezioni, è questo.
L’Italia vive una situazione economica gravissima di fronte alla quale c’è un governo indeciso a tutto che ha dovuto cambiare cinque volte la legge finanziaria.
È più vicina alla Grecia che alla Spagna.
Ma più del governo, dove ci sono anche ottimi ministri, il problema è proprio lui: Silvio Berlusconi.
Con i suoi comportamenti, pubblici e privati, agiti anche all’estero, ci ha ridicolizzato di fronte all’opinione pubblica internazionale e ci ha tolto credibilità  proprio nel momento in cui ne avremmo più bisogno.
L’ “Express” in una sua copertina lo ha definito “il buffone d’Europa”.
Ma critiche feroci e sbeffeggianti sono state mosse al premier italiano da vari giornali europei (inglesi, tedeschi, spagnoli e persino bulgari), americani, giapponesi, molto spesso di ispirazione liberale.
Recentemente il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, si è detta stufa di vedere l’Italia considerata “uno zimbello”.
Ma, soprattutto, Berlusconi è stato ed è un autocrate alla Putin che per diciassette anni, sotto mentite spoglie di democrazia, ha lato leggi, massacrato tutti i principi dello Stato liberale e democratico, promosso le sue favorite in Parlamento e nelle Istituzioni grazie al potere del suo denaro e avendo, per sopramercato, un’origine politica illegittima a causa di un colossale conflitto d’interessi mai risolto.
Oggi ha una maggioranza, in parte prezzolata, in Parlamento, ma quasi tutto il Paese contro: al di là  delle opposizioni politiche, la società  civile, la Confindustria, la Chiesa, i leghisti di base non lo possono più sopportare.
Ma lui suona il suo solito refrain: “Non mollo”.
Invece è necessario liberarsene al più presto prima che il Paese precipiti nella catastrofe.
Solo il presidente della Repubblica può farlo.
Certo ci vuole del coraggio per mandare a casa un presidente del Consiglio in carica.
Giorgio Napolitano è sempre stato un uomo in grigio, un politico mediocre di cui, prima che salisse al Colle, non si ricordava un discorso significativo, un atto di qualche valore, ma solo l’imbarazzante somiglianza con il re Umberto.
E anche adesso si segnala solo per la sua inerzia, per moniti omnicomprensivi che, in quanto tali, non vogliono dire nulla.
Giorgio Napolitano ha 85 anni.
Trovi, per la prima volta nella sua lunga vita, il coraggio di fare un atto di coraggio.

Massimo Fini
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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L’AGENZIA S & P DECLASSA UNDICI ENTI LOCALI: ORA INDEBITARSI COSTERA’ DI PIU’

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

INSORGONO SINDACI E GOVERNATORI: “COLPA DELLA MANOVRA”… NEL MIRINO I COMUNI DI GENOVA, BOLOGNA E MILANO, LA PROVINCIA DI ROMA, LE REGIONI SICILIA, EMILIA, LIGURIA… PESANO I TAGLI E LA MANCANZA DI CERTEZZE SULLE ENTRATE DEL FEDERALISMO

Dopo il giudizio negativo espresso sul debito pubblico dell’Italia e su sette delle sue banche ora è il momento degli enti locali.
La mannaia di Standard and Poor’s questa volta si è abbattuta su Comuni, Province e Regioni.
Undici enti, ieri sbalzati un gradino più sotto di quello sul quale fino ad ora poggiavano.
La loro affidabilità  creditizia, secondo l’agenzia, è passata da A+ ad A; il loro outlook (le previsioni sul futuro) è considerato negativo.
Si tratta delle Province di Roma e Mantova, delle Regioni Sicilia, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Umbria e Marche e dei Comuni di Genova, Bologna e Milano.
Anche per la città  di Torino è stato rivisto – da stabile a negativo – l’outlook, ma per i debiti a lungo termine è stata riconfermata la A.
Rating di lungo termine in discesa e outlook negativo riconfermato pure sui bond emessi dall’Umbria (con scadenza 2017, 2018 e 2019), dalle Marche (scadenza 2018) e per i titoli della Sicilia con scadenza 2016
In molti casi sembrerebbe trattarsi di enti «insospettabili», considerabili finanziariamente più solidi rispetto a molti altri.
Ma il ragionamento che fanno le agenzie di rating si può riassumere nel detto «chi meglio sta più rischia».
In un quadro come quello attuale – visto il Paese sotto schiaffo – sono infatti considerati più in pericolo gli enti locali che fino ad oggi avevano avuto i giudizi migliori.
La lettura è legata a due motivi: il primo è che le agenzie – anche se non c’è una legge scritta – ritengono che Comuni, Regioni, Province non possano avere «voti» più alti rispetto a quelli che loro stesse hanno assegnato al debito pubblico dello Stato cui appartengono.
Il secondo è che – visti i nuovi tagli inseriti in manovra e la mancanza di certezza sulle entrate del federalismo – la dipendenza degli enti dai trasferimenti dello Stato aumenta.
Per chi stava messo male la situazione cambia poco, ma per gli altri l’allarme un tempo lontano ora si fa sentire.
Il fatto è che il declassamento delle emissioni obbligazionarie degli enti potrebbe tradursi in un aumento della spesa per interessi.
Conseguenza molto sgradita e, a detta di tutti gli enti, dovuta a esclusivamente a cause «estranee» alla loro gestione.
«Purtroppo paghiamo la situazione del paese» ha commentato Claudio Burlando, presidente della Liguria, riassumendo lo stato d’animo di tutti i sindaci e presidenti coinvolti.
L’abbassamento del rating, in realtà , non è un fulmine arrivato a ciel sereno.
Solo pochi giorni fa Moody’s, l’altra delle tre agenzie (c’è anche Fitch) che dettano legge sui giudizi di affidabilità , aveva avvertito che le manovre estive del governo «appesantivano ulteriormente» i conti di Comuni, Regioni e Province considerati «già  allo stremo».
I 7 miliardi di budget tagliati fra 2011 e 2012 e l’anticipo al 2013 per il pareggio di bilancio non potevano che rendere le cose ancora più difficili, quindi – aveva lasciato intendere l’agenzia americana – un ritocco verso il basso era più che probabile.
Ma il declassamento ora renderà  ancora più tesi i rapporti fra enti e Stato centrale. Osvaldo Napoli, presidente facente funzioni dell’Anci, avverte: l’abbassamento del rating avrà  come inevitabile corollario l’aumento delle tasse che i cittadini saranno chiamati a pagare per gli interessi sul debito dei Comuni.
«Un aumento che non è imputabile in alcun modo agli amministratori locali – precisa Napoli – bensì a scelte prese a livello nazionale».
Bruno Tabacci, assessore al Bilancio di Milano precisa che «non ci dovrebbero essere conseguenze per i mutui già  in contratto», ma che ci sarà  un maggiore peso per le casse del comune nel caso se ne sottoscrivessero di nuovi.
«Visto però che anche le banche italiane sono state di recente declassate, il differenziale non muta».

Luisa Grion
(da “La Repubblica“)

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INTERCETTAZIONI: IL PREMIER VUOLE IL BLACKOUT

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

IL PDL TORNA AL TESTO MASTELLA: BAVAGLIO FINO ALL’APPELLO… VOTAZIONI IN AULA TRA UNA SETTIMANA

È l’ultima novità . L’ennesimo diktat di Berlusconi. Il ritorno alla legge Mastella sulle intercettazioni.
Se dovesse passare, sui giornali non usciranno più, addirittura fino alla sentenza d’appello, gli atti integrali contenuti nel fascicolo del pubblico ministero.
«Siamo in uno stato di polizia» dice lui.
Il presidente dell’Anm Palamara gli ribatte che «non è vero». Ma il premier agisce di conseguenza.
Tenta un compromesso, pm sempre liberi di mettere microspie per i reati oltre i cinque anni di pena, ma ascolti blindati.
Niente telefonate pubblicate, neppure il loro contenuto, nè verbali d’interrogatorio (quelli solo raccontanti per riassunto), nè relazioni e accertamenti della polizia.
Black out.
Con una legge così, per limitarci alle cronache giudiziarie di questa fine estate, non avremmo letto una riga delle intercettazioni tra Tarantini e Lavitola, nè quelle tra Lavitola e Berlusconi, tutte nell’indagine di Napoli, nè quelle del 2008 tra Tarantini e il premier contenute nell’ordinanza che chiude a Bari l’indagine sulle escort.
Niente «Italia paese di merda» (detto da Silvio), niente «la patonza deve girare» (ancora Silvio), niente «resta dove sei» (sempre Silvio a Lavitola)
Il Cavaliere, su input del suo avvocato Ghedini, l’aveva già  proposto all’inizio di luglio. Adesso ci riprova.
Vuole tornare al testo della legge Mastella sul bavaglio alla stampa.
Proprio quella votata all’unanimità , solo sette astenuti, il 17 aprile 2007.
Un colpo di teatro. Che il Cavaliere ripropone come soluzione in queste ore e motiva così: «Voglio proprio vedere se quelli della sinistra smentiscono se stessi e ora mi dicono di no. Se lo fanno vorrà  dire che vogliono vedere pubblicate le mie intercettazioni sui giornali e vogliono fare con quelle la lotta politica».
L’intenzione sarà  ufficializzata mercoledì quando, a Montecitorio, è previsto un vertice del Pdl per decidere come andare in aula la prossima settimana.
«Pochissime modifiche e avanti in fretta» dicono i bene informati.
L’ostacolo non è certo la norma sui blog – obbligo di rettifica entro 48 ore, fino a 12mila euro di multa – che, giurano sempre le stesse fonti, «si può ben addolcire».
Il punto fondamentale è bloccare l’uscita delle telefonate registrate.
La norma Mastella fa proprio al caso di Berlusconi.
Visto che è ben più severa di quella che sta alla Camera, il famoso ddl Alfano, frutto del compromesso di un anno fa tra Berlusconi, Fini e la Bongiorno.
Lì si dà  grande spazio all’udienza-filtro, quella in cui magistrati e avvocati decidono quali intercettazioni rilevanti devono finire nel fascicolo del processo e, di conseguenza, possono essere pubblicate.
Nella Mastella invece il meccanismo è rigido ed esclude qualsiasi margine per pubblicare le carte giudiziarie.
Il premier e i suoi avvocati temono che l’udienza-filtro si risolva in una trappola, in cui si verifica comunque una discovery degli ascolti che possono poi trapelare sulla stampa.
Mentre la piazza già  si mobilità , giovedì 29 la prima protesta contro la legge bavaglio, alla Camera il Pdl può contare su un’altra settimana.
Troppo affollato il calendario di questa, si rinvia alla prossima. In cui si passerà  subito agli emendamenti, visto che la discussione generale s’è fatta un anno fa.
Lo scontro è assicurato.
Sul bavaglio e sulle sanzioni, ma anche su una legge che per i magistrati limita e danneggia le indagini.
Il Pdl è pronto allo scambio. Se il Pd vota la stretta alle pubblicazioni della Mastella, non ci sarà  il carcere per i giornalisti, ma solo multe da 10 a 100mila euro.
Salvi gli editori.
Sarà  scontro perchè il Pd, a luglio, ha già  detto che la Mastella non è la base di un possibile compromesso.
Sull’ammazza-blog, criticata dal ministro Giorgia Meloni («Errore da modificare»), c’è già  la promessa di un emendamento del Pdl Roberto Cassinelli.
Anche qui un compromesso: sanzioni ridotte, la chiosa per la rettifica «quando tecnicamente possibile», da 48 ore a dieci giorni di tempo per farla.
Lo scontro in aula dalla prossima settimana.

Liana Milella
(da “La Repubblica“)

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IL BRACCIO DESTRO DI CIANCIMINO: “DIEDI A SAVERIO ROMANO 50.000 EURO”

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

LA CONFESSIONE   DEL TRIBUTARISTA GIANNI LAPIS AI MAGISTRATI DI PALERMO, SOLDI ANCHE A CUFFARO…LA PROCURA HA CHIESTO DI POTER UTILIZZARE LE INTERCETTAZIONI CHE RIGUARDANO IL MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E CHE RISALGONO AL 2004

Ha parlato per difendersi: “Io non davo mazzette, finanziavo tanti gruppi politici. Quando reputavo una persona corretta gli sono stato sempre vicino, non mi costava nulla”.
Ma ha finito per accusare: “Nel 2004, ho consegnato 50 mila euro in contanti a Totò Cuffaro e 50.000 a Saverio Romano”.
Questo ha confessato il prestanome dei Ciancimino, il tributarista Gianni Lapis, ai magistrati della Procura di Palermo.
E così anche il verbale delle sue dichiarazioni è stato inviato al gip Piergiorgio Morosini, chiamato a decidere sulla sorte della seconda inchiesta che vede indagato il ministro dell’Agricoltura: non c’è infatti solo l’indagine per mafia a impegnare i legali di Romano, ma anche un’inchiesta per corruzione, assieme a Lapis, Cuffaro, Ciancimino e al senatore Carlo Vizzini.
La Procura ha chiesto di poter utilizzare le intercettazioni in cui Lapis parla con Romano e Vizzini, che risalgono al 2003-2004: il 3 ottobre, il gip dovrà  valutare se inviarle alla Camera e al Senato, per il via libera finale.
Fino a qualche mese fa, c’erano solo le parole di Massimo Ciancimino a sostegno delle accuse di corruzione nei confronti dei politici: “Nel 2004 – ha raccontato il figlio dell’ex sindaco – portai a Lapis 500.000 euro in contanti, all’hotel Borgognoni, a Roma. Mi disse che la somma doveva essere destinata ad alcuni politici locali”.
Ma gli indagati hanno smentito categoricamente.
Il ministro Romano ha aggiunto: “Mai preso neanche un caffè con Ciancimino. E Lapis era solo uno stimato docente universitario, consulente dell’Ircac, di cui diventai poi presidente. Mi avrà  cercato una sola volta, per parlare di riforma fiscale”.
Ma, adesso, è Lapis che parla dei “finanziamenti” ai politici.
E diventa lui il grande accusatore, anche se non ha mai avuto simpatia per i pm di Palermo, che già  nel 2007 l’hanno fatto condannare con l’accusa di essere il principale prestanome del tesoro dei Ciancimino.
In realtà , davanti ai sostituti Nino Di Matteo, Sergio Demontis, Paolo Guido e al procuratore aggiunto Antonio Ingroia, Lapis puntava solo a scrollarsi di dosso l’accusa lanciatagli da Ciancimino junior, di essere stato il grande corruttore della politica siciliana.
Quando i pm gli hanno chiesto di fare i nomi dei suoi “beneficiati” ha detto: “L’ho fatto con tanti altri gruppi politici, non solo con l’Udc.
Inutile che vi faccia i nomi, sono persone corrette”.
I pm hanno insistito: “Allora perchè parla degli esponenti Udc? Non li ritiene corretti?”.
La risposta è stata sibillina: “Ma questi finanziamenti voi me li contestate, ho l’obbligo di dirvi che non c’è nulla di male”.
I pm ritengono invece che quei soldi fossero mazzette legate agli appalti della società  Gas, il gioiello di famiglia dei Ciancimino venduto fra il 2003 e il 2004 agli spagnoli della Gas natural.
Lapis continua a parlare di “finanziamenti”, ma conferma che i soldi arrivavano dal maxi affare.
“Avevo fatto delle promesse nel 2001”, dice ai pm: “Nel 2004, Salvatore Cintola (deputato Udc – ndr) mi disse: “Sei pronto a pagare?”.
Lapis parla di una missione serale nella casa palermitana di Cuffaro. “Credo di esserci andato con Romano, ma non vorrei dire una fesseria, non me lo ricordo”, precisa.
“Ero sicuramente con un’altra persona, non so se era Romano o Cintola, uno dei due era sicuramente”.
I magistrati hanno chiesto a Lapis più chiarezza su Romano.
Lui ha continuato a essere vago: sostiene di non ricordare se il “finanziamento” all’attuale ministro avvenne “la stessa sera di Cuffaro”.
Poi, dice: “Comunque, un giorno prima, un giorno dopo”.
Sulla somma, invece, Lapis non alcun dubbio: “50.000 a Cuffaro e 50.000 a Romano”.

Salvo Palazzolo
(da “La Repubblica”)

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PICCOLE ADRO CRESCONO: IL SOLE DELLE ALPI SI DIFFONDE NEI COMUNI A GUIDA LEGHISTA

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

IL SIMBOLO TAROCCO PADANO PROPOSTO IN TUTTE LE SALSE: SULLE ROTONDE, NELLE PIAZZE, NEGLI EDIFICI COMUNALI E IN FORMATO DIGITALE SUI SITI INTERNET

In principio c’era Alberto da Giussano, con il suo spadone e la forma slanciata.
Sul finire degli anni novanta è sorto il Sole delle Alpi.
Un simbolo riconoscibile, riproducibile e semplice: il marchio perfetto. Talmente perfetto che la Lega Nord lo ha registrato, iniziando fin dai primi tempi a propinarlo anche al di fuori delle schede elettorali, e cercando di farlo passare per un simbolo mutuato dalla tradizione e dalla storia locale.
La gente del nord, ben prima di Oscar Lancini e del caso limite della scuola di Adro, se lo è trovato riprodotto sulle rotonde, nelle piazze, negli edifici comunali e persino in formato digitale sui siti internet istituzionali.
Il Sole delle Alpi è stato realizzato sotto forma di mosaico o bassorilievo.
È stato disegnato, dipinto e ricamato.
Qualcuno lo ha imposto anche come ornamento floreale, senza dimenticare gli immancabili e onnipresenti adesivi.
Insomma, il sole padano è stato proposto in tutte le salse e, comune più comune meno, ovunque la Lega abbia messo piede è arrivato qualche riflesso di questo strano bagliore verde.
Tanti i casi passati agli onori delle cronache.
Negli anni scorsi a Cividate al Piano (Bergamo) sulla pavimentazione della piazza è stato realizzato un mosaico in ciottoli.
Nel 2009 seicento cittadini avevano chiesto al sindaco Luciano Vescovi di rimuovere la decorazione politica, presentando un esposto in Procura.
Oggi su questo caso pende un’indagine della magistratura tesa a stabilire se vi sia stato sperpero di danaro pubblico.
A Drezzo (Como) il Sole delle Alpi è comparso in due punti della piazza principale (intitolata a Gianfranco Miglio): sulla recinzione in ferro di un monumento ai caduti (con grande sdegno dell’associazione combattenti e reduci) e sulla recinzione dei giardinetti accanto al municipio.
La storia del sole di Carrù, in provincia di Cuneo, è più complessa.
Posizionato per la prima volta nel 2002 ai piedi del monumento al bue, era stato rimosso nel 2009, salvo poi essere riposizionato dopo varie polemiche alla fine del 2010.
Anche su questo simbolo era stata chiamata ad esprimersi la magistratura, che aveva stabilito che il sole poteva rimanere sul suolo pubblico in quanto “storicamente già  utilizzato da egizi e celti”.
Ad Acqui Terme (Alessandria), tra le prime città  piemontesi a poter vantare un sindaco leghista, il sole è stato impresso sulla pavimentazione della piazza-anfiteatro della città  sul finire degli anni novanta.
Sulla targa del teatro intitolato a Giuseppe Verdi, oltre al nome del compositore, a quello della città  e alla data dell’inaugurazione (12 agosto 1998), compare anche la scritta “Padania”.
A Vimodrone (Milano) un gigantesco sole era stato voluto nel 2000 dall’allora sindaco leghista Domenico Galluzzo per ornare la nuova biblioteca.
Dal 2002, quando l’amministrazione ha cambiato colore, è finito sotto ad un enorme zerbino.
A Calcinato, in provincia di Brescia c’è “via Sole delle Alpi”, che non è un’esortazione, ma un toponimo, voluto dal sindaco Marika Legati, che l’ha spiegato così: “La scelta è stata quella di dedicare questa via a un movimento politico significativo della storia istituzionale del nostro paese. Ci è sembrato importante fare memoria di un passaggio politico importante, oltre che di un simbolo iconografico che fa parte della tradizione”.
A Garlate, in provincia di Lecco, il sindaco leghista Maria Tammi nel 2008 aveva fatto inserire il Sole delle Alpi nel disegno della nuova pavimentazione in acciottolato del cortile del municipio.
A Mandello, sempre in provincia di Lecco, il sole di pietra accoglie tutti i cittadini che entrano in Comune, dove sono stati apposti dall’ex sindaco Giorgio Siani.
Gli esempi si sprecano anche in provincia di Varese, terra della Lega per eccezione.
Il caso più famoso è quello della rotonda di Buguggiate dove, oltre al simbolo leghista, campeggiano da qualche anno una serie sagome che raffigurano i leader del Carroccio intenti a pedalare.
Un omaggio (considerato da molti di pessimo gusto) alla Lega e ai mondiali di ciclismo che si sono svolti a Varese nel 2008.
Ma non mancano altri esempi lampanti: a Castronno il Sole delle Alpi è stato marchiato nel cemento del sottopasso ferroviario ristrutturato nel 2010 dalla giunta guidata dal leghista Luciano Grandi.
A Lonate Ceppino il simbolo verde campeggia su una vetrata, donata al comune nei primi anni del decennio scorso e installata proprio accanto alla sala consiliare.
Nella vicina Tradate i piccoli raggi fanno capolino dalle decorazioni di una rotatoria, all’ingresso della città .
Anche in questo caso le impronte leghiste vanno oltre il marchio lasciato sulla rotonda. Diverse le vie della città  che portano nomi inequivocabilmente legati al partito, da via Padania a via Lega Lombarda, per arrivare, anche qui, a via Gianfranco Milglio. Imperdibile poi la poltrona verde con il simbolo ricamato sullo schienale che campeggia nell’ufficio del sindaco Stefano Candiani accanto alle riproduzioni in scala della statua di Alberto da Giussano.
A San Martino di Lupari (Padova) il sindaco Gerry Boratto quando è stato eletto nel 2009, non ci ha pensato due volte a mettere mano al sito internet istituzionale, inserendo l’effige leghista assieme al leone di San Marco come ornamento grafico di alcune pagine virtuali.
Una carrellata che potrebbe continuare ancora a lungo, prendendo in considerazione casi più o meno eclatanti.
Tra soli verdi e altre trovate leghiste.
Nel silenzio complice delle istituzioni italiane.

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CHE VERGOGNA ESSERE ITALIANI A LONDRA

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

IMBARAZZATI A RIVELARE LA LORO PROVENIENZA ALLA LONDON SCHOOL OF ECONOMICS

Un dedalo di strade nel cuore di Londra, a due minuti dalle rive del Tamigi e alle spalle della City finanziaria.
Mette quasi soggezione addentrarsi tra le architetture severe della London School of Economics, cittadella del sapere a fianco di quella delle banche, ateneo da dove sono passati politici, capi di stato e premi Nobel. In questi spazi solenni dedicati alla critica e alla riflessione, sotto il motto virgiliano Rerum cognoscere causas, sono sempre più numerosi gli studenti italiani.
Abbiamo chiesto ad alcuni di loro cosa pensano delle ultime “performance” di Berlusconi, se devono vergognarsi o sono costretti a subire commenti ironici, da parte dei loro colleghi di corso, magari per il solo fatto di essere rappresentati istituzionalmente dal geniale inventore dei bunga bunga party.
Niccolò Regoli ha 20 anni, e sta iniziando il terzo anno del corso di Geografia ed Economia.
Agli impegni di studio unisce anche il mandato di presidente dell’Italian Society, associazione che organizza conferenze e incontri inevitabilmente rivolti ad osservare cosa accade nel nostro Paese.
Nonostante la giovane età , il toscano Niccolò è in Gran Bretagna già  da diversi anni. “Innanzitutto, osserva con un po’ di cautela, è importante precisare che all’estero sono filtrate principalmente certe notizie e informazioni, ossia quelle più scandalistiche”.
Va bene, ma sono cose che hanno fatto male?
“Nell’ambito universitario in cui vivo, queste notizie non creano disprezzo nei confronti dell’Italia ma piuttosto un senso di curiosità  e perplessità . È sicuramente difficile per noi all’estero spiegare le vicissitudini che affliggono l’Italia senza essere guardati con un’espressione confusa e dubbiosa”.
Più diretto Philippe Bracke, 29 anni, milanese nonostante nome e origini belghe, e ormai all’ultimo anni di dottorato in economia.
Dalle sue parole emerge la vergogna dell’italiano che si sente sotto i riflettori.
“Quando dico di venire dall’Italia, aggiunge sferzante, molto spesso il mio interlocutore replica con la battuta ironica ‘Che personaggio il vostro primo ministro!’.
Io ridacchio, cerco di minimizzare, ma dentro di me so perfettamente che gli scandali che coinvolgono i nostri politici sono incomprensibili agli occhi di chi viene da altre parti del mondo”.
Sullo stesso registro è Luca Faloni, torinese, fresco ex dell’ateneo.
Oggi Luca, 27 anni, un master nel 2007 e uno nel 2010, lavora per la Bain and Company, una società  di consulenza. “All’estero ormai siamo abituati da anni alle continue gaffe, più o meno serie e problemi giudiziari, di Berlusconi”.
Poi ci confida una seconda preoccupazione: “Mi dispiace che oltre al continuo danno all’immagine del Paese e alla reputazione di tutti gli Italiani, nell’ultimo periodo ciò stia avendo ripercussioni notevoli anche per la stabilità  finanziaria del nostro Paese. In questi mesi di turbolenza economica stiamo dando continuamente conferma di avere un governo ed in particolare un premier, incapace di pensare ai problemi seri del Paese. Non a caso i mercati finanziari hanno affossato il nostro mercato e il nostro debito”.
Quindi Berlusconi è un’aggravante per gli italiani d’oltremanica?
“Il mio giudizio su Berlusconi sarebbe lo stesso anche se non fossi all’estero, sia chiaro. Ma vivendo in un paese come l’Inghilterra, dove politici si dimettono immediatamente quando vengono sorpresi ad abusare della loro posizione, si capisce che certe cose che in Italia sembrano normali proprio non lo sono.
Te lo immagineresti David Cameron a fare battute sulla Merkel?”.

Andrea Valdambrini
(da “Il Fatto Quotidiano“)

argomento: Costume, Esteri, Europa, Politica, radici e valori | Commenta »

I BOSS IN ROLLS ROYCE ALLA FESTA DEL QUARTIERE CON LA FOLLA CHE LI ACCLAMA

Settembre 28th, 2011 Riccardo Fucile

A NAPOLI I CLAN IN PIAZZA: “ONORIAMO I NOSTRI MORTI”

Il “Padrino” arriva a bordo di una Rolls Royce bianca per dare il via ufficiale ai festeggiamenti.
La folla aspetta, gradisce, applaude.
Lui scende dall’auto, sotto una pioggia di coriandoli colorati stringe mani e bacia sulla bocca i suoi uomini: un gesto altamente simbolico, che sta a indicare un legame indissolubile con la Famiglia.
Perchè quella è una festa di camorra.
È iniziata cosi, domenica, la “Ballata dei Gigli” di Barra, che si celebra da oltre un secolo nel quartiere alla periferia orientale di Napoli.
Ma che è sempre più monopolizzata dalla criminalità  organizzata che, salvo poche eccezioni, gestisce per intero la Festa.
Indisturbati, i clan utilizzano quel momento per suggellare patti e mandare messaggi di sfida ai rivali.
Alla luce del giorno.
A Barra, il clan egemone è quello dei Cuccaro-Andolfi: un anno fa, la piazza salutò il ritorno in libertà  del capo, Angelo Cuccaro, con una canzone dal titolo e dal testo inequivocabili, «’O Re».
Quel giorno, l’omaggio a un altro boss, Arcangelo Abete, leader del gruppo di fuoco dei cosiddetti “Scissionisti” di Secondigliano, altra zona incandescente della città , svelò a tutti l’accordo tra i due potenti clan: una morsa criminale che stringe la città  di Napoli da Nord a Est.
Un legame ancora più inquietante se si pensa che, proprio mentre domenica il clan inaugurava la festa a Barra, dall’altro lato della città  la camorra riprendeva a sparare: è la spia di una nuova sanguinaria faida in atto nei quartieri di Napoli.
Dopo quel patto suggellato un anno fa, la Procura di Napoli avviò pure un’indagine sulla Festa di Barra, senza tuttavia esiti significativi.
Così, domenica il clan ha mostrato i muscoli. Stavolta, il boss era lì in persona, in piazza, davanti al “giglio dell’Insuperabile”.
Camicia blu, cappellino da baseball bianco sul capo, è stato proprio Angelo Cuccaro a dettare i tempi della festa, a chiedere anche “un minuto di silenzio per i nostri morti”, mentre la fanfara dedicava a lui e al suo alleato di zona, Andrea Andolfi, la canzone «Sei grande».
Di lì a poco arriverà  anche l’omaggio degli organizzatori di un altro “giglio”: «Noi vi amiamo» urla Lello ‘O Cavallaro, al secolo Raffaele Maddaluno (suo fratello Ciro è il suocero del boss, ndr).
È il momento in cui un corteo di donne e uomini si reca in processione a salutare il boss.
Nei giorni precedenti, non si era sottratto al rito nemmeno uno dei parroci della zona, che ha benedetto quell’obelisco in legno alla pari delle altre “macchine di festa”. Senza apparenti esitazioni.

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