Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE DE “IL GIORNALE” DIVENTA “GUEST STAR” DEL TWIGA, LO STABILIMENTO “POPOLARE” DI MADAME SANTANCHE’
La Toscana è una regione misteriosa, selvaggia, pericolosa. 
Dove può capitare, ad esempio, di passeggiare sulla sabbia della spiaggia e all’improvviso trovarsi di fronte Alessandro Sallusti o Daniela Santanchè.
Anche perchè la signora Garnero ha ultimamente preso in consegna uno stabilimento, dove i villeggianti possono godersi il meritato mare e riposo.
Certo, a patto di avere 10mila euro d’avanzo.
Il buen retiro del sottosegretario Pdl e di Alessandro Sallusti è proprio lì, nella prima fila del Twiga a Forte dei Marmi, distante da tutti gli altri bagnanti: divano, poltrone, asciugamani in tinta, una guardia del corpo pronta ad allontanare ogni disturbatore.
E camerieri solerti a servire le prelibatezza del ristorante.
Lei arriva, saluta, fa un po’ di public relations, magari gioca a racchettoni con un sobrio cappello da cow —girl , risponde al cellulare e accoglie i suoi ospiti.
Ha costruito un stabilimento a misura sua e del socio, Flavio Briatore.
Quaranta tende, prezzi che vanno dai diecimila ai quindicimila euro a stagione, totem etnici ovunque, marchi di sponsor prestigiosi disseminati in ogni angolo, cuscini sparsi, personale belloccio (sia maschile che femminile) al quale sembra impedito sudare (asciutti e lindi nonostante i 35 gradi).
E cartelli inequivocabili: “I venditori ambulanti non possono disturbare gli ospiti”, firmato la direzione.
Bisogna vedere se gli “ambulanti” sanno leggere l’italiano e adeguarsi alla direttiva. “Però si sta bene, molto — racconta una signora —. Costerà caro, è vero, ma chi se ne importa! Cosa voto? Diciamo che la Daniela mi garba, e poi mi piace l’ambiente anche se ci sono meno vip degli scorsi anni…”.
Tasto dolente.
Ma soprattutto c’è il piacere dell’incontro con le celebrità .
Ad esempio Sallusti.
Insomma, persone con le quali, magari, fare business per la coppia Briatore-Santanchè.
In quanto ai nostri very important people da paparazzare, pochi, “magari qualche giocatore della Fiorentina — ci spiegano sempre dallo stabilimento — o il cantante Nek! Spesso abbiamo Sallusti”. Ecco. Silenzio.
Attesa imbarazzata, poi una luce negli occhi della nostra interlocutrice: “Aspetti, aspetti: sabato ospitiamo il matrimonio della sorella della Gregoracci”
Finalmente un sorriso.
Anche da parte della signora che quest’anno non ha potuto godere della presenza di vip.
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Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
TOLGONO IL CONTRIBUTO DI SOLIDARIETA’ MA ATTACCANO LE PENSIONI E I DIRITTI ACQUISITI, MENTRE GLI ONOREVOLI SI PRIVANO SOLO DI SPICCIOLI… IL GIOCO DELLE TRE CARTE E DEI TRE FALSARI
Tagli di carta, più che di casta.
Il governo ha usato le forbici contro la sua stessa manovra, la versione ferragostana varata il 13: niente abolizione per le Province con meno di 300mila residenti, niente accorpamento per i Comuni sotto i mille abitanti (solo servizi condivisi).
Salve 50mila poltrone dorate, molte di potere e tanto, tanto leghiste.
Il pranzo di Arcore vale soltanto due buoni propositi, pura fantasia per una legislatura al tramonto e un governo a brandelli: un disegno di legge costituzionale per cancellare le Province (107 enti) e per dimezzare il numero dei parlamentari (945 in totale).
La rinascita dei presidenti di Provincia ha del miracoloso.
A ferragosto 37 di loro erano praticamente disoccupati, ovviamente al prossimo turno elettorale.
Una settimana fa, conteggiando la scomparsa dei gonfaloni provinciali con l’estensione del territorio, i mal capitati erano 26.
Adesso sono zero.
Il sacrificio di casta rinforzava la manovra con 1,5 miliardi di euro di tagli, subito.
Non c’è una cifra definitiva.
Perchè il testo del governo più che una riforma era un proclama, dunque la relazione dei tecnici del Senato si è fermata all’evidenza: “Non è possibile quantificare i benefici”.
Il ministro Roberto Calderoli ha provocato la resurrezione dei politici locali da quel di Rimini, tra le tavole rotonde di Comunione e Liberazione: “Castronerie. Comuni e Province hanno già dato tanto”.
Stavolta la mira di Tremonti-Berlusconi, la coppia scoppiata per eccellenza, punta altissimo: via le Province, tutte.
Quando? Chissà .
Un Parlamento virtuoso può modificare la Costituzione in un paio di anni — dicono il Pd e l’Idv — qui la situazione è un po’ diversa e i tempi sono lunghi, ma davvero lunghi.
In teoria, il governo promette risparmi per 4 o 5 miliardi: in pratica, la speranza è già troppa.
Anche i paesini sono risorti, capitanati dal combattivo Osvaldo Napoli (Pdl), presidente facente funzione Anci e primo cittadino di Valgioie, paesino di 700 abitanti in provincia di Torino.
L’unificazione coatta di mille e cinquecento campanili era possente come un soffio: decine di milioni di euro, non di più.
Con il volontariato per quei consiglieri e assessori che guadagnano un gettone di presenza di 20 euro.
Senza toccare la burocrazia amministrativa con un dipendente comunale ogni cento abitanti.
L’Italia dei Valori propone di concentrare la macchina di spesa dei centri inferiori ai 20mila abitanti, allora il saldo — per dirla con Calderoli — sarebbe evidente: 3 miliardi di euro.
Il comunicato stampa di Arcore crea un po’ di panico tra deputati e senatori: confermato il contributo di solidarietà .
Che può diventare, secondo preferenze, un obolo per sedare i cittadini o una presa in giro di un paio di giorni.
Tolta la tassa per i redditi oltre i 90mila euro, resta il prelievo con aliquota doppia ai parlamentari con un’indennità che supera i 90mila euro (10%) o i 140mila (20%).
Escluse diaria e rimborsi, veri e propri stipendi, la spuntatina all’indennità su base mensile pesa dai 2mila ai 5mila euro l’anno per una volta sola.
Un buffetto addolcito con la promessa impossibile di ridurre gli scranni di Montecitorio e palazzo Madama per via costituzionale.
Le intenzione erano chiare già con la tassa per i parlamentari con doppio lavoro: chi ha uno stipendio superiore al 15% dell’indennità , comprese le altre entrate parlamentari, intasca metà indennità .
L’ipotetica rinuncia, che non colpisce nessuno, sarebbe intorno ai 2mila euro.
La manovra ha prodotto abbondanza di cavilli e articoli per intimorire i politici, peccato che nei fatti sia innocua.
C’è un comma tra i tanti che obbliga i parlamentari a volare in classe economica.
Sarà così.
Anche perchè i voli nazionali non prevedono posti di pregio. Solo privilegi.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
PRESSIONE FISCALE RECORD NEL 2014: IL 44,5%…. NECESSITA’ DI ABOLIRE LE PROVINCE…”EVENTUALI CAMBIAMENTI DOVREBBERO ANDARE VERSO LA RIDUZIONE DEL PESO DEGLI AUMENTI DELLE ENTRATE”
Bankitalia è critica sulla manovra. 
«Eventuali cambiamenti nella struttura della manovra dovrebbero andare nella direzione di ridurre il peso degli aumenti delle entrate, accrescere il ruolo delle misure strutturali, minimizzare gli effetti negativi sul prodotto, contenere l’incertezza circa l’attuazione di alcune misure (quali la delega fiscale e assistenziale e le modalità con cui verrà esercitata la relativa clausola di salvaguardia.
L’entità della manovra non può essere ridotta, anche alla luce della sfavorevole evoluzione del quadro macroeconomico internazionale».
Lo ha detto il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel corso dell’audizione sulla manovra in Commissione Bilancio del Senato.
«L’attuazione delle misure correttive – ha aggiunto – andrà attentamente monitorata». «L’aggiustamento dei conti, necessario per evitare uno scenario ben più grave, avrà inevitabilmente effetti restrittivi sull’economia» ha aggiunto Visco.
Per Bankitalia, visto anche il rallentamento del commercio mondiale, si rischia «una fase di stagnazione che rallenterebbe anche la flessione del peso del debito sul pil». Per questo «il riequilibrio dei conti deve associarsi a una politica economica volta al rilancio delle prospettive di crescita della nostra economia».
Il risanamento dei conti pubblici per il pareggio di bilancio nel 2013 «rallenterà la crescita ma non ha alternative» ha spiegato Visco.
«Ogni altro scenario – ha aggiunto – condurrebbe a risultati più traumatici per il nostro paese».
«In un quadro previsivo che resta ancora estremamente incerto – ha spiegato ancora Visco – , potrebbe prefigurarsi una crescita del Pil inferiore al punto percentuale nell’anno in corso e e ancora più debole nel 2012. Ciò si rifletterebbe inevitabilmente sui conti pubblici, rendendo più difficile il pareggio di bilancio e rallentando la flessione del peso del debito pubblico».
A seguito della manovra la pressione fiscale, sempre secondo Visco, arriverà a livelli record nel 2014.
Il vicedirettore generale della Banca d’Italia ha avvertito: «la pressione fiscale salirà soprattutto nel 2012 e nel 2013 (rispettivamente di 1,1 e 0,7 punti); nel 2014 si attesterà al massimo storico del 44,5%».
E «tale livello potrebbe essere ancora maggiore – ha aggiunto – se gli enti decentrati compensassero, anche solo in parte, la riduzione dei trasferimenti statali con un aumento dell’imposizione a livello locale. Di contro, l’impatto sul prelievo potrebbe venir mitigato qualora, come indicato dal governo, almeno una parte dell’aggiustamento connesso con l’esercizio della delega fosse realizzato sul lato della spesa».
Per Visco inoltre c’è da fare qualcosa di più anche sul fronte della riduzione del peso degli apparati istituzionali.
«Un più deciso intervento sugli apparati istituzionali darebbe risparmi significativi nel medio termine, oltre a sottolineare l’urgenza del riequilibrio dei conti pubblici» afferma il vicedirettore generale della Banca d’Italia.
«La razionalizzazione dei diversi livelli di governo- spiega Visco – dovrebbe mirare a semplificare i processi decisionali e a evitare duplicazioni di funzioni e sovrapposizioni di competenze».
Una parte delle funzioni delle Province, propone Bankitalia, «potrebbe essere riallocata ai Comuni, che già hanno responsabilità in materia di istruzione, cultura e beni culturali e politiche sociali. Funzioni riferibili ad ambiti territoriali più ampi (trasporti, gestione del territorio, tutela dell’ambiente, sviluppo economico) potrebbero invece passare alle Regioni.
Ciò favorirebbe una razionalizzazione degli interventi in tali ambiti.
Una sostanziale riduzione delle competenze delle Province consentirebbe un significativo snellimento dei relativi apparati burocratici e degli organi rappresentativi e non trascurabili risparmi».
Sul fronte della previdenza per Visco è necessario portare a 65 anni, già nel 2012, l’età di pensionamento per vecchiaia delle lavoratrici del settore privato.
«Si potrebbe altresì anticipare – ha detto Visco – l’incremento dell’età di pensionamento per vecchiaia delle lavoratrici del settore privato da 60 a 65 anni (l’avvio del processo potrebbe essere già a gennaio del 2012 quando alle lavoratrici del pubblico impiego si applicherà il requisito dei 65 anni)».
Anche perchè «l’intervento assicurerebbe risparmi non trascurabili dal 2013 e crescenti negli anni successivi».
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Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
UNA MANOVRA DEPRESSIVA SUL PIANO DEI REDDITI, DEI CONSUMI, DEGLI INVESTIMENTI E DELL’OCCUPAZIONE…E I CONTI NON TORNANO: CHE DIRA’ L’EUROPA?
Una volta tanto il presidente del Consiglio è stato di parola.
“Ho messo da parte le bottiglie per brindare all’accordo”, ha detto durante il vertice di maggioranza ad Arcore.
Dopo oltre sette ore l’intesa è arrivata.
Ma dall’estenuante braccio di ferro di Villa San Martino è uscito esattamente quello che Berlusconi auspicava: una “manovra-champagne”.
All’apparenza, spumeggiante e piena di bollicine. Nella sostanza, sempre più inconsistente e piena di buchi.
La partita politica dentro il centrodestra si chiude con un esito chiarissimo. Ora tutti alzano i calici, fingendo di aver portato a casa il risultato.
La verità è ben diversa.
L’unico vincitore è il Cavaliere, che ha messo in riga Tremonti e Bossi.
“Non metto le mani nelle tasche degli italiani”, aveva tuonato il premier.
In nome di questo slogan da propaganda permanente, ha preteso e ottenuto la cancellazione del contributo di solidarietà sui redditi superiori ai 90 mila euro.
Così, almeno in parte, ha evitato quel bagno di sangue perpetrato soprattutto ai danni del ceto medio, che avrebbe avuto un costo elettorale per lui insopportabile.
Era l’unico obiettivo che gli stava a cuore. L’unico vessillo, psicologico e quasi ideologico, che voleva issare di fronte ai cittadini-elettori.
C’è riuscito. Ma ai danni dei suoi alleati. E anche ai danni del Paese.
La “manovra-champagne” è solo un’altra, clamorosa occasione mancata. È confusa nè più nè meno di quelle che l’hanno preceduta. È altrettanto povera di senso e di struttura.
Soprattutto, è altrettanto ininfluente sul piano del sostegno alla crescita, per la quale non c’è una sola misura di stimolo.
E dunque è altrettanto depressiva sul piano dei redditi, dei consumi, degli investimenti, dell’occupazione.
D’altra parte, non poteva non essere così.
Tre manovre radicalmente diverse, affastellate in un mese e mezzo, sono il segno inequivocabile del caos totale che regna dentro una maggioranza pronta a tutto, pur di galleggiare e di sopravvivere a se stessa.
Berlusconi ha ridicolizzato Tremonti. Il ministro dell’Economia aveva annunciato una prima manovrina all’acqua di rose a giugno, spiegando che l’Italia era a posto sul debito e sul deficit.
Travolto dalla crisi europea e dall’ondata speculativa dei mercati, ha presentato una manovra-monstre da 45 miliardi a luglio, spiegando che “in cinque giorni tutto è cambiato”.
Si è presentato ad Arcore chiedendo che quel pacchetto d’emergenza non fosse toccato, per evitare guai con la Ue e traumi sugli spread.
Ebbene, quel pacchetto, al vertice di Arcore, non è stato “toccato”: è stato totalmente distrutto.
Della manovra tremontiana di luglio non resta quasi più nulla. Salta il contributo di solidarietà , saltano i pur risibili tagli ai costi della politica, salta la cancellazione dei piccoli comuni.
Berlusconi ha umiliato Bossi. La Lega pretendeva la supertassa sugli evasori fiscali e la salvaguardia delle pensioni “padane”. Non ha spuntato niente.
La maxi-patrimoniale si è annacquata in un più tollerante giro di vite sulle società di comodo alle quali i lavoratori autonomi intestano spesso appartamenti, auto di lusso e barche.
Quanto alla previdenza, il Senatur non solo non salva le camice verdi, ma deve incassare un intervento a sorpresa sulle pensioni di anzianità dalle quali, ai fini del calcolo, verranno scomputati gli anni riscattati per la laurea e il servizio militare. Peggio di così, per il Carroccio, non poteva andare.
A dispetto dei trionfalismi di Calderoli, ormai ridotto a un Forlani qualsiasi.
La partita economica sul risanamento, viceversa, si chiude con un esito assai meno chiaro.
La rinuncia al contributo di solidarietà (congegnato in modo iniquo perchè non teneva in alcun conto i carichi familiari e il cumulo dei redditi) attenua solo in parte il grave squilibrio della manovra, che resta comunque fortemente sbilanciata sul fronte delle tasse.
L’aumento delle aliquote Iva è solo rinviato alla delega fiscale e assistenziale.
La riduzione di 2 miliardi dei tagli a comuni e regioni non impedirà l’aumento delle addizionali Irpef e l’abbattimento dei servizi sul territorio e del Welfare locale. L’intervento sulla previdenza è solo un’altra “tassa sul pensionato”, ed è lontano anni-luce dalla riforma che servirebbe al Paese per stabilizzare definitivamente la spesa, cioè il passaggio al sistema contributivo pro-rata per tutti.
Così riformulata, questa terza manovra berlusconiana è piena di buchi.
Come si arrivi ai 45 miliardi promessi resta un mistero, ancora più insondabile di quanto non lo fosse già la seconda manovra tremontiana.
Quanto valgono le misure anti-elusione contro le società di comodo?
Quanto frutteranno i maggiori poteri attributi ai comuni nella lotta all’evasione? Nessuno lo sa.
Le uniche certezze riguardano quelli che sicuramente pagheranno fino all’ultimo euro il costo di questo ennesimo compromesso al ribasso firmato dalla coalizione forzaleghista.
Gli enti locali, per i quali restano tagli nell’ordine dei 7 miliardi.
I dipendenti pubblici, per i quali restano lo stop degli straordinari, il differimento del Tfr e il contributo di solidarietà , oltre tutto non più deducibile.
E adesso anche le cooperative, per le quali si profila una drastica riduzione della fiscalità di vantaggio.
Un blocco sociale ed economico vasto, ma con un denominatore comune: non appartiene alla constituency elettorale del centrodestra. È stato “selezionato” per questo. E per questo merita lacrime e sangue.
Certo, da consumato spacciatore di merchandising politico, nella “sua” manovra Berlusconi ha voluto anche le bollicine.
Il contributo di solidarietà solo per i parlamentari. La soppressione di tutte le province e il dimezzamento del numero dei parlamentari.
Misure che fanno un certo effetto mediatico e simbolico.
Sono rigorosamente affidate a disegno di legge costituzionali (dunque non si faranno in questa legislatura, e quindi probabilmente non si faranno mai).
Ma a sentirle annunciare, sembrano colpire al cuore la “casta” che il Cavaliere (pur facendone parte) finge di disprezzare.
Resta un problema, drammatico per il Paese, che misureremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni.
La “manovra-champagne” la puoi far ingoiare a un po’ di pubblico domestico, meno informato o male informato dai bollettini di Palazzo Grazioli.
Ma fuori dai confini della piccola Italia, purtroppo, è tutta un’altra storia.
I finanzieri della business community, i tecnocrati della Bce e i partner dell’Unione Europea, sono la moderna “società degli apoti” di Prezzolini: loro non la bevono.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica“)
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Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
MANOVRA RISCRITTA, BOSSI E TREMONTI SBUGIARDATI… BUCO NERO SUI NUMERI: MANCHEREBBERO 20 MILIARDI PER FAR QUADRARE I CONTI
È uscito dalla porta secondaria di Arcore, Umberto Bossi. 
Quasi di soppiatto, da sconfitto.
Lui che solo due giorni fa ancora strillava che le pensioni non si sarebbero toccate grazie a lui, ebbene ieri ha perso la sua battaglia e si è arreso: salta il contributo di solidarietà , che resterà solo per i parlamentari, non ci sarà alcun aumento dell’Iva, ma il vero salasso arriverà dalle pensioni, la cassa si farà tutta da lì.
Con un colpo di spugna netto, il governo ha cancellato i contributi figurativi del riscatto della laurea e del servizio militare, di fatto aumentando da 2 a 5 anni il periodo necessario per raggiungere i 40 anni di contributi.
È un primo passo, a giudizio di alcuni parlamentari della maggioranza, verso l’eliminazione delle pensioni di anzianità .
Per il Senatùr, insomma, una sconfitta cocente.
E con lui anche uno schiaffo per Calderoli e per la sua tassa sull’evasione, che pare non sia stata neppure presa in considerazione, sostituita da un giro di vite sulle società di comodo e soprattutto sulle agevolazioni fiscali alle Coop.
La Lega, insomma, esce con le ossa rotte dal confronto.
Con un’unica eccezione, quella di Maroni.
Che ieri si era impegnato davanti ai sindaci in rivolta a Milano a portare a casa misure concrete per salvaguardare le casse degli enti locali.
Ebbene, i piccoli comuni si salveranno davvero, anche se verrano unificate alcune loro funzioni fondamentali e in prospettiva (via ddl costituzionale) saranno anche abolite tutte le province, ma intanto ci sono 2 miliardi di euro di tagli in meno su questo fronte; per Maroni una promessa mantenuta da incassare sotto il profilo elettorale.
Ma soprattutto, la manovra che è uscita ieri da Arcore non è quella scritta dal ministro dell’Economia, è stata ristrutturata nel senso più profondo della sua filosofia.
“Per la prima volta — ecco il commento a caldo di un ‘frondista’ soddisfatto — non abbiamo dovuto ingoiare a scatola chiusa il tonno Tremonti…”.
Infatti, all’inizio dell’incontro, il ministro dell’Economia si era mosso nel solco del suo consueto clichet: non si deve cambiare nulla.
Poi una battuta del Cavaliere che ha azzerato ogni velleità di protagonismo: “Quella che hai scritto tu è una manovra depressiva, io non la voglio”.
Di lì scintille e grida, con Tremonti che però alla fine ha chinanto la testa.
Quello che diranno i mercati sul nuovo testo lo si vedrà , ma di certo non è rimasto nulla dell’impostazione tremontiana di tagli lineari e di nuove imposizioni “di solidarietà ”.
Muovendo sulle pensioni, il ministro dell’Economia non ha potuto dire di no davanti alla ferrea volontà del Cavaliere di cancellare le nuove tasse come appunto il contributo di solidarietà “contrario alla filosofia stessa del Pdl”.
Vista la sconfitta di Bossi, poi, Tremonti — che fino a ieri si era invece fatto proteggere dal Carroccio — ha immediatamente cambiato schema allineandosi su tutto il fronte al Cavaliere; il ministro ce l’ha fatta a restare in piedi anche questa volta, si vedrà ora per quanto tempo, ma sul suo riavvicinamento a Berlusconi pochi i dubbi.
Uscendo a tarda sera dal salotto di Arcore, si è lasciato sfuggire un “tutto bene” impensabile solo qualche ora prima.
Adesso la nuova manovra passa nelle mani degli uomini dei conti che dovranno trovare il modo di farli quadrare un’altra volta.
È per questo motivo se il termine ultimo delle 20 di ieri sera per la presentazione degli emendamenti di fatto non è stato rispettato.
Le nuove norme sono tutte da scrivere e il governo ha dato mandato al relatore della legge di presentare (probabilmente) un maxi emendamento con le modifiche direttamente giovedì o venerdì prossimo in aula a palazzo Madama in modo da porre la fiducia su quello e raggiungere il risultato finale senza correre il rischio di modifiche in aula.
Lo stesso scenario si dovrebbe avere alla Camera, ma qualcosa, ancora, non quadra del tutto.
Ed è Pierluigi Bersani a insinuare, per primo ma seguito a ruota dall’Udc, che i conti, alla fine, potrebbero “non tornare”:
“Non vedo come possano quadrare questi conti”.
Sempre ieri sera, da ambienti vicini a Confindustria, si faceva notare che con gli interventi annunciati, all’appello dell’invariato saldo finale (45,5 mdl di euro) ne potrebbero mancare più di 20.
Ma per Berlusconi lo spettro di una crisi sulla manovra è ormai archiviato.
Tanto che ieri ha concluso il vertice stappando una bottiglia di champagne (lui che è a dieta da giorni) per festeggiare “l’accordo; e adesso tutti avanti fino al 2013!”.
Un brindisi con tutti i partecipanti al “conclave”, Alfano, Tremonti, Bossi, Maroni, Calderoli, Cicchitto, Gasparri, Moffa e il presidente della commissione Bilancio del Senato Azzollini.
Pare che nessuno abbia bevuto un goccio, ma che abbiano comunque alzato il bicchiere davanti alla prospettiva di andare avanti con la delega fiscale e la riforma dell’architettura dello Stato.
“Berlusconi — commentava un ‘frondista’ pidiellino soddisfatto per aver incassato, in qualche modo, una vittoria — ha dimostrato di avere ancora in mano la golden share del governo e della maggioranza; il 2013 non è più un traguardo irraggiungibile”.
Forse.
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
GLI ANNI NON LAVORATI NON VALGONO PIÙ PER L’ANZIANITà€… SCOPPIA LA RIVOLTA DEI MEDICI, A RIPOSO ANCHE CON UN DECENNIO DI RITARDO
Non si sa se è colpa delle trame dell’odiato “nano veneziano” o dello stato confusionale dovuto alla caduta, ma è un fatto che Umberto Bossi e la Lega ieri sono usciti dal villone di Arcore dopo aver messo la loro firma proprio sotto quel sostanziale aumento dell’età pensionabile che avevano escluso in lungo e in largo durante i loro coloriti comizi agostani.
Nell’oscuro documento finale, infatti, si legge che il governo manterrà “l’attuale regime previdenziale già previsto per coloro che abbiano maturato quarant’anni di contributi con esclusione dei periodi relativi al percorso di laurea e al servizio militare, che rimangono comunque utili ai fini del calcolo della pensione”.
Cioè? All’ingrosso significa che tutti i lavoratori (maschi) della Repubblica si ritroveranno un anno in più di lavoro da fare prima della pensione: i mesi di servizio militare o civile infatti non contano più ai fini dell’età della pensione, anche se contribuiranno al calcolo dell’assegno.
Stesso discorso per la platea più piccola, ma non irrilevante, di coloro che hanno pagato conti assai salati per “riscattare” gli anni passati all’università : qui la correzione ammonterebbe a quattro anni, ma “oscilla tra i 10 e i 12 anni per i medici perchè si deve tener conto degli anni di specializzazione.
Niente paura, spiegano fonti di maggioranza, si andrà in pensione “contando gli anni effettivi di lavoro”.
In sostanza, si tratta di un nuovo — ma più subdolo — scalone previdenziale, che peraltro si va ad aggiungere a quell’anno e più che i pensionandi pagano già al sistema delle cosiddette “finestre.
Non si tratta, ovviamente, di una riforma del sistema pensionistico, ma di un provvedimento deciso per finanziare il ritocco cosmetico della manovra portato a termine ieri a Villa San Martino: a parte i ddl costituzionali sui costi della politica, che non valgono niente in termini di risparmi, le novità stanno nel fatto che è stato abolito il contributo di solidarietà (gettito previsto: 700 milioni l’anno prossimo, 1,5 miliardi nel successivo biennio) e che si riducono di due miliardi i tagli alle autonomie locali.
Il governo, insomma, da qui al 2013 deve trovare da qualche altra parte cinque miliardi e mezzo.
Questo blocco delle pensioni anche per chi ha già 40 anni di contributi serve a “mantenere invariati i saldi”, assicura Calderoli, anche con il concorso di provvedimenti meno pesanti come un taglio dei “privilegi” fiscali delle cooperative e alcune norme anti-elusione di dubbia efficacia.
“Non vedo come questi conti possano tornare”, diceva Pierluigi Bersani in serata.
In realtà non è ancora chiaro come sarà congegnato l’emendamento, ma nell’opposizione c’è chi ipotizza che in sostanza il governo Berlusconi voglia così arrivare – surrettiziamente – alla cosiddetta “quota 100” (65 anni + 35 di contributi oppure 64 + 36 eccetera) entro il 2015.
Come che sia, la platea interessata è vasta: secondo un calcolo a spanne sui dati 2010, che era servito ai cosiddetti “frondisti” del PdL per le loro proposte di modifica, i lavoratori penalizzati dovrebbero essere almeno 120 mila nel prossimo triennio.
In questo modo, fino al 2015, si dovrebbero risparmiare tre miliardi, che diventerebbero — a regime, cioè dal 2016 — altri due l’anno all’incirca.
Ma sono tutti calcoli da verificare.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
I TAGLI AGLI ENTI LOCALI E IL CAPITALISMO MUNICIPALE… INVESTIMENTI E SPRECHI DELLE MUNICIPALIZZATE
A Napoli si paga una tariffa sui rifiuti superiore del 48,4 per cento alla media nazionale. E
quasi due volte e mezzo più cara rispetto a Firenze. Lì, per un appartamento di 80 metri quadrati, 135 euro l’anno. Nel capoluogo campano, 331.
Difficile da credere che la città italiana dove la tassa sulla spazzatura è la più alta in assoluto sia proprio quella che ha più problemi con l’immondizia.
Ma nel Paese dove il «capitalismo» municipale ha pian piano soppiantato il capitalismo di Stato, il sistema funziona così.
Palermo, per esempio.
Secondo le elaborazioni dell’ufficio studi della Confartigianato, effettuate sulla base dei dati del ministero dello Sviluppo economico e dell’Unioncamere, è la città dove il trasporto pubblico, pur non rappresentando sicuramente il massimo nazionale dell’efficienza, è invece mediamente più costoso: 515 euro per dieci abbonamenti mensili e 48 biglietti orari.
Non c’è confronto con Genova (398), al secondo posto, ma nemmeno con Napoli (396), al terzo.
Senza parlare di Milano: 338 euro, il 52,3% in meno.
Del resto, prendendo in esame un pacchetto di servizi pubblici locali (oltre al trasporto anche i rifiuti, l’acqua e l’energia) proprio Palermo è la città più cara d’Italia con l’unica eccezione di Cagliari (3.108 euro l’anno pro capite), che deve però fare i conti con l’estrema onerosità della distribuzione del gas.
Nel capoluogo siciliano ogni cittadino sostiene mediamente, dicono i dati del 2009, un costo di 2.633 euro l’anno, contro 2.559 di Genova e 2.537 di Napoli.
A Milano si spende il 42,6% meno che a Cagliari e il 20,8% meno che a Palermo.
Ancora più impressionante, tuttavia, è il peso della spesa pro capite sul Pil «individuale». Il costo dei servizi pubblici locali si «mangia» a Napoli il 16,1% del Prodotto interno lordo pro capite, contro il 6% a Milano, l’8,3% di Firenze, il 7,1% a Bologna, il 7,6% a Roma, che certo non è fra le città meno care (2.461 euro).
Come si spiega tutto ciò?
Che ci sia un rapporto fra questa situazione e le mancate liberalizzazioni, come sostengono da tempo autorevoli istituzioni, è assodato.
L’Ocse sottolinea, per esempio, come il costo dei servizi pubblici cresca nettamente più del costo della vita.
A giugno si è registrato per questi un rincaro del 4,8%, oltre due punti sopra l’inflazione. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali, escludendo quelli energetici, sono salite del 54,2% a fronte di una crescita dei prezzi pari al 23,9%.
Ed è stato un aumento astronomico anche rispetto alla media di Eurolandia, dove l’incremento delle tariffe si è attestato invece al 30,3%.
La Banca d’Italia dice che nel nostro Paese i principali servizi hanno un cosiddetto «mark up», cioè la differenza fra il prezzo della prestazione erogata e il suo costo, superiore del 19,2% alla media dell’area euro.
È ancora via Nazionale ad affermare in un proprio studio che riportando quel dato al livello europeo si potrebbe ottenere nei primi tre anni una crescita del Prodotto interno lordo pari al 5,4%.
Stima che porta la Confartigianato a calcolare un Pil aggiuntivo di 36,7 miliardi per il solo primo anno seguente a quello nel quale fosse applicata una vera liberalizzazione di questo mercato.
I dati della Banca d’Italia sul «mark up» sono eloquenti.
Le aziende che erogano servizi pubblici hanno sulla carta profitti ben più elevati della media europea, sebbene parametri di efficienza e conto economico non siano certo migliori.
Con tutta evidenza la causa va ricercata in un costo della politica indiretto che fa leva proprio sulla mancanza di concorrenza.
La prova? Fra il 2003 e l’anno che ha preceduto la nuova Grande Depressione, le aziende pubbliche locali hanno letteralmente allagato l’Italia.
Nel 2007 l’Unioncamere ne ha censite 5.152, numero superiore dell’11,9% a quello di quattro anni prima. In dieci anni, dal 1999 al 2009, le imprese controllate dagli enti locali, ricorda la Confartigianato, hanno raddoppiato il loro peso sull’economia, dal 2,3% al 4,6% del Prodotto interno lordo.
Tutto questo mentre la spesa delle amministrazioni scendeva dal 5,8% al 5,6% del Pil.
La crescita si è rivelata particolarmente impetuosa al Nord e nelle Regioni autonome. Nella provincia di Trento le aziende pubbliche locali rappresentano ormai il 13,3% al Prodotto interno lordo, avendo aumentato in un decennio il proprio peso di ben 8,6 punti. In Valle D’Aosta il loro contributo all’economia ha raggiunto l’11,3% (+8,3 punti), in Liguria l’8,2%, nel Friuli-Venezia Giulia l’8,2%, nella Provincia di Bolzano il 7,2%, in Emilia-Romagna il 6,9% e in Lombardia il 6,1%.
Un monitoraggio compiuto dall’Unioncamere su 4.018 di queste aziende, escludendo quelle finanziarie e in liquidazione, ha dimostrato che nel Centro Nord ognuna di esse ha chiuso il bilancio con un utile medio di 368.746 euro, contro un buco medio di 251.424 euro al Sud.
E se nel Centro Nord gli utili per addetto sono cresciuti, nel quadriennio preso in esame, di ben tre volte, passando da 2.147 a 6.500 euro, nelle Regioni meridionali il deficit pro capite si è ampliato del 14,7%, da 2.822 a 3.239 euro.
Il fatto è che mentre le aziende pubbliche locali del Sud aumentavano del 14,6% il costo del personale anche a causa di tre assunzioni in media per impresa, le loro consorelle centrosettentrionali lo diminuivano del 5,8%, grazie pure all’esodo medio di 9 addetti.
Il clientelismo c’entra forse qualcosa?
E l’efficienza?
Lo studio della Confartigianato segnala il caso del trasporto pubblico locale, dove il costo medio per un chilometro di percorso urbano raggiunge in Campania 7,14 euro, 2 euro e 39 centesimi più della Lombardia, 3 euro e 8 centesimi più del Veneto e quasi il quadruplo rispetto all’Umbria.
Numeri con un chiaro riscontro nel chilometraggio medio di ogni autista: 19.086 in Campania, 25.032 in Lombardia, 27.278 in Veneto, 43.255 in Umbria.
Caso particolare, il Lazio, dove il costo per chilometro è appena inferiore a quello campano (6 euro e 68 centesimi) pur con un chilometraggio pro capite (26.513) superiore alla media nazionale.
Cifre riferite al 2009, che evidentemente fotografano lo stato della gestione dell’Atac: al 31 dicembre di quell’anno l’azienda romana aveva accumulato un buco di circa 700 milioni di euro.
Dal 2004 al 2009 alla crescita dei fatturati dei servizi pubblici locali non ha poi fatto riscontro un incremento degli investimenti.
Diminuiti, anzi, dal 20,3% al 18,1% del giro d’affari. Un quarto circa degli stanziamenti viene assorbito proprio dal settore dei trasporti, che è al secondo posto.
La maggior parte dei fondi, poco meno del 33%, è infatti destinato al servizio di distribuzione dell’acqua, bandiera dell’ultimo referendum sui servizi pubblici locali che ha registrato una schiacciante maggioranza di no alla privatizzazione.
Ma per quanto siano percentualmente rilevanti, come stanno a dimostrare i dati pubblicati dalla Confartigianato, gli investimenti non riescono a modificare sostanzialmente una situazione davvero disastrosa: combinato disposto di una rete colabrodo e un’evasione tariffaria in alcuni casi allucinante.
Almeno se è vero che nel 2008 a fronte di oltre 8,1 miliardi di metri cubi immessi nella rete di distribuzione, quelli fatturati sono stati poco più di 5 miliardi e mezzo. Il 32% dell’acqua potabile, quantità che il rapporto dell’organizzazione degli artigiani paragona alla portata annuale del fiume Brenta, si volatilizza letteralmente.
L’elaborazione contenuta in quello studio, fatta sulla base dei dati Istat, mostra come ancora tre anni fa in Puglia per ogni 100 litri di acqua «erogata», se ne immettessero nella rete ben 87 di più.
Non molto meglio andava in Sardegna, con 85 litri, in Molise (78), Abruzzo (77) e Friuli-Venezia Giulia.
Nel 2009 questo andazzo è costato alle aziende locali che gestiscono il servizio idrico 2 miliardi e 947 milioni.
Più dei soldi cui i Comuni hanno dovuto rinunciare a causa dell’abolizione dell’Ici sulla prima casa decisa dal governo di Silvio Berlusconi subito dopo le elezioni del 2008, più del giro di vite di 2 miliardi e mezzo imposto ai municipi dalla manovra dello scorso anno, più dei tagli lineari ai ministeri….
Che l’efficienza dei servizi pubblici locali non sia al top lo affermano poi gli stessi utenti. La percentuale di famiglie «molto o abbastanza soddisfatte» della loro qualità , sulla base delle statistiche ufficiali dell’Istat, è scesa fra il 2001 e il 2010 di 5,1 punti per l’energia elettrica, del 3,5% per il gas.
Letteralmente precipitato l’indice che segnala la soddisfazione per la «comprensibilità » della bolletta, calato del 12,9% relativamente al gas e del 10,3% alla luce.
Non bastasse, le rilevazioni dell’Autorità per l’energia informano che per 18 aziende su 32, ovvero il 56,3% del totale, l’indice di «qualità totale» rilevato presso i call center nel 2010 ha registrato un peggioramento.
Per non citare la vicenda mai risolta delle interruzioni «senza preavviso» di energia elettrica, il cui livello medio ha raggiunto, sempre nel 2010, ben 89 minuti l’anno, dei quali 44 per responsabilità delle imprese distributrici.
E va detto che al Sud i 44 minuti diventano ben 63, contro i 29 del Nord.
Per le piccole imprese fino a 20 dipendenti è un inconveniente costato lo scorso anno, secondo la Confartigianato, un miliardo e 56 milioni di euro.
Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera”)
argomento: Comune, Costume, emergenza, Politica, radici e valori | Commenta »
Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
L’ANALISI DI GIOVANNI SARTORI: “UN TRACOLLO BEN PREPARATO”… DA DECENNI GLI ECONOMISTI CI HANNO INCORAGGIATO A SPENDERE PIU’ DI QUANTO GUADAGNIAMO, CREANDO UN PROGRESSO ECONOMICO FONDATO SUL DEBITO
Tutti gli economisti, o quasi tutti, sostengono che la salvezza sta nella «crescita».
Perchè il mondo occidentale non cresce più (in nessun senso della parola). La sola crescita globale è stata, da un secolo a questa parte, quella della popolazione.
Oggi siamo 7 miliardi, forse arriveremo a 9 o anche a 10.
E di tanto cresce la popolazione, di altrettanto (se non più) crescono i problemi che la crescita economica dovrebbe risolvere.
Problemi che oramai sono di «grande depressione».
E problemi che le ricette degli economisti non sembrano in grado di risolvere.
Forse perchè sono ricette che ci hanno fatto sbagliare previsioni e terapie da almeno mezzo secolo a questa parte.
Perchè da mezzo secolo a questa parte gli economisti ci hanno incoraggiato a spendere più di quanto guadagniamo, creando così un progresso economico fondato sul debito.
Il debito pubblico che oggi assilla tutti (anche se alcuni più, alcuni meno) nasce così: dallo Stato che spende e spande, che elargisce più di quanto incassa.
Negli Stati Uniti, per decenni, l’indicatore di una economia che «tira» è stato la consumer confidence, la fiducia del consumatore di poter spendere non sui soldi che si hanno ma sui soldi che verranno.
Un altro problema delle società industriali avanzate è che alla fine le macchine «disoccupano». Certo, all’inizio creano occupazione per creare le macchine; ma poi, alla lunga, finisce che sono le macchine che lavorano per l’uomo e che lo sostituiscono.
Questo problema è stato oscurato dalla teoria (eminentemente sociologica) che la società post industriale era, e doveva diventare, una «società dei servizi».
Certo, in parte sì.
Ma in parte la società dei servizi è diventata sovrappopolata e parassitaria perchè serve a colmare il buco della disoccupazione crescente.
Il nostro Sud è un magnifico esempio di politica che diventa strumento di pubblico impiego.
Il sistema che sono andato descrivendo era destinato a crollare.
E difatti sta crollando.
L’aggravante è poi stata la globalizzazione.
Nel 1993 scrivevo che a parità di tecnologia i Paesi poveri a basso costo di lavoro erano destinati a togliere lavoro alla manodopera dei Paesi ricchi.
Invece gli economisti hanno inneggiato alla globalizzazione come nuovi mercati di espansione e di vendita.
È finita, per ora, che la Cina è diventata la cassaforte che sostiene il debito pubblico degli Stati Uniti, e che sono i cinesi che esportano più di noi.
Ci sono, infine, le malefatte dei banchieri e del loro avventurismo speculativo con i soldi degli altri. Hanno cominciato a elargire mutui subprime e cioè insufficientemente garantiti.
E poi si sono buttati sui derivati, una diavoleria escogitata da due matematici che nemmeno i banchieri nè i loro economisti hanno ben capito.
Il che non toglie che siano riusciti a inondare il mondo con un nuovo tipo di pericolosa spazzatura.
Così oggi si scopre che abbiamo consumato le risorse per stimolare la ripresa, la crescita, senza che le nostre economie ripartano, senza che ci sia ripresa.
Anche la locomotiva tedesca sembra che si sia fermata, la disoccupazione giovanile è altissima un po’ dappertutto, e non può essere assorbita da impieghi burocratici che già soffrono di elefantiasi.
Sì, in Italia bisogna assolutamente ridurre in modo drastico un deficit che continua ad alimentare uno dei più alti debiti pubblici del mondo.
Ma bisogna anche dire la verità , tutta la verità .
Come ha ben dichiarato il presidente Napolitano: «La maggioranza ha nascosto la gravità della crisi».
Berlusconi è bravo, bravissimo, come illusionista.
Resta da scoprire se sa vedere e dire la verità .
Giovanni Sartori
(da “Il Corriere della Sera“)
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Agosto 30th, 2011 Riccardo Fucile
DOPO 16 ANNI DI GESTIONE DEL CENTRO DI RECUPERO DALLA TOSSICODIPENDENZA, ANDREA MUCCIOLI LASCIA L’INCARICO…I CONTRASTI CON LETIZIA E GIAN MARCO MORATTI, PRINCIPALI FINANZIATORI, ERA NOTI DA TEMPO
La notizia di una sua uscita di scena era considerata imminente da tempo. 
Adesso è ufficiale: due giorni fa Andrea Muccioli ha rassegnato le dimissioni da tutti gli incarichi che ricopriva a San Patrignano, la comunità per la cura dalla tossicodipendenza fondata nel 1978 su iniziativa di suo padre Vincenzo Muccioli.
Oggi l’uscita di scena formale di Muccioli figlio, resa nota da uno stringato comunicato stampa in cui si legge che “la Comunità esprime i suoi sentimenti di gratitudine per l’attività svolta da Andrea nel corso di questi sedici anni a favore dei ragazzi, nonchè per le tante e importanti posizioni da lui assunte a favore delle politiche pubbliche di contrasto e prevenzione all’uso delle droghe”.
Dietro “la comunità ” ci sono soprattutto Gian Marco e Letizia Moratti, che della Fondazione San Patrignano sono i principali finanziatori.
E dei cui contrasti con Andrea Muccioli circolavano da tempo voci che ora, in qualche modo, queste dimissioni parrebbero confermare.
Non a caso si sa ancora poco o nulla del nuovo manager della comunità .
Secondo fonti ufficiali saranno “i responsabili dei diversi settori in cui è strutturata San Patrignano che proseguiranno, con la dedizione e l’impegno da sempre profusi, le attività di conduzione”.
E dunque, continua il comunicato con una perifrasi fumosa, “a loro spetterà collegialmente di impostare il futuro assetto organizzativo della Comunità nel rispetto dei principi e dei valori voluti e perseguitidal Fondatore Vincenzo Muccioli”.
Negli ultimi tempi ambienti vicini alla famiglia Moratti avevano riferito di dissapori legati soprattutto alla gestione finanziaria.
Andrea Muccioli successe al padre Vincenzo nella gestione di San Patrignano alla sua morte, nel 1995, conservando il metodo contrario all’utilizzo di ogni tipo di sostanza stupefacente, metadone compreso, e fondato solo sul lavoro dei tossicodipendenti e sulla produzione all’interno del centro di prodotti vinicoli e alimentari di primissima quantità che vengono venduti in tutto il mondo.
Vincenzo Muccioli fu una figura carismatica ma anche molto discussa: tra le altre cose fu processato, e poi prosciolto, per la morte di Roberto Maranzano nella porcilaia della comunità .
Ma anche la gestione recente da parte di Muccioli junior ultimamente viveva una fase critica: un calo vertiginoso degli ospiti, che si traduce in problemi economici per una comunità che, più che con le donazioni, punterebbe a reggersi proprio con gli autofinanziamenti derivanti dal lavoro umano.
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