Destra di Popolo.net

LA DIGOS NOTIFICA LA CITAZIONE A PRESENTARSI AL PREMIER: “FISSI UNA DATA ENTRO 5 GIORNI O RICHIESTA AL PARLAMENTO DI ACCOMPAGNAMENTO COATTO”

Settembre 13th, 2011 Riccardo Fucile

ULTIMATUM DELLA PROCURA DI NAPOLI A BERLUSCONI.,,,LA DIGOS AD ARCORE PER INVITARLO A DEPORRE ENTRO DOMENICA COME TESTIMONE PARTE LESA NEL PROCEDIMENTO PER TENTATA ESTORSIONE NEL CASO TARANTINI-LAVITOLA

“Nessun appuntamento è stato ancora fissato. Non possiamo fare accompagnare in maniera coatta il premier. Possiamo solo rivolgerci al Parlamento”, ha commentato il procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore.
“Gli avvocati del premier hanno consegnato poco fa una memoria — continua il procuratore — debbo ancora leggerla”.
Il riferimento è al documento depositato ieri dal legale del premier Michele Cerabona in cui Berlusconi spiega i suoi rapporti con Gianpaolo Tarantini e, soprattutto, nega di essere mai stato ricattato dall’imprenditore barese (leggi).
Insomma, una strategia per evitare il confronto diretto con i pubblici ministeri. Cerabona oggi smentisce l’esistenza della citazione recapitata ad Arcore: “Non mi risulta finora nessuna citazione pervenuta al premier Silvio Berlusconi”, ha detto all’Agi.
Quanto a una possibilità  in astratto di accompagnamento coatto (la misura prevista dal codice per i testimoni che non si presentano alla convocazione dei magistrati, ndr) ventilata da alcuni organi di informazione (l’Ansa, ndr), “non si è mai prospettata una soluzione del genere nei rapporti con la Procura”.
Oggi però Berlusconi non si trova ad Arcore essendo impegnato a Bruxelles per incontrare il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy (leggi).
Obiettivo secondo il premier: “Spiegare la manovra finanziaria all’Europa”.
Scopo sotterraneo, secondo l’opposizione, evitare l’interrogatorio fissato per oggi dai magistrati napoletani che avrebbero voluto sentirlo come parte lesa nell’inchiesta sulla presunta estorsione relativa al caso escort.
Nel pomeriggio il premier sarà  a Strasburgo dove è atteso dal presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, e più tardi avrà  un incontro con il presidente dell’Europarlamento, Jerzy Buzek.
Ieri Buzek aveva raggelato il governo italiano derubricando l’incontro a “visita di cortesia da un paio di minuti” .
Cosa che ha rinfocolato le critiche sulla “fuga” di Berlusconi dai magistrati napoletani.

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INTERVISTA AD ANGELA NAPOLI (FLI): “SIAMO DELUSI, CAPISCO I FISCHI A MIRABELLO”

Settembre 13th, 2011 Riccardo Fucile

“ABBIAMO BISOGNO DI UNA LEADERSHIP FORTE E CHIARA”… “VOGLIAMO CAPIRE DOVE STIAMO ANDANDO”…LE MANCATE DIMISSIONI DI FINI HANNO CREATO MALUMORE NELLA BASE E GRANATA RILANCIA: “AVREBBERO ACCELERATO L’ADDIO A BERLUSCONI”

“Se mi aspettavo i fischi? Non pensavo a una protesta così plateale, ma sapevo quanto il popolo di Fli aspettasse un segnale forte da parte di Fini. Che non è arrivato”.
E’ Angela Napoli, deputato finiano fin dagli esordi del partito: assieme a Fabio Granata incarna l’ala più dura e intransigente di Futuro e Libertà .
Delusa?
Un anno fa, sempre a Mirabello, avevamo intuito da parte di Fini la volontà  di un suo maggiore impegno
E invece?
Da presidente della Camera è, e sarà , costretto a mantenere un ruolo istituzionale. Di equilibrio politico
Mentre voi?
Avremmo bisogno di una strategia chiara, incisiva, identitaria all’interno del Terzo Polo. Altrimenti saremo schiacciati
Perchè non si è dimesso?
Non per mancanza di responsabilità . Anzi, forse per troppa responsabilità  nei confronti dello Stato, in un momento di crisi pesante, dove viviamo uno sbandamento generale. Anche se…
Cosa?
Ritengo altrettanto importante tutelare l’opposizione
C’è chi ipotizza un pressing di Napolitano per non farlo dimettere
Il presidente della Repubblica sta gestendo questo momento di crisi generale cercando di richiamare tutti a un senso di responsabilità . E probabilmente Fini lo ha percepito in tal senso. Comunque niente di diretto.
Nella base, dopo il discorso, ha percepito lo scoramento?
Eccome! E lo hanno rivolto in particolare a noi. Probabilmente il presidente Fini non lo ha colto, ma noi che eravamo in mezzo al pubblico siamo stati accerchiati da militanti che manifestavano la propria delusione
Cosa le dicevano?
Volevano capire dove stiamo andando, chiedevano chiarezza rispetto al progetto inziale
In particolare dove manca la chiarezza?
Sulla linea politica. Le faccio un esempio: non basta dire “questa manovra è iniqua”, dobbiamo trovare anche il modo di essere più incisivi con proposte e iniziative
Comunque Fini inizierà  un tour per l’Italia
Sì, e mi auguro anche torni il suo nome sul simbolo. Ma ribadisco: ci sentiamo troppo appiattiti all’interno del Terzo Polo.
Come giudica l’interregno di Bocchino?
Ha dovuto mantenere l’equilibrio in una fase politica molto mobile
Ha firmato sul referendum?
Certo. E come me diversi esponenti calabresi di Fli
Sul Molise?
Non possiamo appoggiare Iorio (Pdl). Assolutamente.

Alessandro Ferrucci
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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CORNA E CULONA, LE GAFFE PLANETARIE DI SILVIO PER LE QUALI IL MONDO CI RIDE DIETRO

Settembre 13th, 2011 Riccardo Fucile

UN RE MIDA ALLA ROVESCIA: TUTTO   QUELLO CHE TOCCA SI DISSOLVE…UN TEMPO QUALCUNO SI DIVERTIVA, ORA E’ SOLO GROTTESCO

Andiamo alla sintesi brutale, usando il lessico informale del berlusconismo: la “culona inchiavabile” si è chiavata “Papi”.
Oppure, in modo didascalico: Angela Merkel ha strapazzato Silvio Berlusconi.
O anche, con tono epico-storico: la Germania è per la terza volta in battaglia con l’Italia, è una guerra asimmetrica, la guerra dello spread, e noi siamo di nuovo a un passo da Caporetto.
Ci deve essere sicuramente una nemesi, nel dramma dei mercati che stiamo vivendo, se l’ingiuria goliardica che fino a ieri nel nostro paese sarebbe stata archiviata con un’alzata di spalle, sul piano internazionale, oggi è stata punita dal flagello vendicativo del tasso impazzito, dal morbo che in questi tempi feroci corrode senza rimedio le monete, i paesi e le leadership.
Avvertenza per il lettore: questo articolo non può che essere scurrile.
Immaginate l’impatto devastante dello stilema classifica-Discoring applicato al repertorio zoologico della cosiddetta “diplomazia del sorriso”, quella di cui il Cavaliere ha fatto ampio e orgoglioso sfoggio in questi anni.
La crisi ha prodotto anche questo ribaltamento.
Tutto quello che un tempo a molti appariva grossolano e divertente, ma sopportabile, adesso diventa insostenibile, grottesco, e persino compromettente.
Provate a prendere anche una dichiarazione apparentemente amena del nostro presidente del Consiglio che, nella conferenza di fine anno, sembrava soltanto azzardata: “Il mio orgoglio è quello di aver portato in dote all’Italia una mia diplomazia privata. Mi vanto di avere tre grandi amici nel mondo: Ben Alì, Mubarak e Gheddafi”.
Micidiale. In meno di un anno dei tre amici uno è finito in carcere, due sono latitanti.
Ieri si poteva sorridere, oggi, questa frase appare surreale e vagamente iettatoria.
E dire che il Cavaliere era quello che nel momento in cui si decideva la guerra diceva “Non voglio disturbare Gheddafi”, e che solo quattro mesi dopo rivelava in un retroscena pubblicato dal Corriere della Sera: “Muammad mi vuole uccidere!”.
Se “la diplomazia del sorriso”, almeno nella testa di Berlusconi ha veramente avuto un senso, adesso non ce l’ha più nemmeno lì.
Perchè l’uomo che si immaginava Re Mida ha ormai assunto un tocco rovesciato, tutto quel che sfiora, si dissolve, il carisma spavaldo è stato corroso dal senso del ridicolo.
Ricordate le corna, esibite davanti agli scout, sulla testa dell’allora ministro degli Esteri spagnolo Josep Piquè, nel tentativo di elevare a lingua di Stato l’estetica di Pierino?
In questa Europa , non c’è più spazio per scherzare, non c’è scongiuro o burla possibile per chi cambia cinque Finanziarie in due mesi.
Dice De Benedetti che Berlusconi, dopo aver promesso di non mettere le mani nelle tasche degli italiani “Deve aver sbagliato pantaloni”. Sublime.
Ma ai mercati non si possono raccontare nuovi miracoli italiani.
C’è stato un passaggio di epoca, bisognerebbe prenderne atto.
Ricordate il siparietto ridanciano con il primo ministro danese (e all’epoca) presidente di turno dell’Ue, Anders Fogh Rasmussen?
“Lui è il premier più bello d’Europa. Penso di presentarlo a mia moglie perchè è anche più bello di Cacciari. Con tutto quello che si dice in giro…”.
Povero Silvio. Lì iniziava il calvario che lo portava al divorzio e alla satiriasi sulla via di Casoria e dell’Olgettina.
C’era bisogno di esibirlo davanti al mondo? E che dire del memorabile discorso pronunciato davanti al capogruppo dell’Spd a Strasburgo, era il lontano 2003, quando i mulini erano bianchi e Berlusconi (essendo più giovane) non aveva ancora i capelli: “Siete turisti della democrazia. Lei può fare la parte del kapò in un film sui nazisti!”.
All’epoca si poteva sorridere, oggi l’estetica della barzelletta non può risolvere i rapporti di forza con la Banca centrale.
Alla culona inchiavabile, Berlusconi fece anche attendere sconcertata, una lunga discussione al telefonino mentre il protocollo richiedeva una sfilata marziale.
E che dire di quel grido da gita scolastica, “Mr Obamaaaa!”, che strappò un gesto di sconcerto anche alla regina Elisabetta e alla sua borsetta? Si poteva fare peggio?
Sì, definire il presidente americano “abbronzato”. Lo sventurato lo ha fatto.
Adesso non servono a nulla le carnevalate con i capelloni gemelli di foca bianca assieme all’amico Putin”, che pure non alleggerivano l’imbarazzo per l’abbraccio stringi-tette (con bacio rifiutato) all’operaia russa, durante la visita di Stato (considerato più grave — purtroppo — dell’apprezzamento erotico alla terremotata italiana).
Non fa più ridere l’idea che abbiamo avuto un premier convinto che “in Cecenia siano stati rispettati i diritti civili”, non serve più a nulla il tentativo imbarazzato di nascondere la figuraccia mondiale fatta con la presidente finlandese Tarja Halonen, sostenendo di aver intrecciato, nelle trattative per assegnare la sede dell’agenzia alimentare, diplomazia e corteggiamento.
Figurarsi.
Eppure Berlusconi, parlando di fronte al presidente della commissione Ue Josè Manuel Barroso, aveva così vantato le sue liaisons dangereuses: “Quando si insegue un risultato bisogna usare tutte le armi che si hanno a disposizione… e quindi io ho rispolverato tutte le mie arti da playboy, ormai lontane nel tempo, e utilizzato una serie di sollecitazioni amorevoli nei confronti della signora presidente”.
Povera Tarja: dopo il bunga bunga è difficile sorridere su queste battute.
Oppure sulle strapaesanerie del tipo: “Posso parlare della superiorità  del culatello sulla renna affumicata, anche perchè ho dovuto sottostare alla dieta finlandese e so cosa significa…”.
Ora c’è la dieta tisanoreica, il cucù ce lo fanno la Merkel, lo spread, i miliardi che vanno in fumo ogni giorno, nelle aste dei titoli di Stato.
Ora, se volesse davvero sorprendere, Berlusconi dovrebbe ripetere la scena che fece con Zapatero.
Andarsene senza spiegazioni.
Noi al contrario di Josè Luis, capiremmo: Cucù Silvio.

Luca Telese blog

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L’IMBUCATO: L’EUROPA RIDICOLIZZA BERLUSCONI, “GLI DIAMO DUE MINUTI”

Settembre 13th, 2011 Riccardo Fucile

L’EUROPA SBUGIARDA IL TRUCCO DEL PREMIER IN FUGA DAI PM… ALTRO CHE VERTICE, GIUSTO IL TEMPO DI UN CAFFE’ ESPRESSO

C’è chi si nasconde dietro a un dito; e chi, più pudicamente, dietro un paravento.
Mr B si nasconde dietro l’Unione europea. O, almeno, ci prova.
Perchè i suoi interlocutori europei, che saranno magari vasi di coccio fra i vasi di ferro tedeschi e francesi, ma con gli italiani ci vanno (quasi) alla pari, si prestano con riluttanza alla pantomima inscenata dal Silvio nazionale, che s’inventa di dovere andare in fretta e furia a informare l’Ue sulla manovra in dirittura d’arrivo; e proprio oggi, martedì, quando doveva rispondere alle domande dei magistrati di Napoli sul caso Tarantini.
Il presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek, Ppe come lui, lo umilia in aula: “Gli potrò dedicare al massimo due minuti”, tanto vale la conclamata ‘emergenza Italia’; o tanto vale il nostro premier.
Per Van Rompuy, Barroso, Buzek, negargli l’appuntamento era diplomaticamente impossibile.
Ma, al di là  delle versioni ufficiali di questa storia, che vedremo, fonti vicine ai leader europei ne testimoniano il fastidio per essere stati messi in mezzo e ‘usati’.
L’Unione non aveva urgenza di sentire Berlusconi sulla manovra; era Berlusconi che cercava un modo di sottrarsi all’interrogatorio.
Che cosa pensa della manovra, la Commissione europea lo ha già  detto. E ieri il responsabile dell’Economia Olli Rehn ha ribadito che l’Italia deve essere pronta a nuove misure se le entrate risulteranno inferiori alle attese, cioè se la lotta all’evasione fiscale, i contributi straordinari, la riduzione della spesa pubblica e, ora, l’aumento dell’Iva non bastassero a centrare gli obiettivi di risanamento dei conti.
C’è pure il rischio che questa gita europea tra Bruxelles e Strasburgo non sia una passeggiata, ma un calvario: Mr B. cerca avalli, ma troverà  ammonimenti e se ne tornerà  a casa strigliato a lucido.
Non che gli importi molto: per lui, quel che dice Bruxelles conta solo in funzione dei suoi calcoli interni.
Ne è prova la leggerezza con cui l’Italia, alla vigilia della missione del premier, si mette contro Commissione e Parlamento chiedendo, assieme ad altri sette Paesi, pesanti tagli al bilancio comunitario 2014-’20.
La ricerca di una via di fuga europea dai magistrati di Napoli è iniziata, in pratica, subito dopo l’annuncio dell’interrogatorio del premier come parte lesa e s’è conclusa, di fatto, sabato sera, quando i legali di Mr B. hanno informato del ‘legittimo impedimento’ la Procura napoletana, che ha filosoficamente commentato “troveremo un altro momento”.
O forse no, visto che, oggi, gli avvocati del premier depositeranno a Napoli una memoria difensiva, per la serie “ti racconto quel che voglio e non mi faccio fare domande”.
La definizione degli appuntamenti europei non è stata facile.
Gli aggiustamenti dell’agenda sono proseguiti fino a ieri.
Il Cavaliere all’intervistatore di fiducia Belpietro sulla rete di casa Canale 5, racconta: “A causa del comportamento dell’opposizione e dei suoi giornali, si è creata sulla manovra molta confusione”, glissando sul fatto che la confusione derivava, piuttosto, dai continui tentennamenti della sua maggioranza.
Dunque, la visita alle istituzioni europee non sarebbe una fuga, ma “un dovere”, dopo che s’era indotta l’Ue a pensare che “il governo italiano non fosse intenzionato a fare i sacrifici per arrivare al pareggio di bilancio nel 2013”.
C’era “la necessità ”, suggerita dal commissario Antonio Tajani e dal capofila Pdl al Parlamento Mario Mauro, “di confortare i nostri interlocutori europei per chiarire come sia tutto il contrario”.
Sabato, però, Berlusconi, che non si pone mai il problema della congruità  di quel che dice, aveva attribuito la genesi della missione alle dimissioni del membro tedesco del direttivo Bce Stark, date venerdì pomeriggio.
In realtà , gli umori raccolti a Bruxelles in conversazioni informali non corroborano affatto queste versioni.
Gli interlocutori europei non avevano tutta questa impellenza di essere confortati da Berlusconi.
E neppure la data di oggi è davvero ideale: lo prova la riluttanza del presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek a dare un appuntamento al Cavaliere.
Inoltre, l’Assemblea è in sessione a Strasburgo e anche la Commissione si riunisce lì, per cui al premier per vedere Barroso e Van Rompuy non basta uscire da un palazzo ed entrare in quello di fronte, ma tocca fare una navetta di 500 chilometri: al mattino a Bruxelles vedrà  il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy; nel pomeriggio a Strasburgo il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso.
Avrà  pure un incontro fuggevole, “di cortesia e informale”, con Buzek, che, polacco, bada a ricevere il presidente del suo Paese Bronislaw Komorowski: “Potrò al massimo concedergli due minuti”, dice in aula, quasi uno sberleffo verso l’ospite ‘imbucato’.
Formalmente, le istituzioni comunitarie smorzano le polemiche.
Il portavoce di Barroso dice che l’incontro di oggi “fa parte dei contatti regolari” con i leader europei: “È stato chiesto la settimana scorsa da Roma e fissato per oggi, in funzione delle agende dei due leader”.
Il portavoce di Buzek precisa che la richiesta risale a venerdì.
Ma i parlamentari non hanno peli sulla lingua: ieri ci sono già  stati interventi ironici e polemici.
Mauro denuncia il “tono fortemente intimidatorio” dell’eurodeputata verde Rebecca Harms nel chiedere spiegazioni sulla visita di Mr B.; e il Ppe teme incidenti in aula.
I verdi intendono riproporre il tema, ma il capogruppo dei socialisti, quel Martin Schulz che Berlusconi definì “Kapò” nell’emiciclo di Strasburgo, sarebbe intenzionato a non farne un caso: domani, si candiderà  alla presidenza dell’Assemblea dopo Buzek (un’alternanza a metà  legislatura già  concordata).
Dall’Italia, il Pd invita il premier “a restare a casa”, risparmiandoci “figuracce” e l’Idv denuncia “i voli last minute che non servono all’Italia”.

Giampiero Gramaglia
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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ECCO PERCHE’ FINI NON LASCIA LA PRESIDENZA DELLA CAMERA PER DEDICARSI AL PARTITO

Settembre 13th, 2011 Riccardo Fucile

RAGIONI CARATTERIALI E PERSONALI O RAGIONE POLITICA?…PER FINI   FLI E’ UN PARTITO A TEMPO O   A SCADENZA, NATO COME BACINO DI CONTENIMENTO PER ASSICURARE AGIBILITA’ POLITICA NEL MOMENTO DELLA ROTTURA CON IL PREMIER…FLI E’ UN RIFUGIO DI FORTUNA IN ATTESA DEL CROLLO DI BERLUSCONI: POI VI SARANNO NUOVE AGGREGAZIONI   E FLI AVRA’ ESAURITO IL SUO COMPITO

C’è una ragione “politica” — dunque non personalistica o dettata da ragioni caratteriali — che possa giustificare la decisione di Gianfranco Fini, reiterata l’altro dì a Mirabello tra qualche malumore della sua base militante, di non abbandonare la carica di Presidente della Camera per assumere in prima persona la guida di Futuro e libertà ?
S’è detto che a frenarlo è un’atavica e notoria indolenza, che lo ha spinto ad affidare alle altrui fatiche la sua ultima creatura politica.
Ovvero il timore di perdere una posizione istituzionale che gli garantisce, a conti fatti, autorevolezza e visibilità  (oltre ad alcuni non trascurabili benefici materiali).
Altri hanno sostenuto che a costringerlo in quel ruolo, che egli volentieri lascerebbe per tornare nelle piazze, è il Capo dello Stato, che di lui si fida e molto meno si fiderebbe — soprattutto nell’eventualità  di una crisi parlamentare, data da parecchi osservatori come imminente — di un uomo che giungesse alla guida di Montecitorio su mandato di Berlusconi. Infine, s’è chiamata in causa la mancanza di coerenza (e di senso della responsabilità ) di chi, pur appellandosi ogni giorno allo Stato e al rispetto delle istituzioni, non si è ancora reso conto del danno arrecato alla somma carica che riveste, che dovrebbe essere quanto più possibile neutrale e super partes, dal suo continuo intervenire nel dibattito pubblico alla stregua di un capo fazione.
La ragione suddetta — di natura per l’appunto politica — a ben vedere esiste, per quanto possa risultare sgradita a chi sinora ha creduto nel progetto di Futuro e libertà , ritenendolo magari un progetto minoritario e tutto in salita, ma destinato a porre le basi di una destra a venire, finalmente libera dal giogo berlusconiano.
Essa consiste nel fatto che Fini per primo, pur avendolo fatto nascere, non crede nell’utilità  strategica del partito affidato alle cure e alle ambizioni di Italo Bocchino.
Futuro e libertà  per Fini è, con ogni evidenza, un partito “a tempo” o se si vuole a scadenza, come i prodotti alimentari e farmaceutici.
E’ nato, a dispetto dell’enfasi con cui è stato presentato all’opinione pubblica, come bacino di contenimento all’indomani della perduta battaglia parlamentare con il Cavaliere; dunque per offrire uno spazio di manovra e un minimo di agibilità  politica a coloro che generosamente sono rimasti al fianco di Fini anche all’indomani del fallito assalto del 14 dicembre 2010.
Nella testa del Presidente della Camera — che nel discorso di Mirabello, forse senza essere nemmeno compreso dai suoi, ha correttamente e sinceramente derubricato Futuro e libertà  da partito organizzato a movimento di idee — nell’attesa che il “regno di Berlusconi” cada davvero ciò che serve non è una struttura radicata sul territorio, ovvero un simulacro di ciò che furono il Msi prima e Alleanza nazionale poi, ma una sigla di comodo, un rifugio di fortuna, che assicuri la sopravvivenza sino a che quel giorno fatale sarà  arrivato.
L’idea che dal giorno seguente alla caduta o scomparsa di Berlusconi tutto sarà  diverso da oggi, che i giochi si riapriranno e tutto diverrà  possibile, che si apriranno spazi di manovra inediti e al momento non prevedibili, non è in effetti del solo Fini, ma di un pezzo consistente della nostra classe politica.
Nessuno ama pensare che venendo meno il Cavaliere venga contestualmente meno un intero assetto politico-istituzionale, che con lui possano sparire molti di coloro che di quest’ultimo ventennio sono stati, in qualche modo, protagonisti o partecipi.
Difficile dire se si tratti di una valutazione minimamente fondata o di un abbaglio collettivo che rischia di essere pagato a caro prezzo da chi lo coltiva.
Quel che conta è che un tale convincimento sembra stare alla base della scelta di Fini di farsi un partito (ovvero una sigla con la quale rendersi riconoscibile nel dibattito politico), ma di non assumerne direttamente la guida.
Perchè mettersi al vertice di una formazione destinata a sparire un attimo dopo che il “nemico pubblico” numero uno non sarà  più tale?
La vera partita di Fini — questo pensa il medesimo Fini con ogni probabilità  — non si gioca oggi, attraverso un partito che, sondaggi alla mano, vale al massimo il 3% dei consensi, ma in un domani imprevedibile e tutto da inventare, all’interno del quale Futuro e libertà , nella sua configurazione attuale, non avrà  alcun ruolo da svolgere e si risolverà  in poco più che un ricordo.
Lo schema mentale del Presidente della Camera prevede, a ben vedere, che il dopo-Berlusconi ricalchi, nei suoi effetti se non nella sua dinamica, la fine della Prima Repubblica: ciò significa che la scomparsa più o meno traumatica dei vecchi attori, piccoli e grandi, favorirà  la costituzione di nuove aggregazioni.
E come nel passaggio da un assetto partitico-istituzionale all’altro, tra il 1992 e il 1994, a Fini riuscì d’inserirsi nella dialettica politica con un ruolo da protagonista, lo stesso potrebbe accadere nel caso di un nuovo (e assai probabile) crollo di sistema.
Si potrebbe obiettare che la storia non si ripete mai eguale a se stessa.
E che l’abilità  dimostrata in un’occasione (o la fortuna di cui s’è beneficiato in quella particolare circostanza) non è detto che si possa replicare.
Ma ciò rientra nelle considerazioni (e speranze) soggettive.
Ciò che meritava di essere spiegato è perchè Fini, nello sconcerto di molti osservatori e di una fetta consistente dei suoi stessi sostenitori, si tiene cosi stretta la poltrona di Presidente della Camera e lascia ad altri la conduzione politico-organizzativa di Futuro e libertà .
La ragione s’è detta ed è molto semplice: perchè il partito che deciderà  del suo eventuale futuro politico non è quello che si è riunito domenica scorsa a Mirabello.
Eccesso di cinismo o di lungimiranza?
Lo decida il lettore.

Giuliano Gioberti
(da IDP Istituto di politica)

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E I COMUNI RIMASERO AL VERDE

Settembre 13th, 2011 Riccardo Fucile

NIENTE SOLDI DALLO STATO, POCHE IMPOSTE, SI RISCHIA IL CRAC… DALLA LEGGE BASSANINI DEL 1997 CHE INAUGURO’ LA STAGIONE DEL DECENTRAMENTO, I FONDI TRASFERITI AGLI ENTI LOCALI SONO CROLLATI

Ha ragione il governo a tagliare ancora in periferia oppure i sindaci a scioperare giovedì contro la terza manovra «ammazza autonomie» in 13 mesi?
Se analizziamo i rapporti tra Roma e i comuni italiani nell’ultimo ventennio, più i secondi.
La Seconda Repubblica nasce infatti sull’elezione diretta dei sindaci e la promessa di federalismo targato Lega nord, ma oggi rischia di morire di troppo centralismo.
La serie storica è impressionante: nel 1992 i trasferimenti erariali dallo stato ai comuni valevano 17,5 miliardi, nel 2011 appena 12,5.
Solo in parte compensati da entrate locali e addizionali.
Per capire il paradosso occorre fare un passo indietro.
Nell’estate del 1970 nascono le regioni ma la riforma tributaria del 1971-73 smonta subito dopo il proto federalismo introdotto addirittura durante il fascismo.
Il passaggio alla finanza derivata elimina le entrate proprie, trasforma i comuni in accattoni e rende fiscalmente irresponsabili i territori.
Il boom del debito pubblico negli anni Ottanta è lì a dimostrarlo.
Il superamento dei rimborsi a piè di lista viene fissato solo nel 1990 (legge 142), poi applicato nel decreto legislativo 504 del 1992 che inaugura la stagione autonomista: tributi propri, addizionali, compartecipazioni e razionalizzazione dei trasferimenti dal centro.
Per i cittadini la svolta prende il nome di Ici, l’imposta comunale sugli immobili introdotta nel 1993, ancorata ad una base imponibile ampia che garantisce gettiti elevati con aliquote ridotte.
Il nuovo corso della finanza locale va a braccetto con la primavera politica.
Dopo il biennio tragico di Mani Pulite la riscoperta delle autonomie diventa la via italiana alla modernizzazione del Paese.
Cancellata un’intera classe dirigente, i sindaci incarnano per un tratto la vera riserva della Repubblica.
Se prendiamo i trasferimenti ai comuni, il primo grosso taglio di 4 miliardi (dai 17,6 miliardi del ’93 ai 13,6 del ’94) viene appunto compensato dall’avvio dell’Ici, il cui gettito vale 10mila miliardi di vecchie lire (quando nel luglio 2008 Silvio Berlusconi la abolisce sulla prima casa, rendeva 3,3 miliardi).
Per qualche anno i trasferimenti da Roma galleggiano intorno ai 13 miliardi.
Ogni calo si giustifica tendenzialmente con l’avvio di nuovi tributi locali.
Ad esempio il taglio di quasi 1,5 miliardi tra il 1999 e il 2000 viene compensato dalla partecipazione facoltativa a quote di gettito sull’addizionale Irpef.
Una leva che porta in cassa ai comuni 274 milioni nel ’99 e poi, progressivamente, 670 nel 2000, un miliardo nel 2001 fino ai 2,7 miliardi di oggi.
Nel frattempo nel biennio 1997-99 parte il processo di decentramento amministrativo conosciuto col nome di Leggi Bassanini. Fino ad arrivare nel 2001, ultima tappa dei travagliati governi dell’Ulivo, alla Riforma del Titolo V della Costituzione. In sostanza negli anni Novanta, pur tra mille conservatorismi, i comuni sembrano incarnare la versione aggiornata di un certo municipalismo sturziano.
Leva fiscale, autonomia impositiva e patto di stabilità  intelligente.
Il ritorno alle origini di un’Italia consumata dal centralismo ma che resta, in fondo, il Paese dei mille campanili.
Ma sarà  un fuoco di paglia.
Più l’approdo federalista si avvicina più da Roma aumentano i tagli, si (ri)centralizza la spesa, si bloccano le addizionali Irpef (lo fa il Berlusconi bis dal gennaio 2002 praticamente a fine mandato, poi Prodi le sblocca nel 2006 e il Cavaliere le ri-blocca nel 2008 per un triennio) e soprattutto si cambia il patto di stabilità .
Fino al 2001, con Piero Giarda alla finanza locale del Tesoro, la spesa per investimenti non rientra nel computo.
Con il ritorno del centrodestra a palazzo Chigi, dal 2004 si passa dalla tecnica dei tagli a quella dei saldi. Si fissano alcune voci di spesa corrente e in conto capitale e su queste si calcola il patto.
Sul triennio 2006-2008 il nuovo meccanismo ibrido produce un crollo degli investimenti del 25 per cento. Non basta.
Tra il 2003 e il 2007 scendono anche i trasferimenti da Roma (da 14 miliardi a 11,6).
Il flusso risale a 14,5 nel 2008 solo grazie alla finzione contabile dell’abolizione Ici prima casa: lo stato infatti restituisce l’introito calcolato sul gettito storico, ma sulle costruzioni post 2008 i sindaci incassano più nulla pur dovendo garantire i servizi.
Per un po’ gli enti locali tamponano usando il 75% degli oneri di urbanizzazione per coprire la spesa corrente.
Al prezzo di consumare suolo, barattano soldi facili (1,5 miliardi l’anno) con licenze a costruire. Ma oggi il Bengodi è finito e in attesa del Godot federalista sul piatto restano i tagli dell’ultimo biennio a valere sul 2011-2014, pari al 40% delle risorse trasferite nel 2010, quelli indiretti dalle Regioni, e un patto distabilità  che blocca 43 miliardi di residui utilizzabili per riavviare lo sviluppo locale, nonostante a livello ‘macro’ i comuni abbiano contribuito a migliorare i saldi del debito pubblico per 3 miliardi di euro.
Per garantire i servizi, i sindaci saranno quindi costretti ad aumentare le tasse alzando al massimo l’aliquota Irpef (0,8%), trasformandosi in esattori per conto di un governo che scarica l’onere delle tasse in periferia.
«A partire dalla riforma del Titolo V la spesa dello stato è aumentata di 300 miliardi», riassume caustico Angelo Rughetti, direttore generale dell’Anci.
E soprattutto «si sono spostati 10 miliardi l’anno dai territori verso Roma».
Alla faccia del federalismo….

Marco Alfieri

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IL BLUFF DEL TAGLIO DELLE PROVINCE: 61.000 LAVORATORI CONFERMATI E CON UN AUMENTO DI STIPENDIO

Settembre 13th, 2011 Riccardo Fucile

I DIPENDENTI DEGLI ENTI LOCALI POTRANNO PASSARE ALLE REGIONI CON UN TRATTAMENTO CONTRATTUALE MIGLIORE… FINGONO DI CHIUDERE LE PROVINCE MA CREANO “AGENZIE TERRITORIALI”   CON ANALOGHI COSTI…IN OGNI CASO CI VORRANNO ANNI PRIMA DI VEDERE BENEFICI

Una cura drastica che minaccia di trasformarsi in un bluff.
Risparmi? Si fa presto a parlarne: alla fine il disegno di legge costituzionale che taglia le Province potrebbe addirittura determinare un aumento della spesa pubblica.
Perchè, soppressi gli enti (almeno nell’attuale forma costituzionale), resta il “nodo” dei 61 mila dipendenti in servizio.
Che fine faranno? Il testo approvato dal Consiglio dei ministri non dice nulla al riguardo.
Ma secondo una delle tesi più accreditate – è la lettura, ad esempio, del presidente dell’Upi Giuseppe Castiglione – dovrebbero finire negli organici delle Regioni.
E ciò, per effetto dei differenti contratti collettivi, non avrebbe conseguenze irrilevanti: il trattamento economico complessivo dei regionali è superiore del 24 per cento rispetto a quello del personale degli enti locali.
In soldoni: la spesa per gli stipendi, che attualmente ammonta nelle Province a 2 miliardi 300 milioni, crescerebbe di 600 milioni di euro.
«Un paradosso», ripete più volte Castiglione, pidiellino finito in conflitto con il governo.
Un incremento di costi che farebbe a pugni con la clausola di salvaguardia apposta nel ddl, che impone alle Regioni una riduzione delle spese.
Un aumento delle uscite maggiore dei risparmi determinati dal taglio degli apparati politici.
Le indennità  di presidenti, assessori e consiglieri oggi pesano in tutto per 113 milioni di euro sui bilanci.
Ma è una somma che non tiene conto di una doppia riduzione: quella già  decisa nel 2010 con la diminuzione del 20 per cento dei consiglieri e quella contenuta nella manovra al vaglio del Parlamento, che prevede la sforbiciata di un’altra metà  degli eletti.
Significa, per intenderci, che già  dalle prossime elezioni i Consigli provinciali di Milano o di Palermo scenderebbero comunque da 45 a 18 componenti.
Con l’abolizione tout court delle Province, il risparmio totale sarebbe di 35 milioni. Appena lo 0,3 per cento della spesa per le Province, che oggi si attesta sui 12 miliardi.
E le voci di spesa più rilevanti per le funzioni oggi svolte dalle amministrazioni provinciali qualcuno dovrà  in ogni caso accollarsele: per viabilità  e trasporti se ne vanno un miliardo 451 milioni di euro, per l’ambiente 3 miliardi 328 milioni, per le scuole 2 miliardi 234 milioni.
Chi assumerà  questi compiti? Se non le Regioni, che potrebbero essere costrette a farlo creando enti e agenzie territoriali, saranno naturaliter le associazioni dei Comuni previste dal disegno di legge.
Nuove strutture amministrative «per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta» la cui istituzione è delegata alle Regioni, che con legge dovranno definirne organi, funzioni e legislazione elettorale. Mini-Province, o Province decostituzionalizzate che, sganciate dalle procedure fissate della Carta, potrebbero rimpiazzare o anche superare per numero le attuali. In base anche ad appetiti politici locali.
Gli stessi che, in Sicilia, hanno portato alcuni esponenti politici a promuovere un disegno di legge per la nuova Provincia di Gela.
Altri esempi: Province come quella di Torino, che conta 300 Comuni, o di Messina (che ne ha 108), potrebbero dar vita a una costosa filiazione.
«Il pericolo è che si imponga il modello Sardegna», osserva Castiglione.
Nell’isola, per iniziativa del Consiglio regionale, negli ultimi anni le Province sono diventate 8.
Particolare non secondario: il provvedimento varato dal governo prevede che, qualora le Regioni non provvedano a decidere numeri e forma delle associazioni dei Comuni entro un anno dall’entrata in vigore della legge, le associazioni nasceranno ugualmente, in modo automatico, nel medesimo territorio delle Province soppresse. Vuoi vedere che le «aree vaste» saranno solo fotocopie degli enti cancellati sulla carta?
L’Aiccre, l’associazione dei Comuni e delle Regioni d’Europa, non ha dubbi: «Aumenteranno gli enti territoriali e le spese», dice il segretario Vincenzo Menna. Anche perchè le nuove articolazioni congegnate da Tremonti e Calderoli vanno a sovrapporsi alle già  esistenti unioni dei Comuni, previste dal Testo unico degli enti locali.
Poi c’è il nodo dei tempi: per far diventare definitivo il colpo di scure sulle Province servono almeno altri quattro sì: quelli delle due Camere che devono esprimersi in doppia lettura a distanza di tre mesi sulla legge costituzionale.
Poi il termine (altri 90 giorni) per un’eventuale richiesta di referendum.
Se si andasse ad elezioni anticipate, il disegno di legge finirebbe su un binario morto. Qualche chance in più avrebbe il testo in caso di scadenza naturale della legislatura. Ma l’anno di tempo assegnato alle Regioni per istituire le «aree vaste» allungherà  comunque la vita delle attuali Province.
L’intero percorso legislativo, infatti, non potrà  concludersi prima del 2014.
Le elezioni provinciali, nei prossimi due anni, si svolgeranno regolarmente e i mandati quinquennali dovranno poi concludersi: decine di enti, insomma, sopravviveranno sino al 2018.
In barba alla cura drastica annunciata da Palazzo Chigi.

Emanuele Lauria
(da “La Repubblica“)

argomento: Costume, denuncia, economia, emergenza, governo, Politica, Provincia, radici e valori | Commenta »

OTTO MILIONI DI STUDENTI RITORNANO A SCUOLA: SONO 9.000 GLI ISTITUTI SCOLASTICI SPARSI PER L’ITALIA

Settembre 13th, 2011 Riccardo Fucile

MOLTI GLI ACCOPAMENTI E I CONSEGUENTI TAGLI E DISAGI… TUTTE LE NOVITà€ DEL NUOVO ANNO

Ieri è iniziato il grande ritorno a scuola di 7 milioni 830 mila alunni divisi in circa 9.500 istituti, un avvio «regolare», «con tutti i docenti in cattedra» e con «un aumento del tempo pieno» promette il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
Molte le novità  che quest’anno porterà  a gran parte di loro.
Scuola cancellate
Soprattutto chi frequenta le elementari al sud, potrebbe trovare il proprio istituto accorpato: infatti 900 delle attuali 10.500 istituzioni scolastiche verranno unite a sedi scolastiche con almeno 500 alunni.
Secondo i calcoli di «Tutto Scuola» sarà  eliminato il 30% dell’organico di dirigente scolastico.
Salterà  anche l’11% dei posti di direttore amministrativo (1.130 posti) e verranno tagliati 1.100 posti di assistente amministrativo.
Istituti tecnici
Da quest’anno sono operativi gli Istituti tecnici superiori (Its): sono 59 in tutt’Italia, e si tratta di corsi biennali di livello postsecondario, quindi da svolgere dopo il diploma.
Stranier
Confermato il no deciso alle classi ghetto: la percentuale massima di alunni stranieri per classe potrà  essere del 30%.
Una disposizione, però, che non potrà  essere applicata in tutti i casi: nei poli industriali e nelle città  con un’alta densità  di famiglie di origini non italiane la presenza di alunni stranieri sarà  inevitabilmente alta.
Secondo la fondazione Migrantes almeno in 2 mila casi il loro numero supererà  il tetto del 30%.
Caro-libr
Il Codacons ha calcolato un aumento medio di spesa per famiglia di circa l’8 per cento rispetto al 2010.
Più contenuto l’aumento per l’osservatorio di Federconsumatori secondo cui l’aumento dei libri di testo si fermerebbe al 3 per cento, con una spesa di 481 euro (era di 468 nel 2010).
Il Ministero ha inoltre ritoccato al rialzo i tetti di spesa in percentuale variabile tra l’1,4 e il 3,8% a seconda della scuola.
L’aumento non può non avere effetti.
Per quest’anno uno studente su due comprerà  testi, scolastici o universitari, usati come appare da una ricerca condotta nella prima settimana di settembre, da Krls Network of Business Ethics per «Contribuenti.it».
Libri digitali
Per la prima volta, obbligatoriamente per legge, i libri che saranno adottati quest’anno per il prossimo anno scolastico dovranno essere testi anche in formato elettronico. Oltre alla comodità , la misura adottata dal governo dovrebbe garantire un consistente risparmio alle famiglie.
Zaini e accessori
Unica nota positiva per le tasche degli italiani è l’aumento più contenuto, in linea con l’inflazione, del corredo scolastico: +2 per cento rispetto allo scorso anno.
Il Consiglio superiore di Sanità  però raccomanda un limite di peso dello zaino del 10-15% del peso corporeo.
Borse di studi
Il Miur ha bandito borse di studio da 10mila euro, per un totale di 30milioni.
La partecipazione alle prove sarà  volontaria, ma potranno essere sostenute solo dagli studenti che conseguiranno alla maturità  un punteggio di almeno 80/100.
I test saranno elaborati dall’Invalsi e non valuteranno la preparazione strettamente scolastica degli studenti ma le competenze di base, dalla comprensione del testo alla logica.
Maturità  con test
Con il prossimo anno scolastico partirà  la sperimentazione dei test Invalsi all’Esame di Stato.
I test si svolgeranno in alcune scuole campione, su base volontaria. L’Invalsi inoltre rivedrà , a campione, anche i temi d’italiano della esame di Stato.

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