E I COMUNI RIMASERO AL VERDE
NIENTE SOLDI DALLO STATO, POCHE IMPOSTE, SI RISCHIA IL CRAC… DALLA LEGGE BASSANINI DEL 1997 CHE INAUGURO’ LA STAGIONE DEL DECENTRAMENTO, I FONDI TRASFERITI AGLI ENTI LOCALI SONO CROLLATI
Ha ragione il governo a tagliare ancora in periferia oppure i sindaci a scioperare giovedì contro la terza manovra «ammazza autonomie» in 13 mesi?
Se analizziamo i rapporti tra Roma e i comuni italiani nell’ultimo ventennio, più i secondi.
La Seconda Repubblica nasce infatti sull’elezione diretta dei sindaci e la promessa di federalismo targato Lega nord, ma oggi rischia di morire di troppo centralismo.
La serie storica è impressionante: nel 1992 i trasferimenti erariali dallo stato ai comuni valevano 17,5 miliardi, nel 2011 appena 12,5.
Solo in parte compensati da entrate locali e addizionali.
Per capire il paradosso occorre fare un passo indietro.
Nell’estate del 1970 nascono le regioni ma la riforma tributaria del 1971-73 smonta subito dopo il proto federalismo introdotto addirittura durante il fascismo.
Il passaggio alla finanza derivata elimina le entrate proprie, trasforma i comuni in accattoni e rende fiscalmente irresponsabili i territori.
Il boom del debito pubblico negli anni Ottanta è lì a dimostrarlo.
Il superamento dei rimborsi a piè di lista viene fissato solo nel 1990 (legge 142), poi applicato nel decreto legislativo 504 del 1992 che inaugura la stagione autonomista: tributi propri, addizionali, compartecipazioni e razionalizzazione dei trasferimenti dal centro.
Per i cittadini la svolta prende il nome di Ici, l’imposta comunale sugli immobili introdotta nel 1993, ancorata ad una base imponibile ampia che garantisce gettiti elevati con aliquote ridotte.
Il nuovo corso della finanza locale va a braccetto con la primavera politica.
Dopo il biennio tragico di Mani Pulite la riscoperta delle autonomie diventa la via italiana alla modernizzazione del Paese.
Cancellata un’intera classe dirigente, i sindaci incarnano per un tratto la vera riserva della Repubblica.
Se prendiamo i trasferimenti ai comuni, il primo grosso taglio di 4 miliardi (dai 17,6 miliardi del ’93 ai 13,6 del ’94) viene appunto compensato dall’avvio dell’Ici, il cui gettito vale 10mila miliardi di vecchie lire (quando nel luglio 2008 Silvio Berlusconi la abolisce sulla prima casa, rendeva 3,3 miliardi).
Per qualche anno i trasferimenti da Roma galleggiano intorno ai 13 miliardi.
Ogni calo si giustifica tendenzialmente con l’avvio di nuovi tributi locali.
Ad esempio il taglio di quasi 1,5 miliardi tra il 1999 e il 2000 viene compensato dalla partecipazione facoltativa a quote di gettito sull’addizionale Irpef.
Una leva che porta in cassa ai comuni 274 milioni nel ’99 e poi, progressivamente, 670 nel 2000, un miliardo nel 2001 fino ai 2,7 miliardi di oggi.
Nel frattempo nel biennio 1997-99 parte il processo di decentramento amministrativo conosciuto col nome di Leggi Bassanini. Fino ad arrivare nel 2001, ultima tappa dei travagliati governi dell’Ulivo, alla Riforma del Titolo V della Costituzione. In sostanza negli anni Novanta, pur tra mille conservatorismi, i comuni sembrano incarnare la versione aggiornata di un certo municipalismo sturziano.
Leva fiscale, autonomia impositiva e patto di stabilità intelligente.
Il ritorno alle origini di un’Italia consumata dal centralismo ma che resta, in fondo, il Paese dei mille campanili.
Ma sarà un fuoco di paglia.
Più l’approdo federalista si avvicina più da Roma aumentano i tagli, si (ri)centralizza la spesa, si bloccano le addizionali Irpef (lo fa il Berlusconi bis dal gennaio 2002 praticamente a fine mandato, poi Prodi le sblocca nel 2006 e il Cavaliere le ri-blocca nel 2008 per un triennio) e soprattutto si cambia il patto di stabilità .
Fino al 2001, con Piero Giarda alla finanza locale del Tesoro, la spesa per investimenti non rientra nel computo.
Con il ritorno del centrodestra a palazzo Chigi, dal 2004 si passa dalla tecnica dei tagli a quella dei saldi. Si fissano alcune voci di spesa corrente e in conto capitale e su queste si calcola il patto.
Sul triennio 2006-2008 il nuovo meccanismo ibrido produce un crollo degli investimenti del 25 per cento. Non basta.
Tra il 2003 e il 2007 scendono anche i trasferimenti da Roma (da 14 miliardi a 11,6).
Il flusso risale a 14,5 nel 2008 solo grazie alla finzione contabile dell’abolizione Ici prima casa: lo stato infatti restituisce l’introito calcolato sul gettito storico, ma sulle costruzioni post 2008 i sindaci incassano più nulla pur dovendo garantire i servizi.
Per un po’ gli enti locali tamponano usando il 75% degli oneri di urbanizzazione per coprire la spesa corrente.
Al prezzo di consumare suolo, barattano soldi facili (1,5 miliardi l’anno) con licenze a costruire. Ma oggi il Bengodi è finito e in attesa del Godot federalista sul piatto restano i tagli dell’ultimo biennio a valere sul 2011-2014, pari al 40% delle risorse trasferite nel 2010, quelli indiretti dalle Regioni, e un patto distabilità che blocca 43 miliardi di residui utilizzabili per riavviare lo sviluppo locale, nonostante a livello ‘macro’ i comuni abbiano contribuito a migliorare i saldi del debito pubblico per 3 miliardi di euro.
Per garantire i servizi, i sindaci saranno quindi costretti ad aumentare le tasse alzando al massimo l’aliquota Irpef (0,8%), trasformandosi in esattori per conto di un governo che scarica l’onere delle tasse in periferia.
«A partire dalla riforma del Titolo V la spesa dello stato è aumentata di 300 miliardi», riassume caustico Angelo Rughetti, direttore generale dell’Anci.
E soprattutto «si sono spostati 10 miliardi l’anno dai territori verso Roma».
Alla faccia del federalismo….
Marco Alfieri
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