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GIUSTIZIA, LE POLTRONE DA ASSEGNARE: LA LOTTA PER ROMA E NAPOLI

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

IN SCADENZA LA CARICA DI PROCURATORE ANTIMAFIA DI PIERO GRASSO… NELLA CAPITALE DOVREBBE FINIRE PIGNATONE, OGGI CAPO DELLA PROCURA DI REGGIO CALABRIA

Due procure importanti, quella di Roma e quella di Napoli, nelle prossime settimane avranno nuovi capi, nominati dal Consiglio superiore della magistratura.
E presto dovrebbe esserci un cambio, voluto dal ministro della Giustizia, Paola Severino, alla direzione del Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), guidato da Franco Ionta.
In autunno, invece, se si voterà  nell’aprile 2013 dovrebbe aprirsi la partita alla successione di Piero Grasso a capo della Procura nazionale antimafia.
Le indiscrezioni tra Palermo e Roma dicono, infatti, che entrerà  in politica. D’altronde, lui stesso in un’intervista al Giornale di Sicilia del 5 gennaio l’ha fatto capire: “Non guardo a un’eventuale esperienza politica sotto forma di schieramento con un partito, cosa che è estranea al mio ruolo, alla mia funzione e alla mia cultura. Penserei piuttosto a quella che ho definito una lista civica nazionale”.
In effetti, ha rifiutato l’offerta di una parte del Pd di candidarsi a sindaco di Palermo.
La nomina più sicura, a oggi, è quella del procuratore di Roma: al Csm c’è una convergenza su Giuseppe Pignatone, attuale capo della Procura di Reggio Calabria.
Ci sono pareri favorevoli e trasversali sul magistrato che da 4 anni guida una procura difficilissima come quella di Reggio Calabria.
Con l’arrivo da Palermo di Pignatone e del procuratore aggiunto, Michele Prestipino, sono decollate indagini contro la ‘ndrangheta e le sue collusioni anche in stretta collaborazione con la Procura di Milano.
Il posto di procuratore capo di Roma l’avrebbe tanto voluto l’attuale reggente, il procuratore aggiunto, Giancarlo Capaldo.
Di chance ne aveva molte, ma un pranzo quanto meno inopportuno l’ha fatto cadere in disgrazia.
Nel dicembre 2010 è stato ospite a casa dell’avvocato Luigi Fischetti, legale del figlio, con a tavola l’allora ministro Giulio Tremonti e il suo braccio destro, il deputato del Pdl, Marco Milanese, indagato a Napoli e in quel periodo già  “attenzionato” dalla Procura di Roma che lo avrebbe messo sotto inchiesta nelle settimane successive.
Per quel banchetto la Prima commissione del Csm ha aperto un fascicolo.
Il nuovo procuratore di Roma, che dovrebbe insediarsi al massimo tra un mese e mezzo, dovrà  dare prova di resistenza alle pressioni che nell’ufficio soprannominato “il porto delle nebbie” sono sempre state fortissime. Sono in corso indagini delicatissime sulla corruzione.
Dalla mega inchiesta con tanti rivoli di Finmeccanica, a Sogei, Enav, un filone della P4, un filone di Mediatrade, Rai cinema e Rai spa.
Anche il prossimo procuratore di Napoli si ritrova un ufficio al centro di inchieste importanti e che hanno provocato polemiche a non finire.
Non solo quelle sulla camorra, sul clan dei casalesi in particolare, che vede indagato, tra gli altri, il deputato del Pdl, Nicola Cosentino, ma anche l’inchiesta su Valter Lavitola e la corruzione internazionale.
La partita per la direzione di Napoli è ancora aperta.
Sono 16 i candidati alla successione di Giandomenico Lepore, procuratore partenopeo fino al 15 dicembre scorso.
Fra loro hanno fatto domanda al Csm quattro procuratori aggiunti di Napoli: Francesco Greco, Rosario Cantelmo, Federico Cafiero de Raho e Sandro Pennasilico. C’è anche il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello.
Ci sono poi diversi procuratori che vorrebbero guidare l’ufficio napoletano.
Fra loro, Paolo Mancuso, procuratore di Nola.
A Napoli, fra l’altro, ha coordinato le inchieste che portarono alla collaborazione dei boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso; Corrado Lembo, procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Giovanni Colangelo, procuratore di Potenza e Francesco De Leo, procuratore di Livorno.
In questo momento i favoriti sembrano essere Colangelo, Mancuso e De Leo.
La nomina imminente, però, sembra essere quella del capo del Dap.
La poltrona di Franco Ionta, ex procuratore aggiunto di Roma e fino a poche settimane fa anche commissario straordinario per il piano carceri, traballa.
Nominato dal governo precedente, Ionta è criticato dall’alto e dal basso. Secondo quanto risulta a Il Fatto Quotidiano, quando ancora Berlusconi era premier, c’è stata una sollecitazione scritta del Quirinale perchè venisse affrontato il problema carceri, ma Ionta, pare che non abbia neppure risposto.
E giovedì scorso il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha parlato di “scarsi risultati” del piano carceri.
Diversi dirigenti dell’ufficio di Ionta e una larga fetta della polizia penitenziaria lamentano l’assenza di una politica carceraria.
Il ministro Severino ha tempo fino a metà  febbraio per confermarlo o revocarlo.
Le voci di via Arenula danno il capo del Dap in uscita anche se l’operazione non è facile, essendo Ionta un protetto di Gianni Letta.
Ma già  circolano nomi su chi potrebbe prendere il suo posto: Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano, Paolo Mancuso, che concorre, come detto, alla Procura di Napoli e che è già  stato vicedirettore del Dap, Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, una vita spesa per avere un sistema penitenziario civile.
Anche Maisto è stato un magistrato distaccato al Dap.
Nei corridoi del ministero della Giustizia girano, inoltre, i nomi di Giovanni Tamburino, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma e Angelica Di Giovanni, ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli.

Antonella Mascali
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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IL PARLAMENTO ITALIANO E’ IL PIU’ CARO D’EUROPA: TRE VOLTE QUELLO FRANCESE, SETTE VOLTE QUELLO INGLESE, DIECI VOLTE QUELLO SPAGNOLO

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

LA CASTA E LE SPESE DELLE ISTITUZIONI: A CONFRONTO I COSTI DI MONTECITORIO CON QUELLI DELLE CAMERE BASSE DEGLI ALTRI PAESI EUROPEI… A PESARE E’ LA STRUTTURA PIU’ DEGLI ONOREVOLI

Il dato in sè è impressionante e contiene uno dei paradossi del nostro Paese: i cinque grandi parlamenti nazionali d’Europa, Germania, Francia, Inghilterra, Italia e Spagna, costano 3,18 miliardi di euro l’anno, ma il Parlamento italiano spende più della somma degli altri quattro messi insieme.
E la sorpresa sta nel fatto che la colpa non è tanto degli stipendi della Casta, bensì dei costi di una struttura molto più dispendiosa.
La storia parte da lontano, se è vero, come raccontano i più anziani, che nel 1946, subito dopo il fascismo, si ritenne che fosse opportuno tenere il Parlamento sempre «aperto e agibile, un presidio democratico», con quel che ne conseguiva in termini di turni dei commessi e di apparati di sicurezza.
Oggi non è più così, da anni si chiudono i battenti alle 22 e una delle polemiche sotterranee investe proprio il dispendio di risorse.
Per una struttura che, di norma e salvo casi rari, potrebbe tranquillamente fermarsi due ore prima, evitando di far rimanere funzionari e documentaristi in servizio permanente effettivo pagandogli pure gli straordinari.
Ma il problema non è la quantità  della forza lavoro, tanto meno la qualità , vista l’alta professionalità  riconosciuta a tutte le maestranze di ogni ordine e grado, dai funzionari di prima fascia fino ai barbieri.
In Italia e Regno Unito, il numero di dipendenti per i due parlamenti è simile (1.620 contro 1.868) ma a fare la differenza è il costo pro capite.
Per dirla con Francesco Grillo della London School of Economics, che insieme ad Oscar Pasquali ha curato un’inchiesta per il think-tank Vision, gli altri parlamenti nel corso degli anni «hanno preferito assumere molti meno commessi e stenografi e viceversa molti più giovani assistenti che affiancano i parlamentari nel loro lavoro».
Dall’analisi comparata delle cinque più importanti «camere basse» d’Europa (Montecitorio, Bundestag, Assemblèe Nationale, House of Commons e Congreso de Los Deputados) emerge che «non è il costo dei deputati italiani a determinare questa situazione».
Perchè la spesa per le retribuzioni dei parlamentari in carica e in quiescenza è pari a poco più di un quinto del totale del bilancio 2011 di 1,66 miliardi di euro: dove il costo per il personale in servizio e in quiescenza è del 42,8%, contro il 23,8% destinato ai parlamentari.
E quindi, una delle conclusioni dell’inchiesta di Vision è che la norma inserita nella finanziaria di luglio che stabilì di equiparare il costo dei parlamentari alla media europea avrebbe dovuto prescrivere casomai di equiparare il costo del parlamento nazionale alla media degli altri.
Ad ogni cittadino italiano, il Parlamento costa tre volte di più che in Francia (27,15 euro rispetto a 8,11 euro), quasi sette volte più che in Inghilterra (4,18 euro) e dieci volte più che in Spagna (2,14 euro pro capite).
E non è tanto il numero dei parlamentari ad incidere (in Italia poco superiore alle medie europee) ma il costo del Parlamento per deputato.
«Più del 40% delle risorse del nostro palazzo sono assorbite dal personale della Camera. Stenografi o commessi – si legge nel documento – che individualmente arrivano, al massimo dell’anzianità , ad avere stipendi superiori ad alcune delle più alte cariche dello Stato».
Ed è vero che i nostri parlamentari, a differenza dei tedeschi, devono pagare i propri collaboratori a valere su uno specifico rimborso a forfait, che proprio oggi verrà  dimezzato con una delibera dell’ufficio di presidenza di Montecitorio.
«Tuttavia, mentre il parlamento tedesco (o quello europeo) paga direttamente assistenti parlamentari di qualifica elevata, il parlamento italiano paga, in misura maggiore, un numero assai più alto di commessi».
E qui scatta l’accusa del rapporto Vision: «Se è vero che non sono i parlamentari ad intascare la differenza di costo rispetto agli altri parlamenti europei, rimane una domanda ineludibile: come è possibile che i deputati italiani in cinquanta anni hanno consentito che crescesse e si consolidasse il sistema retributivo più assurdo di un paese che pure ha conosciuto privilegi di tutti i tipi?».
Passando dall’analisi alla proposta, tra le ipotesi su come riuscire a collegare costi della politica e qualità  dell’attività  legislativa e di governo, eccone una suggestiva: dare valore all’astensione, con una riduzione lineare dell’ammontare dei rimborsi elettorali collegata all’incremento oltre una certa soglia della quota di rinunce al diritto di voto, per stimolare i partiti «a migliorare la propria credibilità ».
Uno dei membri del Progetto Vision, Sandro Gozi, per anni di stanza a Bruxelles con Prodi e oggi deputato del Pd, sostiene che «oggi sono i giovani a pagare gli errori del passato perchè noi delle nuove generazioni preferiremmo avere due collaboratori in più pagati dalla Camera per preparare i dossier e fare meglio il nostro lavoro». L’accusa è che si sia lasciato lievitare un sistema «non più efficiente di quello di altri parlamenti, lasciando in una zona grigia il pagamento dei collaboratori: che adesso verrà  pure rendicontato al 50% per lasciare il resto ai partiti. È ridicolo. Se avessimo avuto una struttura con costi meno elevati e il cosiddetto portaborse pagato dalla Camera, non avremmo avuto l’esplosione dell’antipolitica».

Carlo Bertini
(da “La Stampa“)

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RIFORMA DEL LAVORO: NUOVI ASSUNTI SENZA ART. 18, MA IN CAMBIO ADDIO AL PRECARIATO

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

IL GOVERNO SPOSA LA LINEA BCE, DIMEZZATA LA NORMA ANTI-LICENZIAMENTI… NON CAMBIA NULLA PER GLI ATTUALI OCCUPATI

“Affronteremo tutti i problemi. Anche quello della flessibilità  in uscita. E vi sorprenderemo”. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, parla nella freddissima Davos, davanti ai potenti dell’economia globale.
E’ lo scorso giovedì, il tema della tavola rotonda è “Future of Italy”.
Il ministro, ex banchiere, sa benissimo che sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non saranno ammessi bizantinismi.
Servono soluzioni chiare, non necessariamente traumatiche. Comunque comprensibili in Europa.
Ad agosto la Bce (la Banca centrale europea, ora presieduta dall’italiano Mario Draghi) aveva indicato tra “i compiti a casa” anche quelli di superare, da una parte, il dualismo nell’attuale mercato del lavoro italiano, e, dall’altra, l’anomalia del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa.
La lettera arrivata da Francoforte resta un vincolo forte per il governo tecnico di Roma.
Lo ha detto più volte il ministro del Lavoro, Elsa Fornero; l’ha confermato il premier Mario Monti quando ha sostenuto che non possono esserci tabù nel momento in cui si avvia un negoziato per la riforma del mercato del lavoro; l’ha ripetuto Passera a Davos.
Perchè la globalizzazione è entrata nelle relazioni industriali. Non c’è solo il caso Fiat-Chrysler di Sergio Marchionne.
E’ stato Vittorio Colao, amministratore delegato della Vodafone, a sollevare la questione a Davos.
Il manager italiano trapiantato a Londra ha ricordato che un gruppo come il suo può decidere dove aprire un call center. Può installarlo in Italia, oppure in Egitto, per esempio.
Dipende dalle condizioni, dagli eventuali vantaggi fiscali, dalle potenzialità  della manodopera, e dalla possibilità  di programmare con certezza i costi che riguardano anche la flessibilità  in uscita.
Ed è qui che Passera ha risposto che il tema non sarà  eluso, perchè il recupero degli investimenti esteri in Italia (crollati dall’inizio della crisi del 2008), indispensabili per sostenere la crescita del Pil, si gioca pure su questo terreno, quello delle flessibilità  del lavoro.
E c’è una via d’uscita che, a questo punto, sembra la più probabile, almeno da quel poco che trapela dalle stanze del governo e dai rapporti informali con le parti sociali. E’ una via all’insegna dell’equilibrismo, tra ostacoli sindacali, pressione delle imprese, preoccupazione opposte dei partiti che sostengono l’esecutivo, vincoli europei.
L’articolo 18 non sarà  toccato per i lavoratori che oggi ne sono tutelati. Questa, ormai, sembra una certezza.
E Monti l’ha detto anche nel suo discorso programmatico in Parlamento. Cgil, Cisl e Uil, inoltre, non potrebbero mai far passare una riduzione delle protezioni per chi le ha, tanto più che si tratta di una quota di lavoratori che costituisce la maggior parte dei loro iscritti, gli stessi che hanno già  subìto il superamento delle pensioni di anzianità  e l’allungamento dell’età  per l’accesso alla pensione di vecchiaia.
Si profila, invece, uno scambio per i giovani precari, categoria centrale nell’approccio del governo alla riforma.
Il tracciato potrebbe essere più o meno questo: per chi viene assunto con un contratto a tempo indeterminato, provenendo dal bacino della precarietà  (a cominciare dai contratti a termine) non sarebbe previsto il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa (è quanto stabilisce l’articolo 18 che viene considerato un’anomalia tra i paesi europei) bensì un risarcimento economico (esattamente ciò che suggeriva la Bce nella lettera estiva).
L’ammontare del risarcimento crescerebbe con l’anzianità  di lavoro.
Resterebbe in ogni caso il divieto di licenziamenti discriminatori legati al sesso, alla religione, alla razza e così via.
Con un articolo 18 dimezzato, le aziende non avrebbero più l’alibi secondo il quale non si può assumere perchè poi sarebbe impossibile sciogliere il vincolo con il lavoratore.
I sindacati potrebbero accettare un meccanismo che già  oggi si adotta per i lavoratori delle piccole imprese nelle quali, appunto, l’articolo 18 non si applica, e questa potrebbe essere una prima pietra per avviare l’uscita dalla precarietà  dei giovani.
A nessun lavoratore attualmente occupato verrebbe tolto un diritto.
E il governo risponderebbe alle richieste della Bce.
Sorprendentemente, per usare l’espressione di Passera.
Ma le incognite restano comunque tante.
Perchè troppo delicato è il tema dell’articolo 18, perchè non è detto che i partiti restino a guardare, perchè la tenuta dell’unità  sindacale è sempre a rischio, perchè, infine, il fronte delle imprese è già  diviso, come sempre tra “falchi” e “colombe”.

Roberto Mania
(da “La Repubblica”)

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E’ GIALLO NELLA VERDE PADAGNA: MONTI RACCOGLIE L’80% CONSENSI SU RADIO PADANIA E IL SONDAGGIO SPARISCE DAL SITO WEB

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

IL GRADIMENTO PER IL CAPO DEL GOVERNO AVEVA RAGGIUNTO UN LIVELLO IMBARAZZANTE TRA LA BASE LEGHISTA E I TAROCCATORI PADAGNI CENSURANO IL SONDAGGIO DA LORO STESSI PROMOSSO… ROBA CHE NON ACCADREBBE NEANCHE IN TANZANIA

La spaccatura fra la base leghista e i vertici del partito esiste oppure o è un’invenzione mediatica?
I fischi che piazza Duomo aveva riservato a Bossi erano proprio per il Senatur, oppure (come dice Renzo) c’è stato un problema di sincronizzazione fra audio e video ed erano rivolti a Monti?
E’ tempo di dilemmi, in casa Lega.
Nelle ultime ore a chiarire qualche dubbio ci aveva pensato Radio Padania Libera.
O meglio, gli ascoltatori delle frequenze leghiste.
Subito dopo la manifestazione di sabato, infatti, la radio aveva deciso di lanciare un sondaggio on line sul proprio sito.
Domanda secca: «Cosa ne pensi dei primi mesi di attività  del governo Monti?».
Un quesito che, seguendo quello che è il pensiero del partito, non avrebbe dovuto lasciare scampo all’attuale premier.
Del resto la Lega è, ad oggi, il più grande partito d’opposizione.
E Bossi non nasconde, un giorno sì e l’altro pure, il malcontento verso questo esecutivo, definito “infame”.
Invece il risultato era stato sorprendente.
Oltre l’80% dei votanti (su 5493 voti) s’era detto favorevole a Mario Monti.
Il 71,1, addirittura, si diceva «molto soddisfatto».
I delusi erano circa il 3%.
Gli «arrabbiati», invece, il 12,9.
Un giudizio che lasciava poco spazio ai commenti.
E che forse evidenziava in modo netto, se i numeri hanno ancora un senso, la divisione fra la base del partito e chi sta al timone.
Ma il sondaggio non si trova più.
E in Rete la notizia già  spopola sui social media.
Sulla home page del sito non ve n’è traccia. Sparito.
L’area sondaggi, nella side bar sinistra, è completamente vuota.
Solo chi ha conservato il vecchio link può ancora accedere e visualizzare i risultati.

Biagio Simonetta
(da “Il Corriere della Sera”)

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POLITICI IN FUGA: “NON ROMPERE I COGLIONI…”, MA ADESSO SCAPPANO

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

L’EX MINISTRO CASTELLI CHE LASCIA SERVIZIO PUBBLICO QUANDO UN OPERAIO SARDO GLI URLA “NON ROMPERMI I COGLIONI” E’ IL SINTOMO DEL TRACOLLO DEI PARTITI, PRECIPITATI AL 9% DI CREDIBILITA’….I POLITICI-DINOSAURI HANNO L’ACQUA ALLA GOLA

“Castelli, non rompere i coglioni a me, eh”.
Con queste parole, scandite giovedì a Servizio Pubblico, l’operaio disoccupato Antonello non ha soltanto costretto alla goffa fuga l’ex ministro leghista.
Ha mostrato, inequivocabilmente, lo scollamento che esiste tra piazza e casta.
E l’imbarazzo che i gerarchi tradiscono quando il salotto televisivo non è quello dei talk precotti, ma osa porgere il microfono alla gente comune.
Senza (più) timori reverenziali verso i politici.
La puntata di giovedì è stata a suo modo storica.
Ecco perchè merita, forse, una telecronaca doviziosa.
Minuto 20 “I nodi vengono al pettine”:
Enrico Letta comincia col cipiglio che gli è consono (quello del carlino appisolato). Passare dalla rivolta dei forconi alla flemma piddina si rivela straniante, come abbandonarsi lascivamente a una mazurka di Casadei dopo un rave party.
Minuto 30 Finalmente (come no) parla Castelli, con quel bel visino da Fonzie canuto al Bar della Polenta Taragna, e quella vocina da cyborg senza pile.
Castelli parte con un freestyle in cui parla senza dire nulla. Come ai bei tempi.
Che però non son più belli (per lui).
Minuto 35 “C’è una grande insipienza politica”.
È la volta di Maurizio Zamparini, il mangiallenatori biscardiano.
Zamparini ricorda a Castelli che lui, fino all’altro giorno, era al governo. E quindi lo sfacelo è anche colpa della Lega.
Raccoglie applausi scroscianti. In effetti, come arringatore, Zamparini — non esattamente Engels o Popper — mostra doti inattese.
“Loro (rivolto a Castelli) sono la causa, insipienti!”.
Notare il curioso uso reiterato della parola “insipienti”, imparata evidentemente un minuto prima sul Devoto-Oli.
Minuto 40 Santoro ricorda che i forconi sono nati con Berlusconi.
Lo fa anche per togliere un alibi alle tesi complottistiche di Monti. Di fatto è un assist per Castelli.
Il quale, sveglio come una lince in letargo, blatera: “Eh ma voi siete proprio ossessionati da Berlusconi”.
È la stessa frase ripetuta nelle settimane precedenti da Santanchè e Mussolini: nella banalità , il centro-destra è ancora ampiamente coeso.
Santoro scrolla la testa, come Savicevic quando elargiva assist a Pancev. E Pancev, detto “Ramarro”, li sbagliava. Sempre.
Minuto 50 Castelli desidera “rispondere a quello lì che non conosco” (il fingere di non sapere i nomi degli avversari è altra prassi antica Pdl).
Ecco la sua “risposta: “Lei è un ignorante” (ulteriore topos dei berluscones; tu argomenti, io sfanculo).
In un rutto di genialità , Castelli lamenta poi la chiara presenza di una claque pro-Zamparini. Come dargli torto.
Ogni giovedì, i suoi fans assaltano gli studi per entrare: Zamparini, si sa, è un po’ lo spin doctor di Santoro.
Minuto 58 È il momento di Enrico Letta. Quindi possiamo andare avanti.
Minuto 76 Castelli si vanta d’esser stato ministro dei Trasporti. Un po’ come se Schettino si vantasse di quanto bene dribbli gli scogli.
Minuto 83 Castelli boccheggia livido: “La Sicilia è quella che spreca di più. Voi avete 23 mila dipendenti pubblici, mentre in Lombardia ce ne sono solo tremila”.
I protestanti attaccano anche Letta: “Siete tutti uguali, dov’è finita la vertenza per ridurre i costi della politica?”.
Letta non risponde, e questo è normale (non rispondere è la linea politica del Pd), mentre è inedita la definitiva percezione di come quei manifestanti — in collegamento da Siliqua, Sardegna — stiano usando il linguaggio che apparteneva alla prima Lega.
Castelli, di colpo, appare un relitto.
È superato nel suo stesso (presunto) terreno.
Non solo non ha argomenti, cosa arcinota; non ha nemmeno più appigli.
Non può parlare nè alla testa (mai fatto) nè alla pancia (sempre fatto), perchè ciò che dice non interessa più.
Da giovedì, Castelli è ufficialmente un dinosauro. Di cui mai nessun archeologo si interesserà  mai.
Minuto 90 Castelli esala un “perchè bocciare la mia proposta tout court?”, ignaro del significato dell’espressione “tout court” (che infatti pronuncia “tukurt”).
È qui che appare Antonello, operaio disoccupato dell’Eurallumina di Portovesme.
In pochi secondi, riassume 18 anni di malapolitica: “Castelli, non rompere i coglioni a me, eh”, “A me non me li rompi i coglioni tu”.
Una sintesi meravigliosa, liberatoria e iconoclasta, già  divenuta tormentone in Rete.
Castelli, puerilmente, abbandona lo studio. Attenzione: è una fuga inedita. Non è esibizione di arroganza, come Berlusconi da Lucia Annunziata.
E non avviene per un attacco di un “pari grado” (Mastella, Santanchè).
Castelli, letteralmente, scappa.
È l’emblema del politico sconfitto, senza più armi di fronte al semplice cittadino.
Non è un caso — sarebbe oltremodo erroneo pensarlo — che lo sfogo si sia verificato nel momento esatto in cui tutti i politici, con l’eccezione miracolistica di Monti, stiano patendo un livello di consenso minimo.
Tutti, da Berlusconi a Bersani, Lega (ampiamente) inclusa.
A fuggire è stato Castelli, ma la faccia di Letta, ancor più quando Marco Travaglio ha scudisciato lo zio, non era certo più serena: egli era ben conscio di apparire, agli occhi della piazza, egualmente colpevole e “correo”.
Guai a ridimensionare lo sfogo di Antonello a mero atto folclorico.
La sua arringa è stata forse un po’ sgrammaticata, ma lucidissima: “Tu, e la classe dirigente degli ultimi 30 anni, ha commesso il reato più grave che si poteva fare. Ha rotto il patto tra generazioni”.
Parole che qualsiasi opposizione, se solo esistesse, dovrebbe far proprie.

Andrea Scanzi
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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VIA ALLE EPURAZIONI: LA LEGA METTE LA SORDINA ALLA BASE IN RIVOLTA.

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

LO SCONTRO BOSSI-MARONI DILANIA IL CARROCCIO. IN VENETO L’EX SENATORE FILIPPI ATTACCA IL BOSSIANO GOBBO, TOSI PENSA A UNA LISTA CIVICA E VENGONO ESPULSI DECINE DI MILITANTI

“Caro Gobbo, perchè non porti il tuo culone sotto un gazebo e non provi ad ascoltare i militanti che ti hanno contestato durante il comizio? Magari scopri che le critiche possono essere utili”.
Affogano nel mare in burrasca del Carroccio le parole del senatore Filippi, ex leghista buttato fuori a calci dai vertici (“sono l’unico senatore che sia mai stato espulso”).
Una cacciata di peso, ma è solo l’ultima di tante espulsioni senza motivo, giura l’imprenditore vicentino di famiglia danarosa e qualche grana con la giustizia.
Pugno di ferro o l’ennesimo segno di debolezza di un movimento che ha perso la bussola, mentre Maroni va Verona a sostenere Tosi e sabato prossimo calerà  Calderoli per tentare di mettere un punto alla lite Tosi-Gobbo?
Nel magma leghista Filippi lancia frecce avvelenate a uno dei totem della Liga veneta: Gian Paolo Gobbo, segretario del partito e bossiano di ferro.
Il fattaccio risale a poco tempo prima, e parla ancora una volta di espulsioni. “Due militanti hanno contestato le parole di Gobbo durante un comizio a Schio. Dopo qualche giorno senza ascoltare ragioni sono stati espulsi con una lettera dalla Lega”.
Arrivederci e grazie.
Anche lui, l’onorevole che amministra una ditta di prodotti chimici ad Arzignano, è stato defenestrato senza troppi convenevoli. “Come me sono tantissimi quelli che ricevono in questo periodo la lettera di espulsione dalla Lega”.
L’amarezza scende assieme al veleno della vendetta, ma le dichiarazioni di Filippi sono lo specchio della frana che si sta aprendo nel Carroccio veneto: “20 espulsi su 30 militanti ad Arzignano (la sua culla elettorale, ndr), moltissime sezioni commissariate nel Vicentino oltre alla sede cittadina di Padova, commissariata da oltre un anno”.
La verità ? Il nodo della partecipazione leghista è passare da sostenitore a militante, quindi con diritto di voto.
“E sa cosa hanno fatto? Ci sono tanti militanti anziani che si sono iscritti 20 anni fa — siamo il partito più longevo d’Italia — e nessuno è andato a far loro rinnovare le tessere. Non li hanno contattati, e così sono arretrati a semplici sostenitori, cioè senza diritto di voto”.
Un modo per concentrare il potere e governare i voti.
A Longare nel Vicentino una decina di sostenitori non sono diventati militanti: “Con la scusa che erano parenti tra loro. Ovviamente è una motivazione risibile”.
A Vicenza si è inventata la regola che “i militanti devono essere un terzo dei sostenitori”.
Così sono state bloccate tutte le richieste per diventare militante: “I militanti a Vicenza sono 53 in tutto, una manciata per chi deve pilotarli e un numero ridicolo per una città  che ha cullato il leghismo (con Stefano Stefani e Manuela Dal Lago in sella da 20 anni) fin dalla prima ora.
Ma Vicenza e Padova commissariata (“Ma lei sa che il commissario padovano è Bricolo? C’è tanto scontento anche li tra i militanti”) sono solo le retrovie della battaglia, l’epicentro dello sfaldamento è altrove: cerchio magico contro barbari sognanti (povero Slataper), bossiani contro maroniani.
Ora persino “la velina verde”, il sito che era scomparso e si dice sia legato ai cerchisti e a Reguzzoni, torna sul web e attacca Maroni con toni durissimi: «Sei il Fini della Padania, vergognati».
Piccoli focolai che in Veneto si traducono in Gobbo contro Tosi.
Potevano mancare in questo clima le baruffe chioggiotte?
“A Chioggia il caso Malaspina segretario di sezione espulso dalla Zaccariotto presidente della Provincia di Venezia insieme ad altri 18 militanti cacciati: come lo giustificano?”, dice Filippi.
Per essere sicuri i vertici del partito hanno cambiato la serratura della sede chioggiotta e da quest’estate segretario ed espulsi fanno le riunioni al bar.
Un’epurazione in salsa veneta che forse non risparmierà  nemmeno Tosi, raggiunto da sanzioni disciplinari plurime e intenzionato a correre con una lista nominale e senza Pdl alle prossime amministrative .
“Se la Lega non è d’accordo lascio la politica”, ha detto lapidario dopo che il nemico Gobbo, primo cittadino di Treviso, gli ha fatto sapere il suo dissenso. Lo appoggia invece Gentilini, 83enne vicesindaco di Treviso, che promette di candidarsi pure lui alle amministrative con una civica personale.
Una scelta che assieme alle parole di Bossi anti-Formigoni rischia di mettere a repentaglio le 150 amministrazioni locali che governano in Veneto con l’asse Pdl-Lega.
Ma ormai è guerra senza quartiere.
“Ma la base, i militanti sono sani: la Lega è un movimento puro”, chiosa Filippi.
Però? “Però i vertici non stanno facendo bene il loro dovere. Stanno riducendo il partito a un regime nord-coreano, devono smettere di buttare fuori militanti con motivi imbarazzanti e Bossi e Maroni si devono chiarire”. Come finirà ?
“Non leggo gli oroscopi, non so prevedere il futuro”.

Erminia della Frattina
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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LA CASTA VIAGGIA GRATIS E GLI ITALIANI PAGANO 17 MILIONI

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

I TRASPORTI DEI PARLAMENTARI COSTANO 17 MILIONI DI EURO OGNI ANNO…VIAGGIANO GRATIS ANCHE GLI EX DEPUTATI

Camera e Senato sono impegnati, in questi giorni, a vedere dove si possa operare una qualche risparmio.
Tra diaria, appalti e bonus, si è pensato di dare una sforbiciata anche ai viaggi di deputati e senatori, puntando sulla buona volontà  di questi.
Ogni onorevole, oggi, può viaggiare gratuitamente sul territorio nazionale, che prenda aereo, nave o treno.
Non paga i pedaggi autostradali, e riceve, alla Camera, un ulteriore rimborso per percorrere la distanza da casa all’aeroporto più vicino e dallo scalo di Fiumicino a Montecitorio (la cifrà  è di 3.323, 70 euro a trimestre che diventano 3.995, 10 se l’aeroporto dista più di cento chilometri da casa).
Al Senato non esiste una voce unica, ma è previsto un rimborso forfettario di 1. 650 euro al mese che va a sostituire quei bonus che un tempo erano le “spese accessorie di viaggio” e le “ricariche telefoniche”.
I viaggi dei parlamentari sulla rete nazionale sono sempre gratuiti, che l’onorevole sia in viaggio per lavoro o che parta per le vacanze.
Sui trasporti, i Questori della Camera ritengono di poter risparmiare nell’anno a venire la bellezza di un milione di euro.
I senatori questori, invece, la consistente cifra di mezzo milione di euro.
Come? Invitando i parlamentari a spendere meno.
Facile, ma come si fa?
Nel bilancio della Camera 2010 le “Spese di trasporto” ammontano a
11.605. 000 euro, così divisi: 8. 180.000 per viaggi aerei, 1. 650.000 per i treni, 600.000 per i pedaggi autostradali, 200.000 per autonoleggio.
Altri 15.000, infine sono stati investiti alla voce “altre spese di trasporto”.
La Camera, a differenza del Senato, separa nel proprio bilancio la spesa di trasporto dei deputati eletti all’estero.
È una cifra considerevole: far arrivare in Parlamento i 12 onorevoli dai cinque continenti costa in un anno la bellezza di 950. 000 euro (anche perchè, prima che l’ufficio di presidenza suggerisse di tirare la cinghia, gli eletti all’estero prediligevano la classe business per il lungo tragitto).
Ma i cittadini italiani non pagano solo i viaggi sul territorio nazionale ai deputati in carica. Montecitorio spende circa 900mila euro l’anno per far viaggiare gratis gli ex deputati.
Non dovunque, però. Chi è stato eletto almeno una volta alla Camera può beneficiare di dieci voli aerei gratis ogni anno e della possibilità  di viaggiare in treno su Intercity e Regionali, ma non sui Frecciarossa.
Per il 2010 Palazzo Madama ha speso 1. 300. 000 euro per il trasporto degli ex senatori contro una previsione iniziale di 1. 900. 000.
Trasportare invece i senatori in carica è costata alle casse del Senato 5. 810. 000 euro contro una previsione iniziale di 5. 220. 000.
Più o meno quello che è stato risparmiato dagli ex senatori è stato speso in viaggio da quelli in carica.
Tecnicamente funziona così: il parlamentare mostra la propria tessera e sono poi le compagnie aeree, ferroviarie o marittime a far arrivare il conto alla Camera di appartenenza.
Lo stesso avviene per i pedaggi autostradali. Il parlamentare dispone di un apparecchio telepass e di una viacard: il conto arriva al Parlamento.
Ma cosa succede nel resto d’Europa?
Una situazione simile a quella italiana si può riscontrare solo in Belgio.
In Germania è gratuita la circolazione ferroviaria; per i voli interni, però, si possono chiedere rimborsi motivati.
La Francia ha un sistema misto: il deputato dispone di un abbonamento ferroviario, di 40 voli andata e ritorno dal collegio dal quale proviene e di altri 6 viaggi (sempre a / r) fuori da quello.
In Spagna il meccanismo è legato alla diaria: i viaggi all’interno del territorio nazionale consentono di ottenere una diaria di 120 euro al giorno.
Per quelli all’estero la dia-ria sale a 150 euro.
L’Olanda paga ai propri deputati il viaggio in treno in prima classe.
Se non esistono mezzi pubblici l’onorevole ha un rimborso per l’utilizzo dell’auto propria di 0, 37 euro per ogni chilometro percorso.
In caso esistano mezzi pubblici il rimborso è assai più misero: 0, 9 euro a chilometro.
In Austria, infine, gli onorevoli dispongono di un piccolo forfait di 489 euro al mese che però viene ricompreso nella voce omnicomprensiva delle “spese di rappresentanza”.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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BOSSI E BERLUSCONI: “C’ERAVAMO TANTO ODIATI”

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

DAL “MAFIOSO DI ARCORE” ALLA “MEZZA CARTUCCIA”… QUANDO SILVIO REPLICAVA “CADAVERE POLITICO” E “MENTALITA’ DISSOCIATA”

“Mezza cartuccia” è ancora poco, per gli standard di Umberto Bossi.
L’altra grande frattura con Silvio Berlusconi, consumata nel 1994 con la caduta del primo governo del Cavaliere, aprì una stagione di insulti senza precedenti nella storia politica italiana.
Per il leader leghista, l’ex alleato era diventato “il mafioso di Arcore”, “il grande fascista”, nonchè un “suino”. E via così.
Tra il 1994 e il 1999, la Lega ha condotto una durissima campagna contro il Cavalier “Berluskà z” o “Berluskaiser”.
Il primo filone prendeva spunto dalle inchieste palermitane sui rapporti tra Cosa nostra e la Fininvest.
Per Bossi, “Berlusconi è l’uomo della mafia, un palermitano che parla meneghino, nato nella terra sbagliata e mandato su apposta per fregare il Nord”, scrive sulla Padania il 19 agosto 1998.
“La Fininvest è nata da Cosa Nostra. Ci risponda, Berlusconi, da dove vengono i suoi soldi”.
Silvio “riciclava i soldi della mafia” (7 luglio 1998), o meglio “quel brutto mafioso” guadagna “i soldi con l’eroina e la cocaina (Corriere della sera, 15 settembre 1995).
Il secondo filone dipinge l’ex e futuro alleato come un fascista, anzi “il grande fascista di Arcore” (10 aprile 1995, La Repubblica). Berlusconi è “peggio di Mussolini” (16 giugno 1998, La repubblica), “un mostro antidemocratico” (11 febbraio 1995), “suino Napoleon” (4 luglio 1995, La Stampa), “Nazista, nazistoide, paranazistoide” (14 gennaio 1995, Corriere della Sera). In più è un “incapace”, una “febbre malarica”, con una “tendenza alla vaccaggine” (13 gennaio 1995, Corriere della sera).
Bossi lo dice chiaro: “Bisogna che si mettano in testa tutti, anche il Berlusconi-Berluskà z, che con i bergamaschi ho fatto un patto di sangue: gli ho giurato che avrei fatto di tutto, che sarei arrivato fino in fondo, per avere il cambiamento. E non c’è villa, non c’è regalo, non c’è ammiccamento che mi possa cambiare strada… Berlusconi deve sapere che c’è gente che ne ha piene le tasche e che è pronta a far il culo anche a lui” (1 novembre 1994).
Bossi è incontenibile. Per lui, Berlusconi è “Wanna Marchi”, “bollito”, “povero pirla”, “ubriaco da bar”, “piduista”, “molto peggio di Pinochet”.
Berlusconi, di rimando, definiva Bossi “un uomo dalla mentalità  dissociata”, “ladro di voti”, “pataccaro”, “cadavere politico”, “sfasciacarrozze” con il quale “non mi siederò mai più allo stasso tavolo”.
Poi all’avvicinarsi delle elezioni politiche del 2001, i due leader del centrodestra capirono che solo una nuova alleanza avrebbe garantito la vittoria nel collegi elettorali del Nord e quindi nel Paese, come in effetti avvenne.
Cinque anni di insulti sanguinosi furono archiviati, Berlusconi ritirò la montagna di querele contro Bossi e La Padania.
Con l’avvento del governo di Mario Monti, la saga ricomincia.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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TAGLIATE LE INDENNITA’ DI 200 ONOREVOLI VIP DEL 15%, MA IL DEPUTATO NON VUOLE PIU’ FINANZIARE IL PARTITO

Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile

LA RIDUZIONE COLPIRA’ CHI INCASSA PER LE PRESIDENZE DELLE COMMISSIONI DA 1.000 A 4.000 EURO

Taglio del 15% per tutte le indennità  aggiuntive percepite da circa 200 parlamentari, tra componenti degli uffici di presidenza di Camera e Senato, presidenti, vice e segretari di commissioni e giunte.
L’input di Gianfranco Fini è stato recepito dai collegi dei questori dei due rami del Parlamento, riuniti per mettere a punto le misure che lunedì saranno varate in via definitiva.
Si parte da subito col taglio ai più privilegiati tra i privilegiati (da mille a 4 mila euro al mese in più).
Ma nel vertice è stato anche deciso che il rimborso per il “portaborse” resterà  forfettario per il 50 per cento, senza bisogno di alcuna “pezza giustificativa”. Nonostante la marcia indietro rispetto alla stretta iniziale, in Transatlantico monta il malessere in tutti i gruppi.
Perchè a quel budget i deputati hanno attinto finora per versare il contributo ai rispettivi partiti.
Ora che duemila euro andranno coperti da contratti e bollette “veri”, gli onorevoli non vogliono più devolvere i restanti 1.800 ai loro tesorieri.
Confermato invece il passaggio dal vitalizio al sistema contributivo, evitando però il conseguente aumento del netto in busta paga che già  più di un imbarazzo stava provocando in tempi di magra. Il varo ufficiale a Montecitorio è previsto lunedì, a Palazzo Madama slitta a martedì.
I parlamentari del Pd versano ogni mese 1.500 euro al partito. Come i loro colleghi dell’Udc.
Alla Lega la quota sale a 1.800 euro.
Più light la “tassa” nel Pdl, 800 euro solo su base volontaria.
Ora però la scure sul contributo per il “portaborse”, divenuto contributo per l’esercizio del mandato (3.690 euro alla Camera, 4.100 al Senato), sta per spaccare parlamentari e loro gruppi di appartenenza.
Il taglio alla fine sarà  inferiore al previsto, gli onorevoli dovranno giustificare con contratti e bollette solo la metà  di quel budget, dunque continueranno a essere corrisposti loro a forfait tra i 1800 e i 2000 euro al mese.
Ma è poco più della cifra che dovrebbero continuare a corrispondere ai loro partiti. Molti sono pronti ad aprire il caso. Intanto, come spiega il questore del Senato Benedetto Adragna, la figura del portaborse sarà  disciplinata da un ddl messo a punto dagli stessi questori o dagli uffici di presidenza, non da iniziative individuali (vedi Moffa).
In ogni caso, sarà  esclusa la possibilità  di ricorrere al giudice del lavoro per i collaboratori ai quali non viene rinnovato il contratto.
I questori di Camera e Senato hanno confermato l’adeguamento delle nuove pensioni (col sistema contributivo e non più vitalizi) alle figure “non contrattualizzate” della pubblica amministrazione.
Ovvero a magistrati, prefetti e generali dell’esercito.
Come pure viene confermato lo slittamento dell’età  pensionabile ai 60 anni (con più legislature) o 65 (con una sola) sia nell’uno che nell’altro ramo del Parlamento.
Misura drastica che fa scivolare anche di un decennio la quiescenza per una generazione di cinquantenni. Infatti alla Camera pendono già  18 ricorsi che il Consiglio di giurisdizione interna, presieduto da Giuseppe Consolo (Fli), esaminerà  il primo febbraio.
Se i ricorsi, per lo più di ex parlamentari, saranno accolti, altre decine se non centinaia ne seguiranno.
I collegi dei questori hanno messo nero su bianco anche il passaggio al sistema contributivo per tutto il personale delle rispettive amministrazioni. Il presidente del Senato Schifani ha già  varato un decreto in materia.
Deputati e senatori continueranno a percepire i loro 3.500 euro netti mensili a titolo di diaria, per le spese di mantenimento a Roma.
Adesso anche il Senato, come già  la Camera da qualche mese, introduce il registro delle presenze che consentirà  di penalizzare con una decurtazione da 200-300 euro ogni assenza del parlamentare in commissione.
Finora la penalità  era in vigore solo per quelle in aula.
Il nuovo sistema entrerà  in vigore a febbraio e comporterà  anche a Palazzo Madama il ricorso appunto a un registro da firmare.
Da quando il meccanismo è stato adottato a Montecitorio, in autunno, le presenze alle riunioni di commissione fino ad allora al lumicino sono aumentate in misura esponenziale.
Molto probabile che il fenomeno si ripeta al Senato.
Così come la diaria, anche l’indennità  netta di circa 5 mila euro mensili resta comunque intatta.
Voci che sommate alla quota forfaittaria rimasta a titolo di rimborso per il portaborse (1.800 alla Camera, 2000 al Senato), compongono uno “stipendio” netto che per gli onorevoli si aggirerà  adesso attorno ai 10.300-10.500 euro.
Deputati e senatori pagano l’Irpef solo sull’indennità  in senso stretto, una delle tre voci del loro “stipendio”.
Di conseguenza, si avvantaggiano di un risparmio del 53 per cento rispetto agli altri contribuenti.
La stima è stata elaborata da Fiscoequo. it, sito dell’associazione per la legalità  e l’equità  fiscale. “Per i parlamentari – si legge nello studio – il benefit è sempre esentasse. Grazie ad una interpretazione estensiva della norma da parte dei due rami del Parlamento ogni anno deputati e senatori incassano circa 110.000 euro senza pagare l’Irpef, con un risparmio d’imposta di circa 50.000 euro. Il deputato tipo riceve in un anno complessivamente 246.295 euro (indennità  lorda annua di 135.400 euro e altri benefits pari a 110.895) e subisce una tassazione ai fini Irpef pari a 44.628 Euro. Se le stesse somme, a titolo di stipendio e di benefit, fossero corrisposte a qualsiasi altro cittadino, manager o alto dirigente, l’imposta Irpef dovuta ammonterebbe a 95.031 Euro”.
Conclusione: “Un risparmio di imposta di 50.403 euro”.

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)

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